Messico

Stato attuale dell’America centrale.

  1. L’era precolombiana
  2. La colonizzazione spagnola
  3. Il nuovo stato: dal liberalismo alla dittatura
  4. La rivoluzione messicana
1. L’era precolombiana

L’evoluzione del Messico precolombiano suole essere suddivisa in tre grandi periodi: il periodo formativo, il periodo classico e il periodo postclassico. Il periodo formativo (2300 a.C.-200 d.C.) vide la graduale sedentarizzazione delle popolazioni neolitiche nella valle del Messico, dove favorevoli condizioni climatiche favorirono lo sviluppo dell’agricoltura e la coltivazione di quei prodotti da allora alla base dell’alimentazione messicana (mais e fagioli neri). È agli inizi di questo periodo, inoltre, che comparvero forme di religiosità ispirate ai culti della fertilità, le prime ceramiche e statuine in terracotta. A partire dal primo millennio, in concomitanza con il passaggio a forme più complesse di organizzazione sociale basate sull’aggregazione di più villaggi attorno a nuclei politico-religiosi, sorsero i primi centri cerimoniali e con essi le imponenti manifestazioni di arte monumentale, come le tombe a forma piramidale, le grandi sculture, le stele e gli altari in pietra accompagnate da una raffinata produzione di arte minore, come ornamenti in giada, statuine, tessuti e ceramiche bicolori. Determinante fu l’influenza di un’evoluta civiltà agricola, quella degli olmechi, che ebbe i suoi centri più importanti a La Venta e Tres Zapotes, nell’area di Veracruz-Tabasco. Il declino per cause sconosciute della civiltà olmeca coincise con l’ascesa delle zone interne dell’altopiano dove, nel tardo periodo formativo, si delinearono quelle forme di organizzazione sociale di tipo urbano a base sacerdotale che costituirono una delle caratteristiche principali del periodo successivo. Il periodo classico (200-900) rappresentò il punto più alto della civiltà precolombiana, nel corso del quale fiorirono e si cristallizzarono le grandi aree subculturali del Centro America: da quella di Teotihuacán nella valle del Messico, a quella degli zapotechi attorno a Oaxaca, a quella dei totonachi sulla costa del Golfo, a quella dei maya nello Yucatán. A questo periodo risalgono i prodotti più significativi dell’architettura religiosa, la comparsa della scrittura geroglifica, lo sviluppo della matematica e dell’astronomia, che permisero un computo del tempo (come nel calendario maya) quasi perfetto. Con la distruzione di Teotihuacán, avvenuta attorno al 700, iniziò il declino delle civiltà del periodo classico. Per circa due secoli guerre e migrazioni dal nord sconvolsero il Messico centromeridionale aprendo il periodo postclassico (900-1520), che vide dapprima l’affermarsi delle popolazioni guerriere dei toltechi, insediatisi nella valle del Messico, e dei mixtechi nello stato di Oaxaca (950-1200), quindi dei chichimeci e dei tepanechi e, infine, dopo una guerra sanguinosa per il controllo degli altopiani, degli aztechi, una popolazione guerriera che riuscì a sottomettere gradualmente le tribù vicine e il cui impero, al momento della conquista spagnola, si estendeva su tutto il Messico centrale e su parte di quello meridionale.

