liberalismo

La parola “liberale” è entrata nel lessico politico in un’epoca non molto remota dalla nostra: essa infatti incominciò a essere usata nei primi decenni dell’Ottocento. Fu in Spagna, con le Cortes di Cadice del 1812, che essa connotò per la prima volta il partito liberal, che difendeva le libertà pubbliche contro il partito servil; il termine fu poi ripreso da Madame de Staël e da Sismonde de Sismondi, per indicare un nuovo orientamento etico-politico, e da allora esso ha incontrato la fortuna che tutti conosciamo. Questa precisazione storica è importante, perché essa significa, in primo luogo, che alcuni di quelli che noi oggi consideriamo fra i maggiori pensatori liberali (per esempio Locke, Montesquieu, Kant) non hanno mai usato le parole “liberalismo” e “liberale”, per lo meno nel senso che noi diamo ad esse: e questo non può non essere un richiamo a procedere con molta cautela quando interpretiamo la storia ideale e politica dei secoli passati con il nostro linguaggio e i nostri concetti. D’altro canto, nel pensiero politico che noi definiamo “liberale” si trovano ispirazioni e indirizzi ideali assai diversi tra loro: c’è stato un liberalismo “etico”, e c’è stato un liberalismo “utilitaristico”; nel Seicento, nel Settecento e in buona parte dell’Ottocento, il pensiero liberale ha avuto come punto di riferimento fondamentale il giusnaturalismo, ma esso è sopravvissuto anche alla crisi, o addirittura alla quasi scomparsa, nel nostro secolo, del pensiero giusnaturalistico. Ecco, dunque, un punto da tener fermo: lungo quattro secoli di storia della civiltà occidentale, non è mai esistito il liberalismo, bensì ci sono state forme diverse di pensiero liberale. Per questo alcuni studiosi hanno addirittura negato la legittimità stessa del concetto di liberalismo in quanto categoria storico-politica, e hanno preferito parlare dei molti e diversi “liberalismi”. E tuttavia, a veder bene, l’uso stesso del sostantivo, sia pure al plurale, denota qualcosa di comune che ne giustifica l’uso. Se non esistesse questo qualcosa di comune, tanto varrebbe rinunciare alla stessa parola “liberalismo”, espungerla dal lessico politico; ma questo nessuno ha mai osato proporre, e nessuno storico o filosofo serio ha mai praticato. La via giusta da percorrere sembra quella di individuare alcuni temi e alcune esigenze fondamentali, comuni ai vari pensatori e alle varie correnti “liberali”, senza dimenticare mai, però, la loro concretezza storica, e quindi la specificità delle loro articolazioni e delle loro sfumature, connesse ai diversi contesti sociali, ideali e politici: questa è appunto la strada che noi seguiremo. Fatte queste precisazioni sembra opportuno, in via preliminare, dare una definizione di carattere generale. Il liberalismo può essere definito come una dottrina, o piuttosto come un complesso di dottrine che affermano la limitazione dei poteri dello stato in nome dei diritti naturali individuali, inerenti a ogni uomo in quanto tale (i cosiddetti diritti innati). In questa definizione liberalismo e giusnaturalismo sono intimamente connessi (e in effetti così è stato alle origini). “La dottrina liberale – ha scritto Norberto Bobbio – è l’espressione, in sede politica, del più maturo giusnaturalismo: essa, infatti, si appoggia sull’affermazione che esiste una legge naturale precedente e superiore allo stato e che questa legge attribuisce diritti soggettivi, inalienabili e imprescrittibili, agli individui singoli prima del sorgere di ogni società, e quindi anche dello stato. Di conseguenza lo stato, che sorge per volontà degli stessi individui, non può violare questi diritti fondamentali (e se li viola diventa dispotico) e in ciò trova i suoi limiti; anzi deve garantirne la libera esplicazione, e in ciò trova la sua funzione, che è stata detta “negativa” o di semplice “custode””. Bobbio ha aggiunto che, per quanto riguarda i principi filosofici, il liberalismo è espressione dell’individualismo razionalistico, proprio della filosofia illuministica, per il quale l’uomo in quanto essere razionale è persona, e ha un valore assoluto, prima e indipendentemente dai rapporti di interazione coi suoi simili. Come persona, il singolo è superiore a qualsiasi società di cui entra a far parte, e lo stato, a sua volta, è soltanto un prodotto dell’uomo (in quanto sorge da un accordo o da un contratto fra gli uomini stessi), e non è mai una persona reale, bensì solo una somma di individui aventi ciascuno la propria sfera di libertà. I diritti fondamentali che lo stato deve garantire, pur variando da autore ad autore e da costituzione a costituzione, si possono raggruppare in due grandi categorie: diritti che riguardano la libertà dallo stato nella sfera spirituale (libertà di pensiero, di religione, ecc.); diritti relativi alla libertà dallo stato nella sfera economica (diritto di proprietà, libertà di intrapresa economica, di commercio, ecc.). Questa definizione riconduce giustamente il liberalismo alle sue origini, che sono giusnaturalistiche e contrattualistiche, e ne sottolinea opportunamente tanto gli aspetti filosofici quanto gli aspetti politici: l’idea della persona come valore, anteriore al costituirsi della società civile; il sorgere della società civile da un accordo fra gli individui (contrattualismo); l’idea della società come somma delle sfere di autonomia e di libertà dei singoli (sia in campo spirituale e intellettuale, sia in campo economico), che lo stato non può ledere e anzi deve garantire da qualunque intromissione. Tutti questi concetti si trovano al centro della prima grande e organica concezione liberale, quella di John Locke (1632-1704), e ritornano poi, ulteriormente sviluppati e arricchiti, nei più grandi pensatori liberali del Settecento.

