Marx, Karl

(Treviri 1818, † Londra 1883). È considerato, insieme a Friedrich Engels (1820-1895), il fondatore del “socialismo scientifico”, espressione coniata peraltro da Proudhon. Addottoratosi a Jena nel 1841, iniziò nel 1842, scrivendo sulla “Gazzetta Renana”, una carriera giornalistica animata da un orientamento risolutamente liberale, che fu ben presto interrotta dalla censura. Nel 1843 sposò Jenny von Westphalen ed emigrò a Parigi, dove riteneva di trovare un ambiente più propizio alla vita intellettuale. Scrisse instancabilmente per tutta la vita. E una buona parte della sua produzione fu pubblicata postuma. A cominciare dalla sua prima opera importante, l’incompiuta Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, scritta nell’estate del 1843 e serrata contestazione della forma-stato e della sua pretesa di essere la rappresentazione politica della comunità umana. A Parigi diede poi vita agli “Annali franco-tedeschi”, cui collaborarono tuttavia solo gli emigrati tedeschi. Con la Questione ebraica, e con l’Introduzione alla critica della filosofia hegeliana del diritto, entrambe del 1844, alla critica dello stato si affiancò da una parte la critica del denaro, falso e alienante mediatore dei rapporti interumani, e dall’altra la scoperta del proletariato, ultima classe possibile e pensabile, nonché classe generale la cui dissoluzione è la dissoluzione di tutte le classi e della società divisa in classi. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, opera postuma sulla cui omogenea composizione esistono ormai fondati dubbi filologici, il discorso sull’alienazione si approfondì. Marx progettò in questo periodo di scrivere un’opera, che non vide mai la luce, ma i cui contenuti penetreranno in tutte le sue future riflessioni, dal titolo Critica della politica e dell’economia politica. Il giovane Marx riteneva, del resto, che, con la Rivoluzione francese, la politica avesse esaurito tutte le sue possibilità redentrici. L’emancipazione politica era dunque insufficiente giacché l’uomo era oppresso tanto dallo stato, quanto dai rapporti sociali esistenti nella società civile. La rivoluzione che si approssimava, e che avrebbe condotto al lavoro associato (o comunismo), sarebbe stata semplicemente sociale e quindi umana. Fondamentale diventò anche l’amicizia con Engels, con cui scrisse la Sacra Famiglia (1845), in polemica con i radicali della sinistra hegeliana, e l’Ideologia tedesca (1846, postuma), laboratorio della concezione materialistica della storia, la quale postula che è l’essere sociale (struttura) che determina la coscienza (sovrastruttura) e che il processo storico è stato, ed è, un succedersi di modi di produzione (asiatico, schiavistico, feudale, capitalistico), ciascuno dei quali è contrassegnato da determinati rapporti di produzione (e di classe) e da un determinato sviluppo delle forze produttive e materiali. Tale concezione fu alla base appunto del socialismo definito “scientifico”, in contrapposizione a quello “utopistico” della prima parte del XIX secolo. Espulso da Parigi, Marx riparò a Bruxelles ed entrò in contatto con la realtà sociale dell’Inghilterra. Dall’organizzazione in atto del nascente movimento operaio apprese che il processo politico era ancora decisivo. La conquista della democrazia, vale a dire la presa del potere politico da parte dell’immensa maggioranza dell’umanità (i lavoratori), era l’obiettivo prefissato nell’opera più celebre, scritta con Engels alla vigilia delle rivoluzioni del 1848, vale a dire il Manifesto del partito comunista, dove per “partito” non s’intendeva un’organizzazione nel senso moderno, ma un programma sociale e politico. Fu poi giornalista rivoluzionario a Colonia, dove animò la “Nuova Gazzetta Renana”, il cui sottotitolo era “organo della democrazia”. Tramontato il processo rivoluzionario, si trasferì definitivamente a Londra, dove scrisse numerosissimi articoli di politica internazionale per diversi giornali (tra cui l’americano “New York Daily Tribune”) e dove, nelle sale del British Museum, si dedicò allo studio sistematico dell’economia politica, destinato a concretizzarsi in uno sconfinato lavoro incompiuto, di cui in vita fu pubblicato quasi solo il primo libro del Capitale (1867), opera critica di analisi del denaro, della merce, del lavoro salariato e del modo capitalistico di produzione, identificato come formazione storicamente determinata e segnata da crescenti contraddizioni che avrebbero favorito, nei paesi industriali avanzati, la trasformazione socialista. A partire dal 1852, tuttavia, le parole “comunista” e “comunismo”, a parte le riedizioni del Manifesto, erano completamente sparite dal suo lessico. Protagonista della vita politica dell’Associazione Internazionale dei lavoratori, fondata a Londra nel 1864, e sciolta all’Aja nel 1872, scrisse un Indirizzo sulla Comune di Parigi (1871) dal titolo Le guerre civili in Francia. Vi si lodava l’“assalto al cielo” rivoluzionario e l’autogoverno dei lavoratori succeduto alla conquista-demolizione della macchina statale borghese. L’anno successivo Marx sostenne però che in Inghilterra, Stati Uniti e Olanda era possibile la conquista del potere per via pacifica. Seguì poi, e criticò, le prime mosse, programmatiche e politiche, della socialdemocrazia tedesca. Negli ultimi anni la sua capacità di lavoro si ridusse. E anche le sue certezze sul determinismo storico vennero meno. Studiò comunque, riallacciandosi agli interessi filosofici giovanili, oltre alla comune rurale russa, l’antropologia e l’etnologia. Quando morì, era consapevole del fatto il mondo era diventato assai più complesso di quel che la sua generazione avesse in gioventù immaginato. Le categorie da lui elaborate, tuttavia, condizioneranno profondamente ogni tentativo, compresi quelli effettuati degli avversari del socialismo, di comprendere e chiarire lo sviluppo sociale e storico. [Bruno Bongiovanni]