movimento studentesco

Fenomeno tipico dell’età della scolarizzazione di massa, ebbe inizio negli anni Sessanta e diffusione in vaste aree del mondo industrializzato. Le ragioni della nascita dei movimenti studenteschi vanno ricercate nell’incapacità della maggior parte dei sistemi scolastici di adeguarsi alle esigenze della scolarità di massa; nei criteri di selezione meritocratica che di fatto favorivano gli studenti delle classi sociali più elevate; e nella precarietà della condizione studentesca, che costituiva un prolungamento dell’adolescenza e della dipendenza economica dalle famiglie e che spesso preludeva alla prospettiva, storicamente nuova, della disoccupazione intellettuale. La scuola era inoltre percepita come portavoce dei valori socialmente dominanti dell’individualismo, della competizione sociale, del consumismo, del conformismo e del mito del progresso tecnologico, che incontravano la crescente indifferenza e opposizione del mondo giovanile. La prima significativa mobilitazione studentesca si ebbe negli Stati Uniti, nel 1964, quando gli studenti dell’Università di Berkeley (San Francisco) si riunirono in sit-in per protestare contro l’autoritarismo del sistema scolastico e contro il modello sociale al quale esso era funzionale. Gli studenti americani, generalmente di estrazione sociale agiata, avviarono una critica serrata della società del benessere, fondata in teoria su valori di democrazia e di libertà, ma in realtà sullo sfruttamento e sulle disparità sociali, che trovavano l’esempio più eclatante nelle discriminazioni razziali, e sull’imperialismo, come appariva dalla recente invasione della Baia dei Porci a Cuba e dalla guerra del Vietnam. Nel 1967, nell’Università di Howard (Washington), frequentata prevalentemente da studenti neri, vi fu una rivolta contro il reclutamento per la guerra nel Vietnam. Negli stessi anni anche in Europa veniva maturando la mobilitazione studentesca, soprattutto in Francia, dove i motivi della contestazione erano, oltre ai problemi del sistema scolastico, la “sporca guerra” algerina all’inizio degli anni Sessanta e, negli anni successivi, l’autoritarismo politico e sociale della quinta repubblica di C. de Gaulle. In Italia la Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento fu, fin dalla fondazione (1962), sede di crescita di una cultura studentesca critica. Nel corso degli anni Sessanta gli studenti italiani si mobilitarono contro la guerra del Vietnam e contro il centrosinistra, incapace di avviare un reale processo di riforma nel paese. Nel 1967 numerose università del nord (Torino, Milano, Trento, Venezia) furono occupate nel contesto di una lotta per l’effettivo diritto di tutti allo studio e contro l’autoritarismo delle strutture universitarie, selettive e classiste. La contestazione, che ebbe il momento più intenso, a livello internazionale, nella primavera del 1968, coinvolgendo, oltre alle università, anche le scuole superiori, si propose di smascherare il mito dell’apoliticità della scuola, la cui cultura, apparentemente neutrale, e la cui organizzazione erano invece funzionali al sistema capitalistico. Nel mondo occidentale, che si autodefiniva libero, gli studenti misero in dubbio l’effettiva democraticità dei sistemi politici, in cui il potere reale era nelle mani di gruppi ristretti della classe politica e, soprattutto, del mondo imprenditoriale. La razionalità neocapitalistica, che stava operando in quegli anni una ristrutturazione del sistema produttivo, appariva agli studenti come causa di profonde e crescenti disparità tra le classi sociali e tra le diverse regioni e nazioni. Paesi come l’Italia vivevano in quegli anni gli effetti dei caotici flussi migratori di massa, provocati dal boom industriale. La portata universale della critica studentesca contro il “sistema” fece uscire la contestazione, soprattutto in Italia e in Francia, dall’ambito della scuola. Furono ricercate alleanze esterne con il movimento operaio e con nuovi soggetti rivoluzionari (le fasce sociali emarginate) e nel contempo si manifestò solidarietà con i paesi del Terzo Mondo sfruttati dal neocolonialismo e con i popoli in lotta contro l’imperialismo. Il terzomondismo ebbe grande diffusione nel movimento del Sessantotto, che trovò i propri miti nella rivoluzione culturale cinese, nel maoismo e negli eroi della lotta antimperialista, come Che Guevara, Fidel Castro e Ho Chi Min. La violenza non fu invece una scelta originaria, ma derivata e indotta, del Sessantotto. Inizialmente pacifico, il movimento studentesco ricorse alla violenza (sempre di modesta entità) per resistere agli sgomberi delle università occupate e alle cariche poliziesche ai cortei. Solo più tardi, con l’ideologizzazione del movimento, si sviluppò una cultura della violenza in alcuni gruppi minoritari (terrorismo). Il momento di maggior fusione con il movimento operaio si ebbe nel maggio francese del 1968, quando