Partito comunista italiano

Formazione politica italiana, fondata nel congresso di Livorno il 21 gennaio 1921 con il nome originario di Partito comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale comunista. Fu costituito dalla frazione comunista del Partito socialista italiano, nata a Imola nel novembre 1920 e composta dal gruppo napoletano guidato da Amadeo Bordiga, da quello torinese dell’“Ordine Nuovo” (Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti, Angelo Tasca) e dai membri della “Circolare comunista” (Anselmo Marabini, Egidio Gennari, Antonio Graziadei, Nicola Bombacci). Alla frazione comunista, nel congresso di Livorno del 1921, si unirono altri socialisti, come Onorato Damen, Bruno Fortichiari, Luigi Repossi, Ruggero Grieco, Luigi Polano e Giuseppe Berti, per fondare il nuovo partito. Ad allontanare il PCd’I dal PSI furono l’incapacità o scarsa volontà di quest’ultimo di dare un’organizzazione alla spinta rivoluzionaria manifestata dalle masse nel biennio rosso (1919-20) e il rifiuto comunista di coalizzarsi con i partiti della borghesia in una comune lotta antifascista. Il pretesto della scissione fu la mancata espulsione, da parte del PSI, dei riformisti, prevista come condizione per poter aderire alla Terza Internazionale. Nel 1924 confluirono nel PCd’I i socialisti “terzinternazionalisti” (Giacinto Menotti Serrati, Giuseppe Di Vittorio, Gerolamo Li Causi), espulsi dal PSI nel 1923 e detti anche “fusionisti” perché volevano ricostruire un unico partito della sinistra rivoluzionaria in Italia. Primo segretario del PCd’I fu Amadeo Bordiga, grande organizzatore, convinto della necessità di costruire in Italia un partito coerentemente rivoluzionario (come da tempo non era più il PSI) per preparare la rivoluzione comunista. La sua chiusura nei confronti di ogni altro partito, compreso il PSI, diede alla sua gestione un’impronta marcatamente settaria. Dopo l’arresto di Bordiga da parte del regime fascista – che dichiarò il PCd’I fuorilegge nel 1925 – la guida del partito passò al gruppo torinese degli ordinovisti. La linea di Antonio Gramsci batté il settarismo bordighiano nel congresso di Lione del 1926, in cui fu affermata la necessità di creare un nuovo blocco storico, che unisse operai del nord e contadini del sud nella lotta contro il fascismo. Il PCI fu l’unico partito antifascista che riuscì a conservare in Italia una rete clandestina di qualche migliaio di quadri durante il regime di Mussolini. Ben 4000 (su 5000) condannati dal Tribunale Speciale furono comunisti. Ciò contribuì a radicare il PCI nella società italiana, consentendogli di avere una presenza preponderante nelle file della Resistenza e di diventare un grande partito di massa nel secondo dopoguerra. Durante la prigionia di Gramsci, condannato nel 1926 al carcere nel quale restò fino alla morte (1937), emerse la direzione di Palmiro Togliatti, confermata dal congresso di Düsseldorf (1931) e durata fino alla sua morte (1964). L’assoluta fedeltà di Togliatti alle indicazioni di Mosca portò il PCI ad avere una storia parallela a quella dell’Internazionale comunista: furono di volta in volta espulse le correnti considerate di destra (Angelo Tasca, nel 1929), o di sinistra (Bordiga, 1930), o troppo vicine a Trockij (Pietro Tresso, Paolo Ravazzoli, Alfonso Leonetti). Finché la Terza Internazionale condannò i socialisti, accusandoli di “socialfascismo”, il PCI rifiutò ogni collaborazione col PSI e, a maggior ragione, non entrò nella Concentrazione antifascista sorta a Parigi nel 1927 a opera di partiti “borghesi”. Ma quando nel 1935 l’Internazionale, preoccupata dall’avvento del nazismo in Germania, abbandonò la teoria del socialfascismo e propose la politica del fronte popolare, anche il PCI rinsaldò il patto d’unità d’azione con il PSI (1934), che si cementò nella comune partecipazione alla guerra civile spagnola (1936-39). Una temporanea interruzione dell’unità d’azione fu