  1. Le garanzie del cittadino contro gli abusi del potere
  2. Proprietà e libertà
  3. Fecondità dell’antagonismo, della varietà, del dissenso
  4. Lo stato minimo e i pericoli della democrazia
  5. Liberalismo e liberismo
1. Le garanzie del cittadino contro gli abusi del potere

L’opera politica di Locke, costituita dai Due trattati sul governo civile, fu pubblicata nel 1690, e per molto tempo fu considerata come il suggello ideologico della “gloriosa” e pacifica rivoluzione che nel 1688-89 aveva portato alla fine della dinastia degli Stuart, all’ascesa al trono di Guglielmo d’Orange, e all’avvio della monarchia fondata sulla collaborazione tra re e parlamento, che avrebbe poi costituito il modello della monarchia costituzionale. Un’analisi più attenta dei Due trattati lockiani ha permesso di stabilire che essi furono redatti circa un decennio prima, e che quindi costituiscono un documento di fondamentale importanza della maturazione spirituale e ideale che sarebbe sfociata, in Inghilterra, nella “gloriosa rivoluzione”. Nel Secondo trattato sul governo civile, Locke respinge fermamente, e in modo assai bene argomentato, tanto la concezione paternalistica del potere sovrano (con i suoi corollari assolutistici) quanto la concezione dispotica. Alla prima (che aveva il suo campione in Robert Filmer) egli obietta che il potere del monarca non può essere considerato una forma del potere paterno, e che i re non possono essere considerati i padri dei loro popoli (in virtù di una pretesa trasmissione del potere sovrano, fatta da Adamo ai suoi discendenti e quindi ai padri delle prime famiglie, e da questi ai primi monarchi), per il semplice fatto che il potere paterno è un potere duale, vale a dire un potere di entrambi i genitori sui figli (che è argomentazione, come si vede, assai moderna). Inoltre, esso è un potere temporaneo (viene esercitato, cioè, solo durante la minore età della prole); infine, è un potere limitato, poiché non può violare la vita e i possessi dei figli. Non ha senso alcuno, quindi, la giustificazione della monarchia assoluta attraverso la sua assimilazione al potere paterno. Locke combatte poi la concezione dispotica del potere sovrano (concezione che aveva avuto il suo massimo campione in Thomas Hobbes). A tal fine egli dà una caratterizzazione completamente diversa da quella hobbesiana dello stato di natura e del contratto che dà vita alla società civile o politica. Infatti, secondo Locke, nello stato naturale gli individui vivono, almeno in un primo tempo, in una condizione pacifica, godendo dei diritti che ineriscono a ogni uomo sin dalla nascita (il diritto alla vita, il diritto alla libertà e il diritto alla proprietà). Lo stato naturale, lungi dall’essere una condizione selvaggia e asociale, in cui ciascuno non è sicuro di nulla, nemmeno della vita, costituisce per Locke una società notevolmente sviluppata, in cui sono presenti istituti come la famiglia e il rapporto padrone-servo, nel quadro di condizioni economico-sociali molto articolate (corrispondenti a un’economia mercantile assai matura). L’abbandono dello stato naturale e il passaggio alla società civile o politica diventano necessari perché a un certo punto lo stato naturale degenera in stato di guerra (in esso, infatti, in mancanza di leggi positive e di giudici che le facciano rispettare, ognuno deve farsi giustizia da solo). Se non che, a differenza di quanto avviene in Hobbes, il patto stipulato fra gli individui per dar vita alla società civile o politica non costituisce per Locke una completa alienazione di tutti i diritti individuali (escluso il diritto alla vita) a un sovrano che, invece di essere un contraente del patto, ne è un mero beneficiario. Al contrario, secondo Locke, attraverso il patto gli individui entrano in società conservando tutti i loro diritti naturali (che dunque devono essere garantiti dalle leggi positive), tranne uno: il diritto di farsi giustizia da soli. Sulla base di questa impostazione il potere sovrano non può acquisire più di quanto gli sia stato trasmesso, e quindi non è un potere illimitato, non è legibus solutus, non può violare i diritti individuali, non può imporre alcunché ai cittadini, né sotto il profilo economico e sociale, né sotto il profilo spirituale e intellettuale. Il potere politico è, insomma, un potere fiduciario. Ma proprio perché è tale, esso trova la sua concretizzazione più importante nel potere legislativo (espressione