movimento operaio

Con l’espressione “movimento operaio” si fa riferimento in generale ai vari aspetti dell’organizzazione della moderna classe operaia industriale. In campo economico il movimento operaio ha lottato fin dalle origini per la tutela e il miglioramento delle condizioni di lavoro, a livello sia normativo sia retributivo. In campo politico la sua azione si è esplicata in diverse direzioni, dalla rivendicazione dell’estensione dei diritti politici all’interno delle istituzioni vigenti, alla lotta per una società nuova, fondata sul potere operaio o sull’abolizione delle classi sociali. La nascita del movimento operaio affonda le sue radici nella rivoluzione industriale, che creò il moderno proletariato e inaugurò i rapporti capitalistici di produzione, con la netta divisione tra la proprietà dei mezzi produttivi (in mano alla classe borghese) e l’erogazione della forza lavoro, affidata a una classe operaia del tutto esclusa da ogni potere decisionale (capitalismo). La rivoluzione industriale pose in termini drammatici la “questione sociale” e stimolò la nascita del nuovo ideale del socialismo. Il movimento operaio maturò parallelamente alla crescita della coscienza del proletariato di costituire una classe sociale dotata di interessi autonomi e conflittuali rispetto a quelli delle altre classi, in particolare della borghesia. Salvo i rari casi in cui si limitò ad agire esclusivamente nel campo della contrattazione economica, esso elaborò anche progetti politici tendenti alla costruzione di una società diversa, fondata sul lavoro e non sulla proprietà, dividendosi, più che sul fine, sui mezzi – rivoluzionari o riformistici – per raggiungerlo. Agli ideali liberali e democratici dell’uguaglianza civile, giuridica e politica, si aggiunse in tal modo l’ideale dell’uguaglianza economica e sociale. Dopo la fase puramente reattiva e distruttiva del luddismo – che si affermò e si esaurì prevalentemente in Inghilterra nel primo ventennio del XIX secolo – il proletariato si organizzò in forma sindacale, per avviare col padronato forme collettive di contrattazione, sostenute, dove possibile, dal ricorso all’arma dello sciopero (sindacalismo). Nacquero le società operaie di mutuo soccorso, con il fine della tutela dei soci in caso di malattia e di infortunio, ma che spesso aiutavano gli operai a sostenere anche i costi economici degli scioperi. Un’altra risposta allo sfruttamento padronale fu l’associazionismo cooperativo dei lavoratori, ispirato soprattutto alle idee di Owen. In Inghilterra il proletariato sviluppò in tempi rapidi un consistente movimento sindacale: le Trade Unions, inizialmente organizzazioni di mestiere, nel 1834 si coordinarono a livello nazionale nelle Grand National Consolidated Trade Unions e riuscirono a costringere i governi ad avviare una prima legislazione del lavoro (limitazione oraria del lavoro infantile nel 1831, giornata di lavoro di 10 ore nel 1847). A livello politico, la classe operaia inglese partecipò attivamente al movimento del cartismo, che rivendicò a più riprese (1838-39, 1842, 1848) la concessione del suffragio universale. Più precocemente politicizzato fu il movimento operaio francese, per la consuetudine, ereditata dalla grande rivoluzione, di tradurre immediatamente gli interessi di classe in termini politici. Gli operai francesi parteciparono infatti, anche se in posizione subalterna, alla rivoluzione del 1830 e, dopo i falliti scioperi di Lione del 1831 e del 1834, si organizzarono in movimenti di carattere politico, come il blanquismo che teorizzava l’insurrezione di un’élite rivoluzionaria per instaurare la dittatura del proletariato. Nel 1848 gli operai parigini parteciparono alla rivoluzione non più in funzione subalterna, ma con un proprio programma autonomo, ispirato alle idee di Louis Blanc, la cui base era la rivendicazione del diritto al lavoro e di una politica dell’occupazione (con il finanziamento statale degli “ateliers nationaux”, cioè di opifici nazionali). Un contributo fondamentale alla maturazione della coscienza di classe del proletariato e alla conquista di un metodo rigoroso di analisi della società capitalistica venne dal pensiero e dall’attività organizzativa di Karl Marx (1818-83) e di Friedrich Engels (1820-95). Dalla pubblicazione del Manifesto del partito comunista (1848) in poi, essi rimasero un punto di riferimento fondamentale per il movimento operaio. Fu anche per la loro crescente influenza che, negli anni successivi alla sconfitta socialista del 1848, il