Top

2. La colonizzazione spagnola

La conquista dell’impero azteco iniziò il 21 aprile del 1519, quando Hernán Cortés, partito da Cuba con un esercito di poche centinaia di uomini, sbarcò a San Juan de Ulloa quale inviato del governatore di Cuba per stabilire contatti con l’imperatore azteco Montezuma II. Inoltratosi verso l’interno, Cortés raggiunse in breve tempo la capitale Tenochtitlán, fece prigioniero Montezuma e assunse il potere, mentre i soldati si diedero al saccheggio del territorio. Nella primavera del 1520 la popolazione, approfittando dell’assenza di Cortés, si ribellò riuscendo a cacciare gli spagnoli dalla capitale, che venne però definitivamente riconquistata e distrutta il 13 agosto del 1521, dopo un assedio di otto mesi durante il quale morirono di fame e di malattia decine di migliaia di persone. Sulle rovine della città fu fondata Città del Messico, da allora capitale della colonia che venne chiamata Nuova Spagna. Distrutto l’impero azteco, gli spagnoli sottomisero facilmente il resto del paese a eccezione dello Yucatán, dove le popolazioni maya resistettero tenacemente fino al 1547, e delle regioni del nord, il cui assoggettamento procedette più lentamente in parte per le sfavorevoli condizioni logistiche e in parte per la combattività delle tribù indiane, alcune delle quali restarono indipendenti fino alle soglie del XVIII secolo. La nuova colonia fu posta inizialmente sotto l’amministrazione provvisoria di Cortés, nominato governatore e capitano generale. Nel 1528 fu insediata l’audiencia di Città del Messico e nel 1530 quella di Guadalajara. Nel 1535, infine, venne istituito il viceregno della Nuova Spagna, sotto l’autorità suprema del re di Spagna assistito dal Consiglio delle Indie. Gli obiettivi fondamentali dell’amministrazione spagnola furono il mantenimento dei territori conquistati sotto l’autorità indiscussa della Corona di Spagna, lo sfruttamento delle loro ricchezze a vantaggio della madrepatria, la cristianizzazione degli indigeni. Al primo obiettivo provvide un ordinamento della colonia, poi esteso a tutto l’impero, basato sulla divisione del paese in province rette da governatori, a loro volta articolate in unità più piccole affidate a corrigidores o alcaldes mayores. La nomina di questi funzionari, che dovevano essere spagnoli di nascita, spettava al governo centrale, mentre i creoli, cioè i nativi di origine spagnola, avevano accesso agli organismi di autogoverno delle città, i cabildos, elettivi ma investiti di poteri assai limitati. L’organizzazione dello sfruttamento passò, secondo la concezione mercantilistica, attraverso l’attribuzione alla colonia del ruolo di fornitore di materie prime e alla madrepatria del monopolio commerciale. Tutti i prodotti in uscita e in entrata dovevano infatti passare per la Spagna, che si riservò anche il diritto di tassazione diretta e indiretta. Alla conversione degli indigeni, spesso rivelatasi più nominale che sostanziale, provvide infine la chiesa cattolica, che costituì un elemento decisivo dell’ordine coloniale in quanto mezzo di assimilazione delle popolazioni assoggettate ai valori dominanti dei conquistatori spagnoli. Fin dagli inizi della colonizzazione, l’asse portante dell’economia locale fu rappresentato dall’encomienda, cioè dall’assegnazione formale ai coloni di villaggi o gruppi di villaggi, ai cui abitanti potevano essere richieste prestazioni di lavoro obbligatorie, in cambio del pagamento di tributi alla Corona, della difesa militare e dell’impegno alla “civilizzazione” e alla cristianizzazione degli indiani. Nella sua forma originaria, l’encomienda riconosceva agli indiani lo statuto di uomini liberi; escludeva esplicitamente che quanti erano sottoposti a tale regime, benché obbligati a prestare lavoro, potessero essere comprati o venduti; imponeva agli encomenderos un trattamento umano e conforme ai principi cristiani degli affidati. Nella realtà, essa si trasformò subito in un sistema di lavoro forzato con conseguenze disastrose per gli indiani, i quali vennero di fatto ridotti in schiavitù e sottoposti a un regime tale da mettere in forse la loro stessa sopravvivenza (si calcola che tra il 1519 e il 1602 la popolazione indigena in Messico passò da circa 25 milioni a poco più di 1 milione). I ripetuti tentativi da parte della Corona di limitarne gli abusi, a partire dalle Nuove Leggi