Mao Zedong

(Hunan, 1893, † Pechino 1976). Rivoluzionario e uomo politico cinese. Di famiglia contadina agiata ricevette un’educazione moderna come maestro: partecipò alla grande trasformazione dei giovani intellettuali del “Movimento del 4 maggio” e, divenuto marxista, nel 1921 fu tra i fondatori del Partito comunista. Animato da forte sentimento nazionale, visse intensamente la rivoluzione dopo il 1924. Al momento della repressione di Jiang nel 1927 intraprese la strada della rivolta, organizzando la lotta armata rurale nelle “basi rosse” tra Hunan e Jiangxi e poi elaborando la strategia della guerriglia sociale di lunga durata. La direzione del partito e l’Internazionale comunista si opposero alla sua linea fino al 1931, quando il successo della guerriglia indusse tutti i dirigenti a trasferirsi nelle “basi rosse”: ne seguirono violente lotte politiche tra i seguaci di Mao e gli uomini sostenuti dall’URSS e l’emarginazione di Mao. Durante la Lunga Marcia, nel 1935, riuscì a prendere la direzione del partito con l’aiuto di vari dirigenti rimasti poi sempre al suo fianco: dopo il trasferimento delle forze comuniste a Yanan nel nord, elaborò – anche con opere che sottoponevano la dialettica marxista a un ripensamento secondo una visione tipicamente cinese – la strategia mirante a mobilitare contro l’invasione giapponese la resistenza di milioni di contadini che solo i guerriglieri potevano difendere dal feroce invasore. Questa strategia raccolse attorno ai comunisti un vasto consenso delle masse rurali del nord e degli intellettuali patriottici: le basi poste così durante la guerra consentirono ai comunisti di vincere la lotta contro il Guomindang tra il 1946 e il 1949, in un’atmosfera di violento scontro sociale agrario. Mao proclamò a Pechino la repubblica popolare cinese della quale divenne presidente (fino al 1959) mentre era già e sarebbe rimasto fino alla morte presidente del partito comunista, vero strumento di governo del nuovo stato. La figura di Mao, circondata da un crescente culto personale, aveva la funzione di garantire il rapporto tra la nuova classe di quadri locali che la rivoluzione armata aveva posto al potere nelle campagne e le istituzioni centrali dello stato, impegnate in una modernizzazione fondata sull’industrializzazione e sull’adozione della cultura tecnico-scientifica. La conciliazione tra la trasformazione della società urbana, con i nuovi ceti operai e i più antichi ceti imprenditoriali e intellettuali, e il duro egualitarismo del mondo rurale si rivelò difficile, data anche la condizione di continuo assedio cui la Cina era sottoposta dagli Stati Uniti e poi dall’URSS. Deluso dal modello sovietico, Mao cercò di superare i problemi con un’accelerazione egualitaria imponendo una rapida collettivizzazione delle campagne nel 1955 e poi la loro organizzazione in comuni nel 1958, mentre il tentativo di ottenere un “grande balzo in avanti” nella produzione provocava un grave dissesto sociale e una drammatica carestia. Dopo la rottura con l’URSS negli anni Sessanta, Mao fu ossessionato dal rischio del rovesciamento delle scelte sociali compiute dalla rivoluzione: scontratosi all’interno del partito con chi favoriva una distensione sociale e un razionale sviluppo, nel 1966 promosse su parole d’ordine eversive ed egualitarie una “rivoluzione culturale” che avrebbe dovuto mobilitare i giovani in difesa della società rivoluzionaria. Le gravi tensioni che il movimento produsse e l’eliminazione di gran parte delle strutture di potere del partito provocarono però una crisi che fu contenuta solo dall’intervento autoritario dei quadri rurali, dei militari e dalla mediazione di alcuni dirigenti come Zhou Enlai. L’uomo che aveva elaborato la strategia vincente della rivoluzione cinese, morì convinto che quanto i comunisti cinesi avevano conquistato con dure vite di lotta stava per essere perduto per i mutamenti sociali in corso.