causata nel 1939 dal patto Molotov-Ribbentrop tra la Russia di Stalin e la Germania nazista, ma l’aggressione dell’URSS da parte dei tedeschi nel 1941 consentì un rapido riavvicinamento. Negli anni della seconda guerra mondiale il PCI fu attivissimo nell’organizzare la lotta per abbattere il regime fascista, mobilitando gli operai (che nel 1943, a Torino, tornarono a scioperare dopo un ventennio di dittatura), entrando a far parte parte del CLN e dando un contributo determinante alla Resistenza con le “brigate Garibaldi”. In questi anni maturò la conversione organizzativa e programmatica del PCI di Togliatti, che si concretizzò nella “svolta di Salerno” e nella nascita del “partito nuovo” fondato sulla combinazione del partito di quadri con quello di massa. L’obiettivo della rivoluzione comunista fu sostituito con quello, più moderato, della costruzione in fase transitoria in Italia di una repubblica di “democrazia progressiva”, da realizzare con la collaborazione delle grandi forze popolari marxiste, laiche e cattoliche. Si riconobbe il ruolo positivo della proprietà privata per la ricostruzione economica del paese dopo la guerra. Per consentire ampie convergenze nella lotta antifascista, Togliatti, nel 1944, rinunciò alla pregiudiziale repubblicana, entrando nel regio governo di Ivanoe Bonomi (e rimanendo nelle successive coalizioni governative fino al 1947). Nel dopoguerra il PCI raccolse i frutti del grande attivismo e della direzione togliattiana, confermandosi grande partito di massa fin dal 1946, quando raccolse quattro milioni di voti (il 19% dell’elettorato) alle elezioni dell’Assemblea costituente e poté contare su quasi due milioni di iscritti. La sua forza si concentrò particolarmente nelle regioni “rosse” (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Liguria) e tra le masse operaie e contadine, ma conquistò consensi anche tra gli intellettuali e nei ceti medi. Nel 1947 fondò con il PSI il Fronte popolare, che fu duramente sconfitto dalla Democrazia cristiana alle politiche del 1948, caratterizzate da un intenso scontro ideologico. Sempre nel 1948 il PCI confermò la sua scelta legalitaria, frenando quanti, in seguito a un attentato a Togliatti, volevano dar corso a un tentativo rivoluzionario. Il moderatismo della gestione togliattiana provocò la nascita nel partito di una corrente di sinistra, che si riconosceva in Pietro Secchia. Ma in politica internazionale il PCI continuò a opporsi allo schieramento occidentale dell’Italia e alla sua adesione al Patto atlantico. Nel 1953 combatté contro la “legge truffa”, finalizzata a consolidare l’egemonia democristiana con un premio di maggioranza alle liste apparentate che avessero ottenuto il 50,01% dei voti. La “legge truffa” riuscì a passare, ma il meccanismo non scattò per poche migliaia di voti. Il 1956 fu un anno difficile per il movimento comunista italiano e internazionale: il XX congresso del PCUS aveva resi noti i crimini di Stalin, fino ad allora mito indiscusso del popolo comunista, e l’invasione sovietica dell’Ungheria creò una crisi interna profonda. Togliatti, pur ribadendo i propri legami con Mosca, accentuò il tema della “via italiana al socialismo” (già presente nella “svolta di Salerno” del 1944), diversa da quella russa per la scelta della democrazia e delle “riforme di struttura” come mezzi per giungere al superamento del capitalismo (VII congresso, 1956). Ciò non evitò una crisi di identità nel partito, che perse voti e iscritti, e che registrò la defezione di personalità come Antonio Giolitti e l’espulsione della corrente di sinistra di “Azione comunista” (Seniga, Raimondi, Fortichiari). La ripresa comunista avvenne negli anni Sessanta, pur nel contesto della nuova crisi internazionale tra l’URSS e la Cina comunista, che vide il PCI schierarsi ancora una volta dalla parte dei sovietici. L’alleanza del PSI con la DC nella nuova formula del centrosinistra conferì al PCI il ruolo di