del 1542-43, rimasero di fatto lettera morta. Anche nella chiesa si ebbe una profonda divisione tra i sostenitori della naturale superiorità dei bianchi, e quindi del diritto di questi ultimi alla conquista e al soggiogamento, e i difensori del diritto degli indigeni a vivere da uomini liberi, favorevoli alla totale abolizione dell’encomienda. Essa tuttavia non avrebbe potuto essere estirpata senza compromettere l’intero assetto dell’economia coloniale e sopravvisse formalmente fino al XVIII secolo, anche se a quel tempo la sua funzione era di fatto esaurita. L’assetto istituzionale creato agli inizi dell’era coloniale si mantenne sostanzialmente inalterato fino alla metà del secolo XVIII, quando Carlo III di Borbone (1759-88) avviò una serie di riforme che miravano da una parte a rendere più efficace il controllo della Corona sulle colonie attraverso una maggiore centralizzazione e dall’altra a stimolare l’economia introducendo misure di liberalizzazione degli scambi commerciali. Gli effetti furono positivi e la Nuova Spagna raggiunse un notevole sviluppo, anche grazie alle ingenti risorse naturali che consentirono una straordinaria accumulazione di ricchezze. Tali ricchezze tuttavia, per effetto della struttura stessa dell’economia basata sul grande latifondo, andarono concentrandosi nelle mani di una ristretta élite di grandi proprietari spagnoli nati in Spagna (gachupines) o in America (creoli) cui si contrapponeva la massa della popolazione india e meticcia (di sangue misto spagnolo e indio) che viveva in condizioni di miseria spaventosa. La mancanza di una classe di piccoli proprietari e la conseguente estrema polarizzazione della struttura sociale fecero sì che la rivoluzione in Messico assumesse fin dagli inizi, a differenza che nelle altre colonie dell’impero spagnolo, una forte connotazione sociale. Le condizioni per la rivolta contro gli spagnoli furono poste dall’occupazione della Spagna da parte di Napoleone (1808) e dalla cacciata di Ferdinando VII. Approfittando del vuoto di potere (l’autorità del nuovo re Giuseppe Bonaparte non venne di fatto riconosciuta nelle colonie), i creoli da Città del Messico affermarono la propria volontà di autogoverno, pur dichiarando fedeltà al sovrano deposto. Il movimento venne prontamente represso dai gachupines e i suoi leaders imprigionati, ma il seme era ormai gettato. Nel 1810, un esponente del basso clero, il prete Miguel Hidalgo y Costilla, riprese la lotta chiedendo la fine del dominio spagnolo, l’eguaglianza razziale e la restituzione agli indios delle terre che erano state loro tolte con la conquista. Il suo programma, che gli valse l’appoggio degli indios e dei meticci, allarmò i creoli, i quali fecero causa comune con i gachupines per respingere e sottomettere gli insorti. Nel marzo del 1811 Hidalgo venne fatto prigioniero dalle autorità spagnole e sei mesi dopo fucilato. La guida del movimento insurrezionale passò allora nelle mani di un altro prete, il meticcio José María Morelos, il quale con un esercito piccolo ma efficiente conquistò gran parte del Messico meridionale. Nel 1813 Morelos convocò un Congresso che proclamò l’indipendenza del Messico ed emanò una costituzione repubblicana. Di fronte all’ostilità di spagnoli e creoli, uniti dal timore di una rivoluzione sociale, anche Morelos dovette soccombere. Sconfitto e catturato, fu ucciso nel 1815. Il movimento riprese nel 1820, quando il successo della rivoluzione liberale in Spagna indusse l’aristocrazia creola appoggiata dall’alto clero a schierarsi per l’indipendenza nel timore di più gravi rivolgimenti sociali. L’iniziativa venne assunta da Augustín de Itúrbide, capo dell’esercito spagnolo in Messico, il quale raggiunto un accordo con Vicente Guerrero, un ex luogotenente di Hidalgo, sui tre punti fondamentali dell’indipendenza nazionale, del riconoscimento del cattolicesimo come religione di stato e dell’eguaglianza tra creoli e gachupines (piano di Iguala o delle “tre garanzie” del 25 febbraio 1821) trattò con l’ultimo viceré della Nuova Spagna, Juan O’Donojú, ottenendo con il manifesto di Córdoba del 24 agosto il riconoscimento dell’indipendenza del Messico. Questa fu dunque il risultato non di un processo rivoluzionario guidato dai liberali, come nella maggior parte dei paesi sudamericani, ma dell’azione dei vecchi gruppi dirigenti decisi a mantenere lo status quo.

