liberismo

Per liberismo si intendono una dottrina e una pratica economica secondo le quali lo sviluppo ottimale dell’economia richiede il massimo di libertà di iniziativa dell’individuo nell’ambito del mercato, liberi scambi internazionali, la minor possibile interferenza dello stato. Il liberismo è quindi l’antitesi dello statalismo, del collettivismo, del protezionismo, del monopolismo ed è sinonimo del “lasciar fare” (laisser faire). Le origini dottrinarie del liberismo sono da ricondursi alla scuola fisiocratica settecentesca (fisiocrazia), illustrata classicamente da A.-R. J. Turgot e da F. Quesnay, i quali, in polemica col mercantilismo, teorizzarono la coincidenza tra l’interesse dei privati e l’interesse pubblico e la positività del libero mercato, compreso quello del lavoro. Essi auspicarono vivamente, e lo fece con forza F. Galiani, in primo luogo la libera circolazione del grano. Il liberismo ebbe la sua maggiore espressione teorica nel pensiero di A. Smith, autore della “Bibbia” del liberismo, Indagine sulla la natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776). Egli sostenne che gli individui, nel perseguire i propri interessi, in virtù di una “mano invisibile”, finiscono per assicurare il maggior benessere della società. A differenza dei fisiocratici francesi, Smith sottolineò che vi era un nesso inscindibile tra il liberalismo politico e il liberismo economico. Il liberismo trovò tra Sette e Ottocento la sua roccaforte in Gran Bretagna, dove, seppure con una varietà di accenti, suoi fautori furono J. Bentham, J. Mill, D. Ricardo e T.R. Malthus. Come indirizzo legislativo esso trovò la sua attuazione pratica anzitutto in Gran Bretagna attraverso da un lato la revisione profonda nel 1834 della legge sui poveri stabilita nel 1601 e ormai ritenuta un ostacolo all’etica del lavoro libero e una causa di parassitismo, dall’altro l’abolizione nel 1846, dopo una vivacissima campagna guidata da R. Cobden, delle leggi sul grano (Corn laws), vale a dire del protezionismo che favoriva i produttori a scapito dei consumatori e degli interessi dell’industria interessata a beni alimentari a minor costo. A riflettere significativamente l’ideologia liberistica fu la “scuola di Manchester”, di cui furono i maggiori esponenti R. Cobden e J. Bright, orientati a sostenere il libero commercio e una concorrenza senza restrizioni. La Gran Bretagna, forte della sua superiorità industriale che le consentiva di offrire beni superiori per qualità a costi minori, divenne così nell’Ottocento la patria del liberismo e dell’antiprotezionismo, caldeggiando non soltanto il libero movimento delle merci, ma anche la riduzione al minimo delle funzioni dello stato e la sua non interferenza nelle relazioni tra capitale e lavoro (assumendo così un atteggiamento in genere ostile alla legislazione sociale). L’ideologia liberista trovò la sua celebrazione acritica nell’opera del francese F. Bastiat, che sostenne che gli interessi economici, se solo lasciati liberi di esprimersi, tendono a creare un mondo di armonie. In Italia la scuola liberista trovò tra la seconda metà del secolo XIX e i primi decenni del XX i suoi maggiori esponenti in F. Ferrara, in A. De Viti De Marco e in L. Einaudi. I liberisti diventarono i nemici per eccellenza dell’interventismo statale, dei monopoli e del socialismo. La loro battaglia non riuscì però a impedire che negli ultimi anni dell’Ottocento, in relazione alle esigenze dello sviluppo dei paesi di industrializzazione ritardata, prendessero piede forti tendenze al protezionismo e all’interventismo statale, stimolati in maniera determinante sia dalle politiche degli armamenti sia dall’inizio di politiche sociali rivolte ad attenuare i conflitti di classe e a tutelare le condizioni dei lavoratori. La prima guerra mondiale (1914-18) costituì un fattore potente in direzione di un maggiore intervento dello stato nell’economia e nelle relazioni industriali. Il tentativo di Wilson di dare al dopoguerra un fondamento ispirato al liberismo soprattutto nelle relazioni commerciali andò incontro al fallimento. In chiave teorica una critica radicale negli anni Venti e Trenta dei presupposti tradizionali del liberismo fu avanzata dall’inglese J.M. Keynes, che pubblicò nel 1936 la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta. Keynes negò che non si desse libertà politica se non nell’ambito delle politiche economiche liberistiche e si fece influentissimo fautore della tesi che il mercato capitalistico necessita di un intervento equilibratore dello stato attraverso una spesa pubblica rivolta a sostenere la domanda e quindi anche la produzione. La dottrina keynesiana, contestata dai liberisti ortodossi come L. Einaudi, L. von Mises, F. von Hayek, diventò, dopo la grande crisi del 1929 e la seconda guerra mondiale (1939-45), uno dei grandi sostegni delle politiche sociali riformatrici intese ad accrescere il ruolo dello stato in campo economico e sociale. Il keynesismo teorico, il New Deal negli Stati Uniti, l’interventismo pubblico portato avanti dai governi di orientamento laburista e socialdemocratico e non solo da questi, lo stato del benessere hanno tutti costituito una critica del liberismo e dei suoi fondamenti teorico-pratici. A partire dagli anni Settanta, in seguito ai problemi creati dall’indebitamento pubblico, dagli eccessi di regolamentazione dello stato, dall’eccessivo costo del lavoro e delle politiche sociali, dalla burocratizzazione nelle imprese statali e dalla loro perdita di competitività, si sono sviluppate correnti di neoliberismo che hanno trovato un terreno particolarmente favorevole nella Gran Bretagna di M. Thatcher e negli Stati Uniti di R. Reagan. Queste correnti hanno tratto ulteriore impulso dal crollo dei sistemi pianificatori comunisti nell’URSS e nell’Europa centro-orientale (1989-91). [Massimo L. Salvadori]