della volontà della maggioranza dei cittadini). Nella concezione politica di Locke il potere legislativo è quindi il potere supremo, rispetto al quale il potere esecutivo (detenuto dal re) è senz’altro subordinato. Legislativo ed esecutivo sono poteri nettamente separati, in quanto esercitano funzioni del tutto distinte. E come il potere esecutivo non può limitare in alcun modo il potere legislativo, così quest’ultimo non può venir meno alla fiducia che il popolo ha riposto in esso. Locke è un teorico del diritto di resistenza spettante al popolo. Quest’ultimo, infatti, ha il pieno diritto o di deporre l’esecutivo che conculca il legislativo, o di rovesciare il legislativo stesso venuto meno alla sua fiducia, e di eleggere un nuovo legislativo: un diritto che il popolo può esercitare anche con la forza, poiché, dice Locke, alla forza si può reagire soltanto con la forza. Come si vede, nella concezione lockiana giusnaturalismo e contrattualismo sono strettamente connessi, ed entrambi presuppongono il primato dell’individuo singolo, coi suoi bisogni e coi suoi interessi, rispetto alla società. Prima del tutto c’è la parte, e il tutto è solo la somma delle singole parti, ovvero la società è solo la somma dei singoli individui, che nascono liberi, ed essa sorge sulla base del loro consenso, per tutelare pienamente i diritti naturali e quindi presociali degli individui medesimi. Si tratta di una concezione rigorosamente individualistica. Ma senza individualismo (contrapposto a qualsiasi forma di organicismo) non c’è liberalismo. “Senza questa vera e propria rivoluzione copernicana – ha scritto assai bene Bobbio – in base alla quale il problema dello stato è stato visto non più dalla parte del potere sovrano ma da quella dei sudditi, non sarebbe stata possibile la dottrina dello stato liberale, che è in primis la dottrina dei limiti giuridici del potere statale”. Nello Spirito delle leggi (1748) di Montesquieu, Charles-Louis Secondat (1689-1755) troviamo un’espressione fondamentale di questa rivoluzione copernicana. Nella sua opera egli ha presente tanto la monarchia francese quanto la monarchia inglese, e naturalmente le considerazioni che egli svolge in riferimento all’una e all’altra sono assai diverse, essendo diversi i rispettivi contesti sociopolitici. E tuttavia si tratta di considerazioni che muovono da un’unica preoccupazione: è assolutamente necessario limitare il potere politico, è assolutamente necessario dividerlo e frazionarlo il più possibile; solo così si potrà porre un freno a quella che è la tendenza insita nel potere medesimo (in qualunque potere), di abusare delle proprie prerogative, di prevaricare sulla società civile e di limitare gravemente o addirittura distruggere le libertà dei sudditi. L’ideale politico di Montesquieu emerge in modo netto e significativo dalla bipartizione che egli traccia tra governi moderati e governi immoderati: una bipartizione che costituisce la chiave di volta della sua opera politica. Governo moderato è quello fondato su un opportuno bilanciamento o equilibrio dei vari poteri e dei vari corpi che lo compongono, nel senso che l’uno limita l’altro senza prevaricare su di esso; il che significa che ciascun potere e ciascun corpo non agisce arbitrariamente, ma osserva regole ben precise e si muove all’interno di confini ben delineati. Se questo delicato meccanismo può essere osservato in un determinato stadio della monarchia francese – basata appunto su un complesso bilanciamento o equilibrio fra potere regio (limitato dalle leggi fondamentali), corpi intermedi (nobiltà, città, clero, coi loro diritti e i loro privilegi) e parlamenti (costituiti da giudici indipendenti) – esso può essere osservato anche e soprattutto nella monarchia inglese, di tanto più evoluta e matura. Qui vige un sistema di distinzione e al tempo stesso di bilanciamento dei poteri, che sarebbe troppo schematico e riduttivo definire di pura e semplice separazione dei poteri medesimi (una definizione che viene attribuita spesso, erroneamente, a Montesquieu). Distinzione perché, come si legge ne Lo spirito delle leggi, “tutto sarebbe perduto se la stessa persona, o lo stesso corpo di grandi, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni, e quello di giudicare i delitti o le liti dei privati”. Legislativo, esecutivo e giudiziario devono essere dunque poteri distinti, cioè non possono essere uniti nella stessa persona o nello stesso corpo