pace

  1. Definizione
  2. La natura della pace
  3. La pace come valore
  4. Le vie della pace
  5. La pace come oggetto di ricerca
1. Definizione

Oltre a indicare uno stato d’animo o una condizione interiore (la pace come dimensione dello spirito), il termine “pace” viene impiegato sia in riferimento alla politica interna (quando si usano espressioni come “pace sociale” o “pace religiosa” per descrivere una condizione priva di conflitti), sia – e soprattutto – in relazione alla politica internazionale, nell’ambito della quale essa assume la sua configurazione tecnica più pregnante, definendo uno specifico assetto dei rapporti tra gli stati. Sempre da quest’ultimo punto di vista, la pace è anche un fatto specifico il quale indica l’accordo che due o più stati raggiungono alla fine di una guerra. Benché la pace come situazione di fatto possa essere intesa come l’indicatore di un certo stato dei rapporti internazionali, essa viene più frequentemente intesa come alternativa dello stato di guerra, o ancora come mero elemento residuale rispetto a un conflitto, quasi che essa possa darsi esclusivamente in quanto conclusione di una guerra e non in quanto condizione normale di coesistenza.

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2. La natura della pace

Poiché appare normalmente come la semplice conseguenza di una guerra, va osservato in primo luogo che il destino della pace è di essere – quasi per definizione – il simbolo di una situazione di disuguaglianza. Le guerre, infatti, dividono vincitori e vinti, cosicché è estremamente improbabile che la pace raggiunta al termine di un conflitto sia soddisfacente, oltre che per il vincitore, anche per il vinto (basti pensare a un’espressione come pax romana per valutare la portata di questa precisazione). Questa circostanza consente di evidenziare la complessità della problematica della pace, il contenuto della quale non sarà dunque mai uguale, ma piuttosto il prodotto di un complesso gioco diplomatico che ne rende sempre ambigua la sostanza (a seconda del punto di vista dal quale ci si pone). Alcune volte la pace risulta dalla contestuale consunzione delle diverse forze in campo o dalla perdita delle ragioni stesse del conflitto; più frequentemente essa è il risultato della completa distruzione dell’avversario (si pensi alla conclusione della seconda guerra mondiale, con riferimento ai casi della Germania e del Giappone), oppure di una sorta di impossibilità di ottenere la vittoria (come successe agli Stati Uniti nella guerra del Vietnam); essa può essere, ancora, il prodotto dello scambio di terribili minacce, così come si è verificato durante tutto il periodo della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, impegnati in un’opera di continua e reciproca dissuasione, che ha portato alla “pace del terrore” o nucleare. Non è infine inimmaginabile il caso che la pace sia il prodotto di una condizione di equisoddisfazione di tutti gli stati. Basta tuttavia constatare che dal 1914 a oggi soltanto tre anni sono trascorsi completamente in pace (1928, 1930, 1963), senza cioè che alcun conflitto fosse in corso in qualche parte del mondo, per apprezzare la rarità di questo caso – che tuttavia ha riacquistato una certa suggestione dopo la dissoluzione del blocco socialista e dell’Unione Sovietica (1989-91). Questa situazione spiega dunque perché la pace sia prevalentemente definita come una condizione di non guerra.

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3. La pace come valore

Se nelle diverse manifestazioni ricordate, la pace è più che altro un fatto o la conseguenza di un conflitto, considerazioni assai diverse vanno svolte in riferimento all’ipotesi che essa sia considerata come un bene, come un valore da perseguire. Anche da questo punto di vista si possono dare intenzionalità e intensità diverse: volevano conservare la pace Daladier e Chamberlain quando accettarono il compromesso della conferenza di Monaco (settembre 1938) pur di evitare che Hitler scatenasse la guerra. Da questo livello minimo si può passare al caso della scelta di una vera e propria politica di pace, come quella condotta da paesi tradizionalmente neutrali come la Svezia, o di mediazione, come nel caso in cui una grande potenza si ponga tra due contendenti per comporre la loro controversia, o di promozione, come quando il valore della pace venga avanzato come preferibile all’alternativa della guerra, cosicché a una concezione negativa della pace se ne sostituirà un’altra invece positiva. Per quanto tra mille difficoltà, quest’ultima impostazione ha un nobile retaggio storico-ideale, essendo stata al centro di alcune opere di grande valore morale quali l’Utopia di Th. More, il Progetto per rendere la pace perpetua in Europa dell’abate di Saint-Pierre e il famosissimo progetto Per la pace perpetua di I. Kant. Mentre in generale questi progetti comportano una vera e propria trasformazione dei costumi politici internazionali, a partire dalla fine del XIX secolo alle proposte utopistiche ha incominciato a sostituirsi una vera e propria ricerca scientifica sulle condizioni per la realizzazione e il consolidamento della pace, basata sul presupposto che essa sia un bene in sé e non un semplice stato, casuale, di quiete. Per quanto la pace sia prevalentemente considerata un bene strumentale rispetto ad altri fini (la giustizia, la libertà, la democrazia), si può suggerire che, ove la scelta a suo favore si diffondesse, essa potrebbe influire positivamente non soltanto sui rapporti internazionali ma più in generale su tutte le forme di comportamento politico. Si potrebbe dire che il valore della pace consista, in sostanza, nel suo essere condizione necessaria, anche se non sufficiente, per la realizzazione di qualsiasi altro valore politico.