Top

3. Il nuovo stato: dal liberalismo alla dittatura

L’accordo raggiunto dalle forze indipendentiste aveva lasciato impregiudicata la questione dell’assetto istituzionale del nuovo stato. Forte dell’appoggio delle forze conservatrici Itúrbide riuscì prima a far prevalere la soluzione monarchica e quindi, con un colpo di mano, a farsi nominare imperatore del Messico con il nome di Augustín I (19 maggio 1822). L’anno seguente, però, una ribellione militare capeggiata dal generale Antonio López de Santa Anna lo costrinse a dimettersi e il 24 settembre del 1824 fu proclamata la repubblica che, sul modello di quella statunitense, assunse la forma federale (Stati Uniti del Messico). Il passaggio dal vecchio regime coloniale a una repubblica democratica si rivelò assai travagliato; mancavano infatti i presupposti per dare attuazione a quei principi liberali posti alla base della carta costituzionale. Il paese cadde quindi in preda a una forte instabilità politica, aggravata da una crisi economica catastrofica. La prima fase fu caratterizzata dalla lotta fra due schieramenti: il primo, liberale e federalista, espressione dei ceti medi urbani, favorevole in politica estera a più stretti rapporti con gli Stati Uniti; il secondo, conservatore e centralista, appoggiato da esponenti della vecchia aristocrazia creola e spagnola, che vedeva di buon grado l’intensificarsi delle relazioni economiche e diplomatiche con la Gran Bretagna. Tra il 1824 e il 1855 non meno di 34 governi si succedettero l’un l’altro; vennero cambiate quattro costituzioni, due di tipo federale e due centralistiche. Il trentennio fu dominato dalla figura di Santa Anna il quale, servendosi dell’esercito, giunse a instaurare una sorta di dittatura personale sulla vita politica del paese che controllò sia direttamente, assumendo più volte il ruolo di presidente, sia indirettamente attraverso uomini di fiducia. Nel 1836, in seguito all’abolizione della schiavitù decisa dal governo messicano, scoppiò una rivolta autonomistica in Texas, sfociata nella dichiarazione di indipendenza da parte della popolazione, composta in larga parte da immigrati dagli Stati Uniti che vi si erano stabiliti nel corso degli anni Venti, colonizzando un territorio prima di allora scarsamente popolato e dando vita a una economia di piantagione basata sul lavoro degli schiavi. Santa Anna, deciso a stroncare la ribellione, si pose alla guida di un esercito e marciò verso il Texas ma, dopo alcuni successi iniziali culminati nella conquista di El Alamo, subì una grave sconfitta che sancì di fatto la vittoria dei ribelli. Il Texas venne formalmente annesso agli Stati Uniti nel 1845. La guerra messicano-americana (1845-48) fu lunga e sanguinosa e vide ancora una volta Santa Anna, rieletto presidente nel 1846, guidare l’esercito messicano contro un avversario, gli Stati Uniti, incomparabilmente più forte e meglio equipaggiato. Gli USA registrarono una serie di vittorie che consentirono loro di occupare prima Monterrey, poi Santa Fe, poi ancora Veracruz e infine la stessa capitale, Città del Messico (14 settembre 1847). Il conflitto si concluse nello stesso anno con l’esilio di Santa Anna e la creazione di un nuovo governo incaricato di avviare negoziati di pace. Col trattato di Guadalupe Hidalgo, firmato il 2 febbraio del 1848, il Messico cedette agli Stati Uniti più della metà del proprio territorio (oltre al Texas, il Nuovo Messico, l’Arizona, la California, parte dello Utah, il Nevada e il Colorado) in cambio di un modesto indennizzo. Infine, nel 1853, per salvare il paese dalla bancarotta, Santa Anna, richiamato dai conservatori che gli conferirono poteri illimitati per un tempo indefinito, sottoscrisse un atto di vendita (Gadsden’s Purchase) agli Stati Uniti di altri 118.000 kmq di territorio, portando i confini tra i due stati alla linea attuale. Il denaro servì a tappare alcune falle, ma la corruzione e gli sprechi del regime finirono col provocare un movimento insurrezionale, guidato dai liberali, che in breve tempo portò alla cacciata di Santa Anna ponendo definitivamente fine alla sua carriera politica (1855). Il ritorno dei liberali al potere (1855-76) segnò una decisa rottura con il passato e l’inizio di una profonda azione di riforma politica e sociale (detta la “Reforma”), che ebbe nell’avvocato