politico, poiché, ove questo avvenisse, verrebbe meno quel frazionamento del potere e quel reciproco controllo fra le singole parti che lo costituiscono, che è la conditio sine qua non per evitare il dispotismo. Si tratta al tempo stesso di bilanciamento dei poteri (e non della loro meccanica separazione). Infatti, lo stesso corpo legislativo è diviso in due parti (Camera alta e Camera bassa), che si tengono a freno grazie alla reciproca facoltà di impedirsi. Le leggi, d’altro canto, non entrano in vigore se non vengono approvate dal re. Il che significa che l’intero sistema politico non può funzionare senza l’assenso e il concorso dei vari elementi che lo compongono (monarca, Camera alta, Camera bassa), e che basta il dissenso di uno di questi per incepparlo. Ma proprio qui è la miglior garanzia di un governo moderato, in cui nessun interesse particolare e nessuna frazione della società è in grado di imporre la propria volontà contro quella degli altri. Governo moderato è dunque per Montesquieu quel governo che tiene conto della molteplicità e della diversità degli interessi, che riesce a trovare un punto di equilibrio o di compromesso fra loro. Su questa base sorge un sistema di civile convivenza, in cui vengono rispettati i diritti e gli interessi di tutti, ed è bandito ogni atto di forza e ogni abuso politico. Il governo fondato sulla distinzione e sul bilanciamento dei poteri è dunque il governo moderato per eccellenza. L’alternativa ad esso, dice Montesquieu, è il governo immoderato o dispotico, in cui il principe riunisce nella propria persona tutte le magistrature. Ma questo governo, che annulla tutti i diritti dei sudditi, ha come proprio principio la paura. In esso i sudditi devono al despota un’obbedienza incondizionata, quale che sia la sua volontà o quali che siano i suoi capricci. Sono impossibili accomodamenti, controproposte, discussioni, accordi. I sudditi sono creature che obbediscono a una creatura che vuole, e ad essi, come agli animali, non restano che l’obbedienza o il castigo. E con ciò il pensatore francese non poteva dare del dispotismo (il cui principio “si corrompe continuamente, perché è corrotto per sua stessa natura”) una caratterizzazione più negativa e pronunciarne una condanna più aspra e più ferma. L’istanza anti-paternalistica – così viva in Locke – e quella anti-dispotica – così forte sia in Locke che in Montesquieu – costituiscono anche il contrassegno essenziale della concezione politica di Immanuel Kant (1724-1804), che svolge una critica implacabile contro la società di ancien régime. Per lui uno dei princìpi a priori sui quali deve fondarsi lo stato civile in quanto stato giuridico, è la libertà. Tale principio significa, dice Kant, che “nessuno mi può costringere a essere felice a suo modo (come cioè egli immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale (cioè non leda questo diritto degli altri)”. Si tratta, come si vede, di un principio schiettamente liberale, che mira a salvaguardare una larga sfera d’azione dell’individuo nella sua vita privata e sociale, al riparo dalle pretese e dalle intrusioni del principe. Senza tale sfera d’azione, senza la possibilità di seguire le proprie inclinazioni, di soddisfare i propri gusti, di manifestare il proprio carattere e di adottare lo stile di vita ad esso conforme, l’individuo non solo non è libero, ma è completamente asservito. E infatti Kant, per chiarire meglio il proprio pensiero, aggiunge che un governo fondato sul principio della benevolenza verso il popolo, al modo del governo di un padre verso i figli, cioè un governo paternalistico, in cui i sudditi, come figli minorenni che non possono distinguere ciò che è loro utile o dannoso, sono costretti a comportarsi solo passivamente, ad aspettare che il capo dello stato giudichi in qual modo essi devono essere felici, e ad attendere solo dalla sua bontà che egli lo voglia, è il peggior dispotismo che si possa immaginare. Il problema di una forma di governo che sia fondata sul consenso dei cittadini e che rispetti scrupolosamente i loro diritti, costituisce quindi la preoccupazione fondamentale di Kant. Per lui la costituzione dello stato deve essere repubblicana; essa, in quanto tale, si oppone radicalmente a quella dispotica. Il regime repubblicano (che può essere anche una monarchia costituzionale) si fonda essenzialmente sul principio politico della separazione del potere legislativo dal potere esecutivo e