migrazione

“Migrazione” è un termine generico che indica lo spostamento di sede di un individuo, di una famiglia, di un gruppo, di una popolazione. Più genericamente ancora si può parlare di “mobilità” quando si vuole indicare un movimento di qualsiasi natura riferito a uno o più individui. La mobilità può riguardare un movimento territoriale – è il caso della “migrazione” – oppure un movimento sociale, quando si determina un cambiamento nella posizione di un individuo rispetto alle categorie sociali che compongono la popolazione. Il concetto di migrazione è di per se stesso abbastanza vago. Per isolare, nell’ambito territoriale, le migrazioni vere e proprie da altre forme di mobilità può essere assunta la durata oppure il motivo dello spostamento, pur esistendo difficoltà nella definizione di queste due categorie. Rispetto alla sede di provenienza dalla quale l’individuo (o il gruppo) si allontana e di destinazione nella quale l’individuo (o il gruppo) si stabilisce, il termine viene specificato in “emigrazione” e “immigrazione” e rispetto all’ambito territoriale in “interna” ed “esterna”. È evidente che ampliando o riducendo il complesso territoriale può mutare il concetto “interno-esterno”; per tal motivo, essendo ormai invalsa l’abitudine di fare sempre più riferimento a complessi territoriali di carattere politico (gli stati), si intende “interna” la migrazione che avviene entro i confini politici di uno stato ed “esterna” quella che travalica detti confini. Ne consegue che la migrazione esterna o “internazionale” dipende anche dalla legislazione più o meno liberale in materia di uscita dal paese di origine e di ingresso nel paese di accoglienza. La classificazione, naturalmente, tiene conto anche di altre peculiarità, quali la direzione, i caratteri del migrante e della sua (eventuale) famiglia, i mezzi di trasporto, la volontarietà o la coercitività dello spostamento. Le cause che concorrono a determinare i movimenti migratori possono essere varie e molteplici (economiche, politico-sociali, religiose, geografiche, biologiche); sovente più motivazioni coesistono, ma è quasi sempre possibile individuare come causa di fondo comune l’esistenza di uno squilibrio demografico e/o economico tra il luogo di partenza e il luogo di arrivo. Tale causa può essere definita anche “pressione demografica differenziale”, ovvero squilibrio nel rapporto tra ritmo di sviluppo demografico e ritmo di sviluppo economico. Anche gli effetti, come le cause, sono di varia natura (demografici, economici, sociali, politici, antropologici). Essi si manifestano tanto nei luoghi di partenza che in quelli di arrivo, con aspetti spesso difficilmente valutabili e persino difficilmente individuabili, poiché agli effetti “diretti”, quasi sempre noti, si accompagnano complessi effetti “indiretti”, il più delle volte sconosciuti nell’intensità e nella direzione. È difficile ricostruire i movimenti migratori del lontano passato, che si pensano prevalentemente di carattere etnico e dovuti soprattutto a cause ambientali; ricordiamo, tuttavia, l’irradiamento delle stirpi dall’Asia centromeridionale, consideratane l’origine, alle diverse aree del mondo. Nel primo millennio dell’era cristiana hanno interesse le invasioni barbariche (germani, sassoni) che si sono succedute a ondate fino a poco dopo l’anno mille, le diaspore religiose (i valdesi, ad esempio), l’espansione araba. Relativamente più facile è seguire gli spostamenti di popolazione nei secoli che più si avvicinano all’età contemporanea. Nel periodo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si ebbe un profondo movimento in uscita dall’Europa e diretto verso le Americhe, l’Australia e l’Africa meridionale. Il grande esodo europeo interessò più di cinquanta milioni di soggetti. Dalla seconda metà del XIX secolo la pressione demografica differenziale, dovuta congiuntamente al processo definito “transizione” e ai profondi cambiamenti politici di fine secolo, si è manifestata con un’inversione dei flussi migratori, portando ingenti quantità di persone dei paesi giovani e poveri in via di sviluppo nei paesi anziani e ricchi sviluppati dell’Europa, dell’America e dell’Asia. Questi flussi di nuova direzione sembrano destinati a perdurare almeno fino alla metà del XXI secolo, favoriti dal progressivo invecchiamento demografico dei paesi sviluppati e dall’elevato tasso di crescita degli altri paesi. Sul piano demografico, le migrazioni fanno diminuire la consistenza della popolazione del luogo di partenza in misura pari al flusso di uscita e fanno aumentare corrispondentemente la consistenza della popolazione del luogo (o dei luoghi) di arrivo. Quale effetto derivato, si produce un cambiamento della struttura per sesso ed età delle due (o più) popolazioni: tra gli emigranti prevalgono i maschi in età produttiva (15-50 anni), il più spesso celibi. Si abbassa, di conseguenza, il rapporto tra maschi e femmine (rapporto di mascolinità) nella popolazione di origine, così come il peso percentuale delle classi di età centrali. L’inverso avviene nella popolazione di arrivo. Ulteriori conseguenze si osservano nei riguardi della natalità, della mortalità e della nuzialità. Una misura dei movimenti migratori è data dai tassi di immigrazione ed emigrazione e dalla migrazione netta. Il tasso (o quoziente) di immigrazione è dato dal rapporto tra il numero di immigrati in un dato territorio, in un certo intervallo di tempo, e la consistenza media della popolazione del territorio nell’intervallo considerato. Analogamente vale la definizione di tasso di emigrazione. La migrazione netta, invece, è la misura assoluta del movimento migratorio ed è data dalla differenza tra il numero degli immigrati e il numero degli emigrati, fissato il territorio e il periodo di tempo. [Mauro Reginato]