meticcio Benito Juárez, ministro della Giustizia sotto la presidenza di Alvarez e poi presidente, il suo più convinto sostenitore. Il programma dei liberali, in larga maggioranza meticci o indios della classe media, comprendeva l’abolizione dei privilegi della chiesa e dell’esercito, una riforma agraria che attraverso la vendita dei beni ecclesiastici portasse alla diffusione della piccola e media proprietà, la laicizzazione dell’insegnamento e lo sviluppo economico. Vennero quindi emanate una serie di leggi, quali l’abolizione dei tribunali ecclesiastici e militari, la secolarizzazione dei beni di manomorta, la soppressione degli ordini religiosi e una nuova costituzione federalista (1857), che sancì il principio della separazione tra stato e chiesa e indicò le linee della riforma agraria. La reazione delle forze conservatrici non si fece attendere. Nel 1858, con un colpo di stato militare, esse si impadronirono di Città del Messico costringendo Benito Juárez, divenuto presidente, a fissare il suo quartier generale a Veracruz. Seguì una guerra civile durata tre anni che si concluse con la vittoria dei liberali. Ma la tregua durò poco. Nel corso del 1861, cogliendo a pretesto la decisione del governo messicano di sospendere per due anni il pagamento degli interessi sul debito estero per far fronte al grave deficit finanziario, le grandi potenze europee Spagna, Gran Bretagna e Francia, fin dagli inizi ostili alle forze della “Reforma”, inviarono in Messico una spedizione allo scopo di premere sul governo. Spagna e Gran Bretagna, accortesi di favorire le ambizioni personali di Napoleone III, al quale gli esuli messicani a Parigi avevano offerto il trono in cambio di aiuto contro i liberali, si ritirarono quasi subito. La Francia invece intraprese una guerra di conquista (la guerra franco-messicana del 1862-63) che si concluse con l’insediamento a Città del Messico col titolo di imperatore di Massimiliano d’Asburgo, il candidato di Napoleone III (1864). Juárez, aiutato dagli Stati Uniti che non tolleravano la presenza francese alle loro frontiere, iniziò allora una lotta di resistenza contro il nuovo regime il quale, abbandonato dai francesi costretti a ritirarsi per le pressioni internazionali, cadde infine nel maggio del 1867. Massimiliano, fatto prigioniero, fu condannato a morte e fucilato. Benito Juárez, riconfermato presidente nel 1867 e nel 1871, morì nel 1872 lasciando al suo successore, Sebastián Lerdo de Tejada, una eredità difficile di tensioni sociali e politiche, per affrontare le quali occorrevano un’autorità e un prestigio che egli non possedeva. Nel 1876 una ribellione guidata dal generale meticcio Porfirio Díaz, un eroe della guerra contro i francesi, rovesciò il governo e pose fine all’egemonia liberale. L’era della “Reforma” si chiuse così con un bilancio contraddittorio: al suo attivo stavano la definitiva acquisizione del principio della separazione fra stato e chiesa, la formazione di una coscienza nazionale e il discredito delle forze più reazionarie; al passivo, il fallimento della riforma agraria che, contrariamente alle intenzioni dei suoi sostenitori, aveva arricchito i grandi proprietari terrieri e ulteriormente impoverito le masse dei contadini indios; la mancata democratizzazione del paese e il permanere della corruzione politica; i magri successi ottenuti in materia di istruzione e di miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Giunto alla presidenza con un colpo di mano, Díaz mantenne il potere quasi ininterrottamente fino al 1911, instaurando una dittatura relativamente mite nel corso della quale il Messico, grazie all’afflusso di capitali stranieri, specie statunitensi, conobbe un notevole sviluppo economico i cui benefici, però, andarono quasi esclusivamente a vantaggio delle classi medie e alte. Divennero così esplosive le contraddizioni vecchie e nuove della società messicana. Al malcontento dei braccianti agricoli (peones), indebitati e alla mercé dei datori di lavoro, si aggiunse l’insoddisfazione crescente della nuova classe operaia, cui era negato il diritto di organizzazione sindacale, e di parte della borghesia liberale e nazionalistica, che auspicava il ritorno alla legalità costituzionale e chiedeva che fosse posto un freno al crescente peso economico del capitale straniero.