dal potere giudiziario: tali poteri sono coordinati, e al tempo stesso i loro compiti e le loro sfere sono rigorosamente distinti. Il dispotismo, invece, è caratterizzato dall’esecuzione arbitraria delle leggi dello stato, e in esso la volontà pubblica è maneggiata dal sovrano come sua volontà privata. Nel regime repubblicano, al contrario, il vero potere sovrano è il legislativo (eletto dai cittadini che abbiano diritto di voto, in quanto capaci di attività economica autonoma, non subordinata), al quale l’esecutivo è sottomesso. Perciò il legislativo può anche togliere all’esecutivo il suo potere, deporlo o riformare la sua amministrazione. Infine, nel regime repubblicano né il sovrano o il legislativo, né il reggitore o esecutivo possono giudicare. Il popolo si giudica da sé per mezzo di quei suoi concittadini che esso nomina a questo effetto, con una libera scelta, come suoi rappresentanti, per ogni atto particolare. Con ciò il filosofo di Königsberg ha tracciato il disegno del suo stato ideale in quanto stato di diritto e liberale a un tempo, fondato sulla divisione e sul coordinamento dei poteri, a tutela della libertà di ognuno, scrupolosamente garantita e delimitata dai diritti e dai doveri di tutti. E per Kant ogni forma di governo che non sia rappresentativa è propriamente informe, poiché in essa il legislatore può essere in una sola e medesima persona anche esecutore del proprio volere, con tutte le inevitabili conseguenze di abuso e di arbitrio (ma nemmeno in questo caso il filosofo tedesco riconosce al popolo il diritto di ribellione o di resistenza, mostrando in ciò una posizione assai più arretrata di quella di Locke). Questa preoccupazione liberale di tutelare i diritti e le libertà dell’individuo contro gli abusi e le prevaricazioni del potere politico trovò la sua espressione più sottile ed efficace nella dottrina di Constant de Rebecque, Henri Benjamin (1767-1830), maturata nel fuoco delle tremende esperienze della dittatura giacobina e del dispotismo napoleonico. Constant è un convinto difensore della sovranità popolare, la quale non può non significare supremazia della volontà generale su ogni volontà particolare. Ma sarebbe un errore imperdonabile, egli dice, scambiare tale supremazia per una sovranità illimitata. Il potere sovrano deve sempre avere due limiti invalicabili: il rigoroso rispetto dei diritti delle minoranze e la non intromissione nella vita privata dei singoli, qualora questi non violino le leggi. C’è sempre una parte dell’esistenza umana che deve restare individuale e autonoma, e che è di diritto fuori di ogni competenza sociale. Se la società viola i diritti delle minoranze, o se si intromette nella sfera della vita individuale che non le compete, essa si rende colpevole non meno del despota che ha come titolo soltanto la spada sterminatrice. Il che significa che la sovranità può esistere solo in maniera limitata e relativa. In questo quadro di rigorosa difesa dell’individuo nei confronti del corpo sociale e politico, Constant vibra un aspro attacco alla concezione di Rousseau, Jean-Jacques, tanto spesso invocata a favore della libertà ma divenuta il più terribile sussidio di ogni specie di dispotismo. Rousseau, dice Constant, definisce il contratto intervenuto tra la società e i suoi membri come la completa alienazione di ogni individuo con tutti i suoi diritti e senza riserve alla comunità. E per rassicurarci circa le conseguenze di questa completa alienazione di tutti i nostri diritti a favore di un ente astratto, Rousseau ci dice che il sovrano, cioè il corpo sociale, non può nuocere né all’insieme dei suoi membri né a ciascuno di essi in particolare; che ognuno, in quanto si dà a tutti, non si dà a nessuno; e che ognuno, infine, acquista su tutti gli associati gli stessi diritti che cede loro e guadagna con maggior forza l’equivalente di tutto ciò che perde. Se non che, nonostante queste rassicurazioni, la soluzione rousseauiana è astratta e irrealistica. Rousseau dimentica infatti, dice Constant, che non appena il sovrano deve fare uso della forza che possiede, non appena deve procedere a una organizzazione effettiva del proprio potere – in quanto non può esercitarlo in prima persona – egli deve delegarlo; sicché non è affatto vero che il cittadino, dandosi a tutti, non si dà a nessuno: egli si dà invece a coloro che agiscono a nome di tutti. Accade così che coloro ai quali è stato delegato l’esercizio della sovranità