alla lotta degli studenti, scoppiata nelle università di Nanterre e della Sorbona e divampata nel quartiere latino di Parigi, si affiancò la mobilitazione degli operai, che proclamarono lo sciopero generale. La breve durata di quell’alleanza (che si spense in meno di un mese) dimostrò la distanza effettiva tra gli operai e gli studenti: i primi, abituati da una lunga esperienza di lotte a proporsi obiettivi concreti e realizzabili, stentavano a capire il rivoluzionarismo dei secondi, che, trascinati dal giovane anarchico Daniel Cohn-Bendit, predicavano l’“immaginazione al potere”. Il rapporto con la classe operaia fu meno intenso in altri movimenti altrettanto importanti, come quello tedesco, guidato da Rudi Dutschke. Il Sessantotto, più che incidere sul terreno della lotta politica, operò una significativa trasformazione della cultura e della mentalità collettiva. Fu il tentativo di fondare un nuovo umanesimo, culturalmente eclettico, talvolta definito “postmaterialistico”, basato sul tentativo di coniugare la libertà individuale (da ogni forma di repressione familiare, sociale, culturale, sessuale) e il desiderio di autorealizzazione, con l’egualitarismo, il solidarismo e la democrazia partecipativa. Sulla scia della teoria critica della scuola di Francoforte, di cui soprattutto Herbert Marcuse era letto e amato dai contestatori, venne criticata ogni forma di alienazione, economica, sociale e culturale. I grandi valori di quella stagione furono la solidarietà, la pace, la giustizia sociale, la partecipazione democratica, la fantasia creativa. Il movimento ebbe dimensione mondiale, superando, per la prima volta dai tempi della guerra fredda, gli steccati tra i due mondi contrapposti. Il capitalismo e il socialismo reale furono accomunati in una critica radicale dell’autoritarismo e della gestione burocratica e totalitaria della vita sociale. La frattura con le organizzazioni della classe operaia e con i partiti della sinistra storica, accusati di essere “integrati” nel sistema, favorì la nascita e la diffusione dei gruppi della cosiddetta “nuova sinistra”, antiriformisti e antirevisionisti, che impressero al movimento, soprattutto dall’autunno del Sessantotto in poi, un carattere più organizzato. Dopo la fiammata del 1968, il movimento si spense quasi ovunque, sopravvivendo con minor intensità solo in alcune nazioni, come l’Italia, dove i gruppetti della nuova sinistra continuarono a mobilitare gli studenti fino al 1977. In quell’anno, quando era ormai chiaro il fallimento dei tentativi della sinistra, vecchia e nuova, di avviare un reale processo di trasformazione della società, il movimento studentesco manifestò ancora una volta la propria sfiducia totale nella politica e nelle istituzioni. Il movimento si articolò in due tendenze fondamentali: un’ala creativa e spontaneistica, rappresentata soprattutto dai cosiddetti “indiani metropolitani”, e un’ala violenta, organizzata da Autonomia Operaia e da altri gruppi minoritari e sostenuta da intellettuali come Toni Negri, che si impegnò in una lotta frontale contro lo stato, provocando episodi di vera e propria guerriglia urbana (Roma, Bologna). La gravità della violenza e il sospetto di un legame tra alcuni agitatori e i gruppi terroristici che in quegli anni stavano sconvolgendo la vita italiana (nel 1978 la tensione toccò il culmine con il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro) provocarono una crisi di rigetto negli studenti, che abbandonarono l’attività politica e ripiegarono nel privato, inaugurando quella che fu definita la stagione del “riflusso”. Il movimento studentesco ebbe ancora un ruolo di qualche entità nell’Italia degli anni Ottanta e Novanta del Novecento. Allora, tuttavia, si limitò ad avanzare richieste nell’ambito della vita scolastica: per un rinnovamento dei programmi e delle strutture e contro i ricorrenti progetti governativi di riforma dell’università e della scuola superiore, ispirati a criteri in contrasto con i valori degli studenti, preoccupati soprattutto di una “privatizzazione” della scuola pubblica, con la subordinazione della formazione giovanile agli interessi dei grandi potentati economici. Negli anni Duemila il movimento studentesco si ripresentò sulla scena pubblica italiana in coincidenza dell’avvio di alcune controverse riforme della scuola pubblica (2003-05 “riforma Moratti” e 2008-11 “riforma Gelmini”). In particolare a partire dal 2008, nel contesto più generale della crisi finanziaria globale, il movimento studentesco, che assunse il nome di “Onda”, diede espressione a una profonda disaffezione nei confronti della classe politica e, più in generale, al crescente disagio giovanile legato alla questione della precarizzazione del lavoro e alla drastica riduzione dei fondi destinati alla ricerca scientifica. In taluni casi, soprattutto a Roma e a Torino, si arrivò allo scontro aperto con le forze di polizia. [Sergio Parmentola]