Top

4. La rivoluzione messicana

L’iniziativa fu assunta nell’autunno 1910 da Francisco Madero, un ricco possidente creolo, il quale diede vita a un movimento rivoluzionario in tutto il paese che portò in breve tempo alle dimissioni di Díaz e alla caduta del regime (25 maggio 1911). Madero fu eletto presidente nel novembre del 1911. Fin dagli inizi egli si trovò ad affrontare il conflitto tra le forze moderate, che consideravano raggiunto il proprio obiettivo, e le forze radicali che chiedevano la riforma agraria. Queste ultime, guidate da Emiliano Zapata e Pascual Orozco, continuarono la lotta nelle campagne (1911-12), provocando una controffensiva reazionaria che si concluse con le dimissioni di Madero (febbraio 1913) e il passaggio della presidenza nelle mani del generale Victoriano Huerta, postosi a capo della controrivoluzione. Madero fu assassinato qualche giorno dopo il colpo di stato, probabilmente su ordine dello stesso Huerta. Questo atto provocò una sanguinosa e feroce guerra civile che vide di nuovo unite le forze moderate “costituzionaliste” di Venustiano Carranza e di Álvaro Obregón e quelle rivoluzionarie di Pancho Villa e Zapata. Huerta fu sconfitto e lasciò il paese nel luglio del 1914. Gli successe Carranza, il quale, come già Madero, non poté impedire la ripresa della guerra civile nelle campagne da parte di Zapata e Villa, decisi a imporre con la armi la soluzione della questione contadina. La rivoluzione venne infine domata. Alla vittoria delle forze moderate contribuì la promulgazione di una nuova costituzione (febbraio 1917) che, unendo ai tradizionali principi dello stato laico e liberale istanze di riforma e di giustizia sociale assai avanzate, conquistò alla causa governativa il proletariato urbano isolando quello rurale. La costituzione del 1917 rimase sostanzialmente inattuata, ma costituì negli anni successivi un fattore politico di primaria importanza, specie per la parte riguardante la nazionalizzazione delle risorse minerarie e dei giacimenti di ogni genere, quando il petrolio divenne una risorsa decisiva nello sviluppo economico del paese. Durante la presidenza Carranza (1917-20), interrotta da una rivolta che gli costò la vita, si spensero gli ultimi focolai della rivoluzione contadina (Zapata fu assassinato a tradimento nel 1919 e Pancho Villa si arrese ai governativi nel 1920) ed ebbe inizio l’opera di normalizzazione del paese che proseguì con i suoi successori, Álvaro Obregón (1920-24) e Plutarco Elías Calles (1924-28). Il primo avviò una riforma agraria di notevole ampiezza che distribuì la terra ai contadini, appoggiò i sindacati e le organizzazioni dei lavoratori, lanciò un programma di edilizia scolastica e, in politica estera, ristabilì le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti interrottesi dopo la caduta di Carranza, dando garanzie circa i pozzi di petrolio di proprietà delle compagnie nordamericane. Il secondo, proseguì nella linea politica del suo predecessore e diede attuazione alle clausole anticlericali contenute nella costituzione, entrando in conflitto con il clero cattolico che per tre anni (1926-29) si astenne dalla celebrazione della messa (rivolta dei cristeros). Calles dominò di fatto la vita politica messicana fino al 1934, riuscendo a far eleggere propri candidati grazie al controllo sul Partito nazionale rivoluzionario (PNR), poi Partito rivoluzionario istituzionale (PRI), una nuova formazione politica in cui erano confluite le diverse forze che avevano appoggiato la rivoluzione e che divenne da allora il partito governativo. Nell’insieme, però, gli ultimi anni di Calles furono caratterizzati da una svolta moderata e da una crescente corruzione politica. L’elezione del generale Lázaro Cárdenas alla presidenza (1934-40), appoggiata dall’ala sinistra del PNR, segnò il declino dell’influenza di Calles, definitivamente emarginato nel 1936, e la ripresa di una forte iniziativa riformatrice con quella che venne definita la “seconda rivoluzione messicana”. In effetti, Cárdenas riuscì a far rivivere quel blocco sociale progressista formato da ceti medi, contadini e classe operaia che aveva reso possibile il successo della rivoluzione. Sotto la sua presidenza furono distribuiti oltre 17 milioni di ettari ai contadini, lo stato intervenne a sostegno dell’industrializzazione, furono nazionalizzate le ferrovie e, nel 1938, le società petrolifere straniere. Il Messico di Cárdenas, inoltre, appoggiò militarmente la repubblica spagnola contro i ribelli franchisti, diede asilo ai perseguitati politici dell’antifascismo, si schierò a fianco degli alleati nella seconda guerra mondiale. Cárdenas fu l’ultimo rappresentante al potere della generazione dei rivoluzionari messicani. Dopo di lui il moderatismo sociale prevalse rapidamente. Il suo successore, Manuel Àvila Camacho (1940-46), devoto cattolico, abbandonò progressivamente