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4. Le vie della pace

Si può realizzare la pace privando, in via minimale, gli eventuali contendenti, dei loro strumenti di guerra, e questa è la via del disarmo. Ma si può anche pensare che la pace sia il prodotto di intese politiche (più o meno libere), che si traducono quindi in accordi fondati sulla potenza. Si può infine ritenere che la pace discenda da una scelta matura e consapevole, e questa è la via del pacifismo, la cui forma più intensa è la non violenza (l’antesignano della quale fu Gandhi). La prima possibilità, limitata alla politica degli armamenti, mira, se non al diretto (e pressoché inimmaginabile) disarmo completo, quanto meno alla regolamentazione della produzione di armi, in termini sia quantitativi sia qualitativi. Tale via fu perseguita con intensità (ma senza alcun successo) nell’ambito della Società delle Nazioni, e venne ripresa nel secondo dopoguerra, quando ad avere successo fu piuttosto la ricerca di accordi qualitativi (per il semplice fatto che la gestione degli armamenti aveva acquistato il valore tutto particolare che derivava dalla comparsa delle armi nucleari). Ginevra fu il teatro di un’infinità di incontri tra i rappresentanti delle potenze nucleari, le quali non riuscirono quasi mai a siglare dei trattati di sicura efficacia, ma poterono così mantenere sotto controllo l’intera problematica. Questa impostazione colse infine i suoi successi più significativi a partire dal 1987, quando Stati Uniti e URSS siglarono il trattato che portò allo smantellamento dei cosiddetti “euromissili” (installati a partire dalla fine del 1979), e poi nei successivi accordi che posero fine alla guerra fredda, nel quadro anche della crisi e poi del tracollo dei regimi comunisti dell’Europa centro-orientale e della stessa Unione Sovietica (1989-91). Ma per quanto successo la via del controllo degli armamenti (o loro riduzione-limitazione) possa avere, è chiaro che essa è per definizione provvisoria, essendo sempre possibile ricostruire gli arsenali che si fosse accettato di smantellare o limitare, cosicché altre sarebbero le vie da seguire, ricollegandole a un’analisi della realtà politica più approfondita e lucida. C’è così chi osserva che la spesa militare è uno dei canali fondamentali per il controllo delle crisi produttive tipiche del capitalismo e che quindi aggressività economica e aggressività militare si trovano sempre congiunte: la pace, in tal caso, andrebbe perseguita attraverso le lotte sociali e politiche all’interno degli stati aggressivi, i quali difficilmente si lascerebbero fermare da un trattato precedentemente firmato. Si tratta di una tesi difficilmente contestabile, in quanto tale, ma che interessa piuttosto come punto di passaggio verso la terza impostazione, che dal punto di vista ideale è certamente più significativa delle altre. Dal punto di vista del pacifismo si argomenta infatti che la pace possa risultare soltanto da un vero e proprio mutamento di comportamento, sia da parte degli statisti sia – ma più ancora – delle società in generale, le quali dovrebbero orientarsi verso comportamenti non violenti, i quali a loro volta influirebbero sulle stesse decisioni governative.

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5. La pace come oggetto di ricerca

Per quanto gli avvenimenti politici internazionali non sempre abbiano confortato le aspettative dei pacifisti, è notevole che a partire dagli Cinquanta del XX secolo la riflessione sulla pace si sia estesa dall’ambito puramente filosofico e religioso anche a quello politologico, e più in generale scientifico, dando vita a un vero e proprio ambito di studi, prevalentemente noto con il suo nome inglese, la peace research (a cui va associato il nome di J. Galtung). La sua peculiarità consiste nel tentativo di integrare le diverse prospettive da cui la pace può essere studiata – psicologia e psicoanalisi, sociologia, economia, diritto, strategia, ecc. – in base all’ipotesi che la pace sia non un mero fatto materiale, ma un atteggiamento globale, così come sostengono i movimenti pacifisti (molto sviluppati nel mondo occidentale) i quali si sforzano di offrire indicazioni che non si riferiscono soltanto all’obiezione di coscienza o al rifiuto di utilizzare le armi, ma anche ai diversi momenti della vita sociale, dai quali suggeriscono che la violenza possa e debba essere espulsa. Strettamente connessa a questa impostazione è infine la considerazione (oggetto di un’infinità di ricerche empiriche) che collega i regimi democratici a un basso livello di propensione alla guerra. Si potrebbe così formulare l’ipotesi secondo cui con l’aumentare del numero di paesi democratici nel mondo, dovrebbe diminuire la bellicosità del sistema internazionale. [Luigi Bonanate]

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