proletariato iniziò a organizzarsi in veri e propri partiti politici. In tali processi di crescita, tuttavia, agirono anche fattori oggettivi quali l’impetuoso sviluppo industriale europeo e nordamericano verificatosi a partire dagli anni Trenta del secolo, quando si concentrarono nelle fabbriche e nelle città industriali masse sempre più ingenti di lavoratori. Nel 1850 gli operai industriali erano circa 3 milioni in Inghilterra, 2 milioni negli Stati Uniti, 1 milione in Francia e in Germania, mentre nella più arretrata Italia erano poche decine di migliaia. Anche le lotte, nonostante frequenti insuccessi, servirono a cementare la compattezza del movimento dei lavoratori. Nel 1864, sempre per iniziativa di Marx, nacque la Prima Internazionale, per coordinare l’azione dei singoli raggruppamenti nazionali contro la solidarietà internazionale della borghesia. Nello Statuto, redatto da Marx, si individuò nell’abolizione dello stato borghese e nell’edificazione della società senza classi il fine politico del movimento operaio internazionale. Il proletariato, per raggiungere tale fine, era invitato a organizzarsi ovunque in partiti autonomi da quelli della borghesia democratica, ai quali era ancora legato in alcune nazioni. La vita dell’Internazionale fu segnata dal continuo conflitto tra le diverse correnti del movimento (tradeunionisti, blanquisti, proudhoniani, lassalliani, ecc.) e soprattutto tra le posizioni di Marx e quelle di Michail Bakunin (1814-76). Alla convinzione marxiana della necessità di una rigorosa organizzazione partitica del proletariato, finalizzata alla conquista del potere politico, Bakunin opponeva il rifiuto di qualsiasi forma di centralismo, sia organizzativo sia politico: preferiva la rivolta spontanea delle masse alla costituzione di un partito disciplinato e rifiutava il concetto marxiano di dittatura del proletariato in nome dell’ideale anarchico della libera federazione di comunità autogestite. Lo scontro ideologico provocò la crisi della Prima Internazionale, che, dopo anni di paralisi politica, si sciolse nel 1876. Un episodio importante nella storia del movimento operaio fu la Comune di Parigi del 1871: per la prima volta, anche se solo per poche settimane, il popolo lavoratore riuscì a conquistare il potere politico e a sperimentare una forma di organizzazione politico-sociale fondata sulla democrazia diretta, sul controllo costante dei delegati del popolo e sulla nazionalizzazione dei più importanti centri del potere economico. Marxisti e anarchici videro in essa il modello di società cui le lotte del proletariato avrebbero dovuto condurre. Negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi anni del nuovo secolo nacquero nei paesi industrializzati forti partiti operai nazionali che, in concomitanza con la tendenza alla progressiva democratizzazione dei sistemi elettorali, esercitarono una crescente pressione politica. In Inghilterra si formarono la Federazione socialdemocratica nel 1884, la Fabian Society nel 1884 e l’Independent Labour Party nel 1893; solo nel 1906 nacque l’attuale Partito laburista. Caratteristica generale dell’azione politica del proletariato inglese fu la scelta riformista e l’estraneità ai metodi e agli ideali rivoluzionari. In Germania nel 1875 sorse il Partito socialdemocratico tedesco che, per la sua forza e organizzazione, divenne un modello per gli altri partiti operai europei e il principale punto di riferimento della Seconda Internazionale. In Francia il movimento operaio ebbe una storia tormentata, segnata dal contrasto tra diverse tendenze: dal socialismo marxista di Jules Guesde al riformismo di Paul Brousse e, più tardi, di Jean Jaurès e Alexandre Millerand, al blanquismo di E. Vaillant e al sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel. Nel 1895 i sindacati francesi si organizzarono unitariamente nella Confédération Générale du Travail (CGT) e nel 1905 le forze politiche che si riconoscevano nel socialismo confluirono nella SFIO, la sezione francese dell’Internazionale socialista. In Russia il marxismo si diffuse grazie all’opera di Plechanov e poi di Lenin e divenne l’ideologia del Partito operaio socialdemocratico russo (POSDR), nato a Minsk nel 1898. Negli Stati Uniti si svilupparono soprattutto organizzazioni sindacali di mestiere che rappresentavano gli operai qualificati: la National Labor Union (Unione Nazionale del Lavoro) fondata nel 1866, i Knights of Labor (Cavalieri del lavoro) degli anni Ottanta e la American Federation of Labor (Federazione americana