le posizioni anticlericali fino alla completa riconciliazione tra chiesa e stato e accolse le richieste degli Stati Uniti di risarcimento per la nazionalizzazione dell’industria petrolifera, ottenendo in cambio massicci aiuti finanziari. Gli anni Cinquanta furono anni di sviluppo economico e civile. Crebbe la produzione agricola, grazie alla meccanizzazione e all’introduzione di moderne tecniche di irrigazione, e decollò l’industrializzazione; migliorò il tenore di vita della popolazione che conobbe, a differenza della maggior parte dei paesi dell’America Latina, una lunga fase di stabilità politica e sociale. Molti problemi rimanevano tuttavia insoluti: nel corso degli anni Sessanta cominciarono a manifestarsi gli effetti del crescente divario tra agricoltura e industria, con conseguenti fenomeni di espulsione di popolazione, che dalle campagne mosse verso le grandi città andando incontro alla disoccupazione e al degrado; si ebbe inoltre una forte dilatazione delle classi medie nei servizi e nell’amministrazione il cui reddito crebbe a scapito dei lavoratori dell’industria e dell’agricoltura. La stessa vita politica, seppure nel quadro di un sistema democratico (nel 1953 fu concesso il voto alle donne), soffrì del monopolio politico del PRI, il quale finì per appiattire ogni dialettica politica su un conformismo di regime che garantiva sì il consenso, ma bloccava ogni tipo di innovazione. A complicare il quadro stava la presenza invadente del capitale nordamericano, che rese a volte tesi i rapporti con il governo di Washington, come nel caso dell’atteggiamento da tenere nei confronti della rivoluzione cubana, che il Messico si rifiutò di condannare. Le tensioni sociali accumulate scoppiarono nel 1968 in una serie di violente agitazioni studentesche e in episodi di guerriglia urbana e nelle campagne, culminati nei sanguinosi scontri di Città del Messico alla vigilia delle Olimpiadi (3 ottobre 1968) tra esercito e manifestanti, durante i quali si ebbero decine di morti. Anche in questa occasione, però, il Messico dimostrò la saldezza delle proprie conquiste democratiche e reagì rilanciando la politica delle riforme. Sotto la presidenza di Luis Echeverría (1970-76) furono varate significative misure di riforma agraria, di perequazione fiscale, di sostegno ai produttori agricoli e di nazionalizzazioni nel settore minerario. La scoperta di nuovi giacimenti petroliferi nel 1974, proprio nel momento in cui la crisi energetica internazionale per effetto della guerra del Kippur faceva aumentare i prezzi del petrolio, diventato una risorsa strategica di primaria importanza, alimentò un forte ottimismo circa le prospettive di sviluppo del paese. Alla ricerca di una maggiore autonomia dagli Stati Uniti, il Messico intensificò i rapporti con i paesi del Centro e del Sud America, incrementò gli scambi con il Giappone e stabilì relazioni diplomatiche con la Cina e con la Germania Orientale; contemporaneamente, puntando sullo sviluppo dell’industria petrolifera, contrasse enormi debiti con l’estero per sostenere gli investimenti nel settore. La caduta del prezzo del petrolio verificatasi proprio agli inizi degli anni Ottanta ebbe così effetti disastrosi sull’economia messicana. Il nuovo presidente José López Portillo (1976-82) si trovò a fronteggiare una situazione di crisi che andò crescendo fino ad assumere proporzioni drammatiche sotto il suo successore Miguel de la Madrid Hurtado (1982-88) il quale, nel tentativo di risanare la finanza pubblica, dovette adottare misure di austerità che portarono alla miseria larghe fasce di popolazione e incrinarono l’immagine e il ruolo del PRI. Ciò emerse chiaramente nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 1988 che, per la prima volta dalla vittoria della rivoluzione, si svolsero in un clima di grande incertezza, mettendo a nudo la precarietà della situazione politica del paese. La crisi del PRI si fece evidente con l’espulsione nel 1987 del leader della sinistra del partito Cuauhtémoc Cárdenas, figlio del grande presidente Lázaro Cárdenas e assai popolare, il quale, accusando i vertici di tradire gli interessi delle masse popolari, fondò il Partito della rivoluzione democratica (PRD). Appoggiato dalle formazioni marxiste che avevano fino ad allora avuto un ruolo assolutamente marginale nella politica messicana si presentò quale candidato unico delle sinistre. Il candidato ufficiale del PRI, Carlos Salinas de Gortari, risultò eletto con il 50,7% dei voti contro il 31% di Cárdenas e il 17% di Manuel Clothier, candidato del Partito di azione nazionale (PAN), una formazione di destra, sostenuta agli ambienti finanziari, da sempre all’opposizione. I risultati delle elezioni furono duramente contestati: le opposizioni, infatti, avanzarono il sospetto che la vittoria fosse stata ottenuta con brogli elettorali. Finiva comunque il monopolio incontrastato