traggono esclusivo profitto dal sacrificio degli altri. Non è affatto vero, dunque, che nessuno abbia interesse a rendere onerosa la condizione altrui, poiché in realtà vi sono dei consociati che stanno fuori della condizione comune; non è affatto vero che tutti i consociati acquistino gli stessi diritti che essi cedono, perché non tutti guadagnano l’equivalente di ciò che perdono. Il fatto è che, quando la sovranità non è limitata, non c’è alcun mezzo per tenere gli individui al riparo dai governi; ed è vano pretendere di sottomettere i governi alla volontà generale, perché sono sempre i governi a dettare tale volontà. E neppure è sufficiente stabilire che il potere esecutivo non ha il diritto di agire senza il concorso di una legge, se ad esso non si pongono dei confini precisi, se non si dichiara che vi sono materie sulle quali il legislatore non ha diritto di fare leggi, e che vi sono delle esigenze che né il popolo né i suoi delegati hanno il diritto di disattendere. Ecco dunque – scrive Constant nei Principi di politica – quel che bisogna proclamare, il principio eterno che bisogna stabilire: “I cittadini possiedono diritti individuali indipendenti da ogni autorità sociale o politica, e ogni autorità che viola questi diritti diviene illegittima. I diritti dei cittadini sono la libertà individuale, la libertà di religione, la libertà di opinione, che comprende la libertà di manifestarla, il godimento della proprietà, la garanzia contro ogni arbitrio. Nessuna autorità può attentare a questi diritti senza lacerare il suo titolo”.

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2. Proprietà e libertà

Una critica ricorrente contro il liberalismo – espressa essenzialmente, in fasi e in contesti diversi, dalla cultura socialista e marxista – è stata quella di avere dato veste teorica agli interessi delle nuove classi e dei nuovi ceti borghesi protagonisti della rivoluzione anti-aristocratica e anti-feudale, e di avere concepito la proprietà privata come il diritto per eccellenza, al quale avrebbe subordinato tutti gli altri diritti, e per la tutela del quale avrebbe congegnato l’intero sistema politico. Il liberalismo sarebbe quindi rimasto vittima di un’illusione ideologica: ha creduto di creare le condizioni per la libertà di tutti gli uomini, e invece ha creato le condizioni per la libertà di una minoranza soltanto; ha creduto di esprimere esigenze universali, e di creare regole e istituzioni atte a soddisfarle, e invece ha espresso solo esigenze particolari, e ha creato regole e istituzioni per soddisfare quelle esigenze particolari, a spese della grande maggioranza. Questo giudizio – che è stato variamente ripreso e argomentato da autori come J. Laski e C.B. Macpherson – sottovaluta l’importanza delle tecniche politico-giuridiche elaborate dai pensatori liberali a difesa della libertà individuale contro le intromissioni e le prevaricazioni del potere politico; tecniche che sono sopravvissute, e con un ruolo decisivo, anche nelle società liberaldemocratiche del nostro tempo, le quali non sono certo classistiche al modo delle società seicentesche, settecentesche e ottocentesche. Ma, detto ciò, è necessario aggiungere anche che il concetto di proprietà non ha nel pensiero liberale quel significato e quella funzione univoci che gli sono stati spesso attribuiti. Si prenda, a questo proposito, il caso di Locke. Del pensatore inglese è stata citata infinite volte l’affermazione, che ricorre spesso nel Secondo trattato sul governo civile, secondo la quale per potere politico si deve intendere “il diritto di far leggi con penalità di morte, e per conseguenza con ogni penalità minore, per il regolamento e la conservazione della proprietà”: che è un testo certo esemplare, per la sua fortissima sottolineatura della proprietà privata, la cui tutela è posta all’origine del sorgere della stessa società civile o politica. Se non che, si è voluto ignorare troppo spesso che Locke ha una concezione assai ampia della proprietà, nella quale non rientrano solo i beni mobili e immobili, ma anche la vita, la sicurezza e la libertà. Ciò è attestato da vari passi del Secondo trattato sul governo civile, ma anche della Epistola sulla tolleranza, dove si legge: “Mi sembra che lo stato sia una società di uomini costituita per conservare e promuovere soltanto i beni civili. Chiamo beni civili la vita, la libertà, l’integrità del corpo, la sua immunità dal dolore, i possessi delle cose esterne, come la terra, il denaro, le suppellettili, ecc.”