del lavoro), creata nel 1886 da Samuel Gompers (1850-1924). Il rapido progresso tecnologico dell’industria nordamericana fece precocemente sorgere un’immensa schiera di lavoratori dequalificati, dagli interessi talvolta contrastanti con quelli difesi dalle organizzazioni sindacali tradizionali. In Italia lo sviluppo del movimento operaio risentì dei ritardi dell’industrializzazione del paese. Negli anni Sessanta dell’Ottocento l’organizzazione dei lavoratori si limitava ancora a un associazionismo per lo più di influenza mazziniana, estraneo al concetto di lotta di classe. Negli anni Settanta la presenza in Italia di Bakunin favorì la diffusione di idee insurrezionali, soprattutto in meridione, trovando seguaci come Carlo Cafiero ed Errico Malatesta. Solo negli anni Ottanta, grazie all’attività di militanti come Andrea Costa e alla diffusione del pensiero marxista con Antonio Labriola, si sviluppò un movimento propriamente socialista. Nel 1882 nacque a Milano il Partito operaio italiano e nel 1892, a Genova, il Partito dei lavoratori italiani, trasformato nel 1895 in Partito socialista italiano. Quest’ultimo, la cui guida più autorevole fu Filippo Turati, assorbì le diverse anime del movimento operaio italiano, che alimentarono continue tensioni tra posizioni riformistiche e massimalistiche. Il movimento sindacale, strutturato in associazioni di mestiere e nelle organizzazioni territoriali delle Camere del Lavoro (la prima fu fondata a Milano da Osvaldo Gnocchi-Viani nel 1891), trovò un coordinamento nazionale nel 1906 con la nascita della Confederazione Generale del Lavoro (CGL). Alla CGL, schierata su posizioni riformiste e a fianco del Partito socialista, si contrappose l’Unione Sindacale Italiana (USI, fondata nel 1912), vicina alle posizioni del sindacalismo rivoluzionario. Nel nord del paese si diffuse anche il sindacalismo cattolico, ispirato alla dottrina sociale della chiesa, che ebbe nell’enciclica Rerum Novarum (1891) di Leone XIII il suo documento fondamentale. Alcune categorie di lavoratori, come i ferrovieri, si organizzarono in sindacati autonomi, che non confluirono nelle organizzazioni confederali. Nel frattempo, a Parigi, nel 1889 era sorta la Seconda Internazionale, nel tentativo di ricostruire un rapporto stabile tra i diversi partiti operai nazionali. Essa proclamò il 1° maggio giornata dei lavoratori (in ricordo della tragica giornata di sciopero dei lavoratori di Chicago nel 1886) e promosse in tutti i paesi la lotta per l’orario di lavoro di 8 ore e la nascita, dove non esistevano ancora, dei partiti socialisti. La debolezza della Seconda Internazionale emerse in occasione della prima guerra mondiale, quando i singoli partiti si schierarono, con poche eccezioni, a fianco dei propri governi nazionali nella scelta bellicista. Tale rottura di ogni vincolo di solidarietà determinò la crisi dell’Internazionale. Anche a livello ideologico il movimento socialista si frantumò, negli anni della Seconda Internazionale, in diverse correnti: alle posizioni più o meno coerentemente rivoluzionarie di Karl Kautsky, di Rosa Luxemburg e poi di Lenin, si opposero le scelte riformistiche praticate dai partiti socialisti e socialdemocratici e, ancor più, dai sindacati e teorizzate dai cosiddetti “revisionisti”. Massimo esponente del revisionismo fu il socialdemocratico tedesco Eduard Bernstein, che criticò apertamente l’analisi di Marx sulla natura e sul destino della società capitalistica teorizzando la lotta per obiettivi concreti sul piano sindacale e della democrazia politica. Revisionismo e riformismo cooperarono quindi nell’allontanare ogni prospettiva rivoluzionaria, cercando di collegare gli interessi della classe operaia con quelli della borghesia democratica, considerata un alleato in quella fase storica. Il dibattito interno alla classe operaia conobbe altresì ulteriori sviluppi. In Francia acquistò grande rilievo il sindacalismo rivoluzionario, contrario all’attività parlamentare del partito socialista e favorevole all’azione diretta del proletariato e allo sciopero generale come mezzi per realizzare la nuova società dei lavoratori. Il sindacalismo rivoluzionario ebbe diffusione internazionale, sia in Europa (Francia, Italia, Spagna), sia negli Stati Uniti, dove nel 1905 ispirò la nascita dell’Industrial Workers of the World. All’inizio del Novecento comparve sulla scena una nuova corrente, che esercitò successivamente un’enorme influenza: la frazione bolscevica del Partito operaio socialdemocratico russo (POSDR), nata