del partito governativo il quale, nel timore di dover fronteggiare una situazione divenuta pericolosa per il proprio potere, propose nell’agosto una riforma elettorale, approvata con l’appoggio del PAN, che attribuì un premio di maggioranza per il partito che avesse superato il 35% dei suffragi. La presidenza Salinas si contraddistinse per l’energia con cui intraprese la lotta al sistema clientelare del vecchio partito e alla corruzione politica. Sul piano economico avviò un programma di privatizzazioni delle industrie di stato improduttive e affrontò il problema del debito estero, accogliendo il piano Brady per i paesi indebitati e ottenendo nuovi prestiti dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. Già nel 1989 il Messico si ritrovò al primo posto tra i paesi dell’America Latina per l’alleggerimento degli interessi passivi. Salinas impresse altresì una svolta alla politica estera del paese, riavvicinandolo agli Stati Uniti dapprima con la firma di un accordo per la lotta al traffico della droga e quindi, nel 1990, in un incontro col presidente George Bush, con l’elaborazione di un progetto per una zona di libero scambio tra Canada, Stati Uniti e Messico da definirsi entro il 1991. Anche il vecchio dissidio con la chiesa cattolica fu infine composto: nel 1990, in occasione della visita di Giovanni Paolo II, Salinas riallacciò i rapporti diplomatici con la Santa Sede, proibiti dalla costituzione del 1857, ponendo fine alla pregiudiziale anticlericale dello stato messicano. Nel 1994 entrò in vigore l’accordo di libero scambio, la North American Free Trade Association (NAFTA), che nel giro di pochi anni diede nuovo slancio all’economia messicana, favorendo gli investimenti esteri. In quello stesso anno scoppiò una gravissima crisi interna in seguito all’emergere di un movimento armato di guerriglia sostenuto dai poverissimi indios della regione del Chiapas, costituitisi in Esercito zapatista di liberazione nazionale sotto la guida del Subcomandante Marcos, subito affrontato dall’esercito. Sempre nel 1994 fu eletto presidente Ernesto Zedillo Ponce de Léon, membro del PRI, che si trovò a dover gestire una difficile crisi economica e finanziaria, superata nel giro di alcuni anni con l’aiuto degli USA e del Fondo Monetario Internazionale. Zedillo avviò nel 1996 trattative con gli zapatisti del Chiapas, che avevano dato vita a un’organizzazione politica, il Fronte zapatista di liberazione nazionale (FZLN), promettendo una maggiore autonomia della regione e una rappresentanza politica degli indigeni nel Congresso. Se non che un nuovo fronte di guerriglia fu aperto nello stato di Guerriero a opera di un Esercito popolare rivoluzionario. Un accordo raggiunto tra i vari partiti portò all’approvazione nel 1996 di una serie di misure intese a garantire a tutte le forze politiche pari condizioni nella competizione elettorale, misure che però poco dopo il PRI rimise in discussione. Nelle elezioni del 1997 per la Camera dei deputati, segnate da inusuale correttezza, il PRI perse la maggioranza per la prima volta nella sua storia, creando condizioni di tensione tra il Parlamento e il presidente Zedillo. Nel 1998 il Messico fu colpito da siccità e al tempo stesso da gravi inondazioni che danneggiarono gravemente il Chiapas. In seguito al fallimento delle trattative tra il governo e gli zapatisti, questi ultimi nel 1999 indissero un referendum in tema di rispetto dei diritti degli indios, sostenuto da milioni di persone. La seconda metà degli anni Novanta fu segnata da gravissimi scandali – che coinvolsero l’ex presidente Salinas, il fratello Raul, condannato nel 1999 per assassinio di un esponente del PRI, e il capo dell’ufficio preposto a combattere contro i trafficanti – e dai tentativi del presidente Zedillo di interferire con il corso della giustizia. Le elezioni presidenziali del luglio del 2000 segnarono una svolta storica: per la prima volta dal 1929, infatti, il PRI perse la massima carica dello stato, che fu assunta da Vicente Fox del PAN, il quale, nonostante i dissensi interni al proprio partito, promosse un pacchetto di riforme economiche in senso neoliberale e intensificò il dialogo con gli zapatisti del Chiapas. Nelle controverse elezioni del 2006 il PAN riconquistò la maggioranza e il suo candidato, Felipe Calderon, divenne il nuovo presidente. Durante il mandato di quest’ultimo fu approvata una riforma del sistema giudiziario e fu portata avanti la lotta contro il crimine organizzato legato al traffico internazionale della droga. Negli anni Duemila la situazione socio-economica del paese restò segnata da forti squilibri interni, ulteriormente aggravati dalla crisi globale del 2008. Le elezioni presidenziali del 2012, al centro delle quali furono poste le questioni economiche e il tema della lotta alla criminalità, furono vinte dal candidato del PRI, Enrique Pena Nieto.

Top