. Qui, come si vede, viene enunciata una definizione ampia e polisensa di proprietà, che è ben lungi dal ridurre quest’ultima ai soli beni materiali. Con ciò non si vuol dire, naturalmente, che la proprietà privata in senso stretto non abbia un’importanza fondamentale nella concezione politica di Locke; si vuole solo sottolineare il fatto che la concezione lockiana della proprietà non può essere appiattita sui suoi contenuti “borghesi”, anche se essi sono certo importantissimi. Tali contenuti “borghesi” hanno una fortissima incidenza anche nella concezione politica di Kant. Anche per Kant, infatti, la proprietà privata è già presente nello stato di natura, e la costituzione civile ha fra i suoi obiettivi fondamentali quello di rendere perentorio, ovvero giuridicamente garantito, quel possesso (il mio e il tuo esterni, secondo la terminologia kantiana) che nello stato naturale era solo provvisorio, cioè non sufficientemente garantito. Inoltre, nella sua teoria del potere legislativo, Kant considera la posizione economica e il censo quali condizioni imprescindibili per l’esercizio dell’elettorato attivo e passivo (diritto di voto). Ma la concezione della proprietà privata come qualcosa di naturale e di presociale trova una significativa attenuazione nell’opera di Constant. Il quale è sì assai fermo nell’escludere gli indigenti dai diritti politici (poiché essi “non sono né più illuminati dei fanciulli in merito agli affari pubblici, né più interessati degli stranieri a una prosperità nazionale di cui non conoscono gli elementi e di cui godono i vantaggi soltanto indirettamente”); ma al tempo stesso egli introduce qualcosa di nuovo e di importante nel modo di concepire la proprietà privata. Constant polemizza infatti contro “un errore grave”: l’errore di coloro che hanno rappresentato la proprietà come antecedente alla società o indipendente da essa. In realtà, dice Constant, la proprietà non è affatto anteriore alla società, perché senza l’associazione che le dà una garanzia essa non sarebbe che il diritto del primo occupante, ovvero il diritto della forza, cioè un diritto che non è tale; inoltre, la proprietà non è indipendente dalla società perché uno stato sociale, in verità assai miserevole, può essere concepito senza proprietà, mentre non si può immaginare la proprietà senza stato sociale. Dunque, la proprietà esiste perché esiste la società, e quindi essa “non è altro che una convenzione sociale”, anche se fondamentale. Questa concezione della proprietà come “convenzione sociale” è assai importante, sia perché, come si è detto, essa spezza lo schema giusnaturalistico della proprietà come qualcosa di presociale, sia perché inaugura implicitamente un modo di considerare la proprietà in funzione della società, delle sue esigenze e dei suoi bisogni (ed è significativo che alcuni critici abbiano accusato Constant di avere aperto la strada, su questo punto, al comunismo). Ma il pensatore liberale che muta radicalmente, rispetto al passato, la concezione della proprietà privata è John Stuart Mill (1806-1873). Egli assume un atteggiamento tutt’altro che ostile verso le varie scuole di indirizzo socialista (owenismo, sansimonismo, ecc.), anche se non pensa che la strada giusta sia quella della soppressione pura e semplice della proprietà privata. Un regime comunistico, egli dice, non lascerebbe sufficiente spazio all’individualità dei caratteri, e l’assoluta dipendenza di ciascuno da tutti e la sorveglianza di tutti su ciascuno ridurrebbero gli uomini a una tetra uniformità di pensieri, di sentimenti e di azioni. E tuttavia Mill non ha dubbi sul fatto che in futuro le classi lavoratrici (rese sempre più mature dall’istruzione, dall’attività sindacale e politica, dalla stampa) accresceranno di gran lunga il loro peso nella società e non si accontenteranno della loro condizione di lavoratori salariati. Il rapporto fra padrone e operaio sarà sostituito a poco a poco, secondo Mill, dall’associazione: in alcuni casi dall’associazione del lavoratore col capitalista, in altri casi, e forse alla fine in tutti, dall’associazione dei lavoratori fra loro. Le unità produttive saranno quindi costituite da cooperative di lavoratori, le quali saranno in gara e in concorrenza fra loro. Verranno cancellate così tutte le distinzioni sociali, salvo quelle giustamente meritate coi servizi e le attività personali.