nel Congresso del partito tenutosi a Bruxelles e a Londra nel 1903. Lenin, capo e teorico della corrente, sosteneva il modello di un partito operaio estremamente disciplinato, costituito da “rivoluzionari di professione”, in grado di esercitare il ruolo di “avanguardia” delle masse nella lotta per la conquista del potere. Il bolscevismo, con la Rivoluzione russa dell’ottobre 1917, portò per la prima volta il proletariato alla conquista del potere politico e alla fondazione di uno stato comunista. La Rivoluzione russa ebbe grandi ripercussioni sul movimento operaio internazionale, producendo un’ulteriore divisione tra chi voleva imitare il modello sovietico, accelerando la preparazione della rivoluzione comunista (ci furono tentativi rivoluzionari in Germania e in Ungheria nel 1919), e chi lo condannava in nome dei valori della democrazia, del parlamentarismo e del riformismo. I sostenitori del modello sovietico crearono in ogni nazione nuovi partiti comunisti (in Italia nacque nel 1921 il Partito Comunista d’Italia, fondato da Amedeo Bordiga e Antonio Gramsci) i quali, staccandosi dai partiti socialisti e socialdemocratici, trovarono un coordinamento nella Terza Internazionale, fondata a Mosca nel 1919. Sotto lo stretto controllo del partito bolscevico, la Terza Internazionale guidò i partiti comunisti dapprima, negli anni Venti, in una chiusura settaria nei confronti dei partiti riformisti (accusati di “socialfascismo”); poi, a partire dal VII Congresso del 1935, invitandoli a costruire con le altre forze democratiche i “fronti popolari”, per combattere la diffusione del nazifascismo. Nel frattempo i riformisti avevano rifondato la Seconda Internazionale (1920) e c’era stato anche un fallimentare tentativo di conciliare le due anime del socialismo nella cosiddetta Internazionale “2 e mezzo” (1920). Negli anni Trenta, in seguito alla grande crisi del 1929, i sindacati e i partiti operai crebbero ulteriormente, nonostante le difficoltà oggettive e le numerose sconfitte subite (come l’avvento del nazismo in Germania e del franchismo in Spagna). Tra le due guerre mondiali si formarono governi con la presenza dei partiti della classe operaia anche nei paesi capitalistici: in Inghilterra i laburisti governarono nel 1923-24 e nel 1929-31; in Francia e in Spagna si ebbero i governi dei fronti popolari nel 1936; in Svezia cominciò nel 1932 l’esperienza socialdemocratica, che durò ininterrottamente fino al 1977. Diversa sorte toccò ai paesi in cui si affermarono i regimi fascisti (Italia nel 1922, Germania nel 1933, Spagna nel 1939), i quali repressero ogni autonoma espressione del movimento operaio, costringendo i partiti di sinistra alla clandestinità. In Italia, prima dell’avvento del fascismo, ci fu l’interessante esperienza dei consigli di fabbrica, creati nel 1919 su ispirazione dei soviet russi per iniziativa del gruppo torinese dell’“Ordine nuovo” (Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Angelo Tasca, Palmiro Togliatti). Nel 1920 gli ordinovisti tentarono, con l’occupazione delle fabbriche, di innescare un processo rivoluzionario, per fondare una nuova società basata sulla democrazia operaia, ma il tentativo, limitato al triangolo industriale Torino-Milano-Genova, osteggiato dalla CGL e non sostenuto dal PSI, fallì in breve tempo. La seconda guerra mondiale, con la collaborazione tra i movimenti di Resistenza antinazista e l’Unione Sovietica di Stalin, favorì la diffusione del movimento comunista in Europa. Alla fine della guerra l’Europa orientale entrò nella sfera di influenza sovietica e vide l’introduzione di regimi comunisti. In Europa occidentale, invece, i partiti comunisti, per quanto molto forti in alcuni paesi (Italia, Francia), furono estromessi dai governi nazionali all’inizio della guerra fredda (1947). L’emarginazione politica delle forze comuniste portò anche a fratture nel movimento sindacale: in Italia, per esempio, dalla CGIL, a maggioranza comunista, si staccarono i lavoratori riformisti, che fondarono la UIL (1950), mentre i cattolici diedero vita alla CISL (1950). Nel resto del mondo continuavano, nel frattempo, le esperienze dei governi laburisti, in Inghilterra, e socialdemocratici, nei paesi del nord (Svezia, Danimarca, Germania). In Inghilterra, con il governo del laburista Clement Attlee (1945), prese piede la politica del welfare state, che anche grazie alle lotte del movimento operaio si estese a gran parte degli stati industrializzati. La socialdemocrazia fu accettata al governo dei paesi