nichilismo

In senso generale, il termine “nichilismo” (dal latino nihil, nulla), indica un atteggiamento di negazione o dell’intera realtà e del suo valore, o di un suo singolo aspetto. Già Sant’Agostino aveva definito nichilista colui che non crede in nulla, ma il termine fu impiegato con una certa frequenza solo a partire dalla fine del XVIII secolo e inizialmente in chiave critica. In senso positivo il termine venne usato nell’Ottocento da Max Stirner per indicare il rifiuto di tutte le astrazioni metafisiche, religiose e morali, che limitano la libertà del singolo individuo. Nietzsche interpretò la decadenza dell’umanità europea e cristiana, educata alla rinuncia e alla repressione della propria positiva carica vitale, come una forma di nichilismo negativo e vi contrappose un nichilismo positivo, fondato sullo smascheramento di ogni falso valore, che è il presupposto per la nascita dell’Übermensch (superuomo, oltreuomo). Nel Novecento Heidegger vide nel nichilismo la naturale conclusione dell’“erramento” della metafisica occidentale, caratterizzata dall’oblio del problema del senso dell’essere e dall’attenzione esclusiva alle tecniche che permettono l’utilizzazione degli enti. Grande rilievo ebbe nella storia otto-novecentesca il nichilismo russo. Ivan Serghiejevic Turgenev (1818-1883), nel romanzo Padri e figli (1862), disegnò, attraverso la figura del “nichilista” Bazarov, i tratti tipici degli studenti universitari russi, politicamente sovversivi, di estrazione sociale piccolo borghese. Passionali e coraggiosi, capaci di pungente sarcasmo, i giovani nichilisti erano accomunati dal radicale rifiuto dell’autorità e dei valori tradizionali. Altri ritratti di nichilisti importanti per l’impatto propagandistico che esercitarono presso i giovani intellettuali russi furono presentati nelle opere di letterati famosi come Cernisevskij (Che fare?) e Dostoevskij (I demoni). L’opinione pubblica conservatrice e moderata si appropriò immediatamente del termine per indicare il movimento degli studenti politicamente più radicali e, per estensione, tutti i sovversivi. Il termine, coniato in funzione critica, fu poi accettato dagli interessati, che pure vi preferivano quello di “realisti”. Espressione della grande crisi della Russia dopo la sconfitta nella guerra di Crimea (1853-56) e dopo il fallimento delle riforme tentate da Alessandro II all’inizio degli anni Sessanta, il movimento nichilista si distaccò dal populismo dopo il 1847. Del populismo veniva criticata la fiducia nelle masse popolari, alle quali i nichilisti – che si raccolsero intorno alla rivista “Russkoe Slovo” (= “la parola russa”) soppressa dalla censura zarista nel 1866 – contrapponevano l’ineliminabile ruolo trainante delle élites intellettuali. Attivi soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, i nichilisti russi, tra i quali emersero Dmitrij Ivanovic Pisarev, Varfolomej Zaicev e Nikolaj Vasilevic Sokolov, predicavano l’individualismo assoluto, contro ogni forma di obbligo e vincolo sociale, come la famiglia e i doveri religiosi. Influenzati dal positivismo, furono materialisti e atei, critici della realtà spirituale fino al punto di asserire l’inutilità delle opere d’arte. Schierati contro l’autocrazia zarista e i ceti e le istituzioni che la sorreggevano, fecero sovente ricorso ad atti di terrorismo. Dopo gli anni Settanta i nichilisti si inserirono in movimenti politici, generalmente anarchici, talvolta di difficile definizione. È il caso dei seguaci delle idee esposte da P.N. Tkacëv sulla rivista “Nabat” (= allarme), pubblicata dal 1875 al 1881, nella quale si teorizzava il colpo di stato a opera di una minoranza che si sarebbe servita del potere politico per liberare la società dall’oppressione.