unico partito di opposizione di sinistra nel paese. All’interno del partito si sviluppò un dibattito articolato sulla strategia da seguire. Intorno alla nuova segreteria di Luigi Longo, eletto dopo la morte di Togliatti nel 1964, si crearono le correnti di destra (Giorgio Amendola), propensa a cercare di ricucire l’unità della sinistra con il PSI, e di sinistra (Pietro Ingrao), che proponeva una strategia di alleanze (anche con le masse cattoliche) all’interno di un progetto apertamente classista. Tali posizioni, che non divennero mai vere e proprie correnti organizzate per la comune accettazione del principio del “centralismo democratico” (abbandonato solo nel XVI congresso del 1983), accompagnarono l’intera storia successiva del partito, fino al suo scioglimento nel 1991. La nascita di una sinistra extraparlamentare e i movimenti del 1968 e 1969 scossero il PCI, profondamente avverso all’estremismo e all’avventurismo. Al suo interno, come riflesso della diffusione delle idee della nuova sinistra, nacque la corrente del “Manifesto”, che si staccò dal partito nel 1970. Nel 1972 confluì nel PCI, diretto dal 1969 da Enrico Berlinguer, la maggioranza dei membri del disciolto PSIUP (Lucio Libertini, Dario Valori, Tullio Vecchietti). Gli anni Settanta furono caratterizzati dalla strategia berlingueriana del “compromesso storico”, cioè del tentativo di alleare tutte le componenti popolari italiane, comprese le masse cattoliche e democristiane, in un nuovo blocco dirigente progressista, abbastanza solido da evitare il tragico destino subito da Unidad Popular in Cile nel 1973. Furono anni di successi, come la vittoria della difesa del divorzio nel referendum del 1974, e di grande crescita elettorale del PCI, che nelle elezioni amministrative del 1975 conquistò le maggiori città e regioni italiane e alle politiche del 1976 raggiunse il 34,4% dell’elettorato, contro il 27% del 1972. Nel periodo di massima emergenza del terrorismo (1976-79), il PCI sostenne i governi monocolore di Andreotti, prima con l’astensione (1976), poi con l’appoggio esterno (1978), nel clima della “solidarietà nazionale”. La delusione per l’esperienza poco efficace del “partito di lotta e di governo”, che provocò nel 1979 un calo di voti del 4%, convinse Berlinguer a ritirare il PCI dalla maggioranza e a riproporre l’“alternativa democratica” alla DC. La crisi del partito non si fermò e fu accentuata dalla concomitante crisi del movimento operaio e sindacale e dall’emergere del “craxismo”, allontanando negli anni Ottanta la prospettiva dell’alternativa e consolidando i nuovi governi di pentapartito. Non bastarono l’effimero sorpasso elettorale sulla DC alle europee del 1984 (33,3% contro il 33%), sull’onda dell’emozione per la prematura scomparsa di Enrico Berlinguer, e la confluenza nel partito del PdUP, scioltosi nel 1985, a risollevare le sorti del PCI, che nella seconda metà del decennio andò incontro a un progressivo calo di consensi. Nel frattempo si consumava anche la crisi del modello sovietico (crollato definitivamente nel 1989), inducendo il PCI allo “strappo” con Mosca e a una profonda revisione ideologica. Nel PCI, che già nel 1975 aveva proposto un eurocomunismo radicato nei valori democratici occidentali, maturò la scelta, compiuta dopo il 1989, di convertirsi al riformismo occidentale, fino alla richiesta di entrare nell’Internazionale socialista. L’ultimo segretario, Achille Occhetto (che assunse la leadership nel 1988, dopo le dimissioni di Alessandro Natta (1984-88), guidò il processo di trasformazione, conclusosi nel congresso di Rimini del 1991 con lo scioglimento del partito. La maggioranza del partito, guidata dallo stesso Occhetto, fondò il Partito democratico della sinistra (PDS). La minoranza, guidata da Armando Cossutta e Sergio Garavini, contraria alla svolta occhettiana, si propose di continuare la tradizione comunista dando vita al Partito della Rifondazione comunista.