capitalistici per il suo esplicito e definitivo rifiuto del marxismo e di ogni ideologia rivoluzionaria: fu celebre, in questo contesto, il Congresso del partito socialdemocratico tedesco di Bad Godesberg (1959). Anche nella sinistra rivoluzionaria si ebbero nuove divisioni, a partire dalle controversie internazionali tra i diversi modelli di comunismo: sovietico, cinese e iugoslavo. In Europa, a metà degli anni Settanta, i partiti comunisti italiano, francese e spagnolo elaborarono il progetto dell’eurocomunismo, nel tentativo di adattare l’ideale comunista alla complessa realtà dei sistemi capitalistici occidentali. Inoltre, in opposizione alla sinistra “storica”, accusata di cedimenti revisionistici e criticata per l’adesione all’autoritario modello sovietico, nacque negli anni Sessanta la “nuova sinistra”, intenzionata a recuperare i princìpi della democrazia proletaria e a cercare nuove strade per il movimento operaio. Il biennio 1968-69 segnò, con le lotte studentesche e operaie, il battesimo politico della nuova sinistra, da cui, negli anni Settanta, si staccarono frange estremistiche, che cercarono di suscitare un clima rivoluzionario adottando l’arma del terrorismo. La ripresa delle lotte operaie in Italia – dove la stagione contrattuale dell’“autunno caldo” del 1969 aveva ottenuto numerose conquiste, tra cui lo Statuto dei Lavoratori (1970) – favorì la ricomposizione in unità del movimento sindacale, con la nascita, nel 1972, della Confederazione CGIL-CISL-UIL. Nella società italiana crebbe nello stesso decennio la forza politica ed elettorale del Partito comunista, creando l’illusione che per la classe operaia si avvicinasse la possibilità di conquistare democraticamente il potere politico. Il disinganno arrivò subito: la crisi petrolifera iniziata nel 1973 – che fece sentire le proprie conseguenze per un lungo periodo – e le recenti trasformazioni tecnologiche delle economie industriali avanzate, in Italia e nel mondo, costrinsero la classe operaia a ridefinire la propria strategia. La stratificazione sociale sempre più complessa, che ha visto diminuire la presenza relativa del proletariato industriale e crescere i ceti medi, rese sempre più impraticabile il modello rivoluzionario tradizionale. La nuova situazione, con l’effetto congiunto della crisi economica e della crescente disoccupazione tecnologica, consentì in tutto il mondo al padronato di lanciare, negli anni Ottanta, una dura controffensiva contro le conquiste del movimento operaio. Il trionfo dei governi conservatori e neoliberisti in Inghilterra (Thatcher) e negli Stati Uniti (presidenze Reagan e Bush), che smantellarono ampiamente lo stato sociale, furono solo gli episodi più noti di una tendenza mondiale. Nel frattempo si era consumato il fallimento del comunismo statalistico e autoritario dei paesi dell’Est, contro il quale si erano battute anche organizzazioni operaie, come il sindacato polacco Solidarnosc, fino al crollo definitivo tra il 1989 (caduta del muro di Berlino) e il 1991 (dissoluzione dell’URSS). L’insieme di questi fattori spiega l’attuale crisi di identità di ampi settori del movimento operaio e l’ormai indiscussa prevalenza, al suo interno, di posizioni di stampo riformistico. È significativa, in questo contesto, la scelta del Partito comunista italiano, che per decenni aveva oscillato tra la fedeltà al modello sovietico e la piena accettazione delle regole democratiche occidentali, di rinunciare all’ideologia comunista, trasformandosi seppur tardivamente in Partito democratico della sinistra (1991). Anche le forze, assai minoritarie, che continuano a chiamarsi rivoluzionarie – per differenziarsi dai riformisti, che accettano ormai in via permanente le istituzioni del mercato – cercano nelle riforme strutturali, non nella rivoluzione violenta, la via per la fuoriuscita dal capitalismo. Negli anni Novanta del Novecento si è assistito al ritorno delle categorie dei lavoratori contrattualmente più forti al sindacalismo autonomo, ma anche alla nascita di nuove forme di sindacalismo. È un fenomeno almeno relativamente recente la nascita in Italia dei Cobas, organismi sindacali particolarmente aggressivi, che dei sindacati tradizionali criticano soprattutto il moderatismo e la scarsa capacità di rappresentare realmente i lavoratori. Il movimento operaio a livello internazionale è risultato assai indebolito in seguito al passaggio dalla società industriale a quella postindustriale e alla drastica riduzione del peso della classe operaia. [Sergio Parmentola]