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3. Fecondità dell’antagonismo, della varietà, del dissenso

Un altro aspetto fondamentale del pensiero liberale è da cercare nella sua convinzione che l’antagonismo fra gli individui, i gruppi, i ceti e le classi sia estremamente fecondo, e che senza tale antagonismo in campo economico (liberismo), sociale, politico e culturale, non ci sia progresso della società, bensì solo stagnazione e regresso. Il confronto e il conflitto fra interessi e opinioni diversi non sono dunque fatti negativi, ma altamente positivi, che lo stato liberale deve porre a proprio fondamento, limitandosi a tutelare il loro corretto svolgimento. La società pluralistico-conflittuale è enormemente superiore a qualsiasi società omogenea e organicistica. Solo la prima è una società dinamica, e quindi in grado di produrre e di accumulare beni, conoscenze, sapere; la seconda è invece una società statica, incapace di miglioramento e di progresso. “Solo nella lotta – ha affermato Luigi Einaudi nelle sue Prediche inutili – solo in un perenne tentare e sperimentare, solo attraverso vittorie e insuccessi, una società, una nazione prospera. Quando la lotta ha fine si ha la morte sociale e gli uomini viventi hanno perduto la ragione medesima del vivere”. Fra i “classici” del pensiero liberale, Kant è forse quello che ha espresso con maggior forza questo punto di vista. Egli ha affermato che il mezzo di cui la natura si serve per attuare lo sviluppo di tutte le sue disposizioni è l’antagonismo degli individui, in quanto esso è la causa dell’ordinamento civile della società. Per antagonismo si deve intendere – egli ha chiarito nell’Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico – la “insocievole socievolezza degli uomini”, cioè il fatto che essi sono caratterizzati da una forte tendenza a unirsi in società, ma da un’altrettanto forte avversione reciproca, derivante dal fatto che ognuno è portato a perseguire il proprio interesse contro gli altri, avversione che minaccia continuamente di dissolvere la società medesima. Se non che la “insocievole socievolezza” è per Kant non qualcosa di negativo, bensì qualcosa di positivo, poiché senza di essa, “tutti i talenti rimarrebbero in eterno chiusi nei loro germi in una vita pastorale arcadica di perfetta armonia, frugalità, amore reciproco”. Solo la “insocievole socievolezza” eccita le energie dell’uomo, lo induce a vincere la sua tendenza alla pigrizia, e gli fa compiere il passo decisivo dalla barbarie alla civiltà. Questa tematica ha trovato importanti sviluppi in Humboldt, Karl Wilhelm von (1767-1835), il quale ha espresso in modo assai efficace il punto di vista secondo il quale il progresso della società ha la propria molla nel libero dispiegarsi degli individui. Perché tale molla possa funzionare, occorre piena libertà nel campo sociale e politico, ma occorrono anche una ricca varietà di situazioni e una vasta gamma di scelte. Infatti, anche l’uomo più libero e indipendente, se posto in un ambiente uniforme, ha uno sviluppo meno completo. Questo è per Humboldt un punto assai importante e delicato, anche in considerazione del fatto che il progresso della civiltà comporta uniformità: ogni epoca è sempre meno varia di quella che l’ha preceduta, a causa del processo di unificazione e di omogeneizzazione (degli stili di vita, del costume, della mentalità, ecc.) che la diffusione della civiltà comporta. Inoltre, il continuo complicarsi della vita sociale richiede anche un crescente intervento dello stato, e quindi un potenziamento della macchina burocratico-amministrativa. “Di decennio in decennio – scrive Humboldt in Idee per un saggio sui limiti dell’attività dello stato – aumentano, nella maggior parte degli stati, il personale dei funzionari e gli archivi, mentre diminuisce la libertà dei sudditi”. Verso il crescente intervento dello stato nella vita civile Humboldt è estremamente diffidente e preoccupato, in quanto esso comporta un aumento costante della regolamentazione della società dall’alto, e un progressivo indebolimento dell’iniziativa individuale dal basso. Se non che l’intelletto umano si educa solo attraverso la propria attività autonoma, la propria inventività o la personale utilizzazione di invenzioni altrui. Le istituzioni statali e le iniziative da esse promosse comportano invece sempre costrizione, oppure abituano a contare su direttive, controlli e aiuti esteriori, invece che a pensare e ad agire autonomamente. Questa nota risuonerà, alcuni decenni dopo, in Tocqueville, Charles Alexis Henri Maurice Clérel de (1805-1859), allorché egli apprezzerà altamente, nella democrazia americana, l’autonomia della società civile dal potere politico-statuale: un’autonomia che è stata capace di risvegliare tutte le capacità e tutto lo spirito d’iniziativa della società civile medesima, la quale ha individuato da sola le proprie necessità e le ha soddisfatte con straordinaria efficacia. “Non c’è paese al mondo – si legge ne La democrazia in America – ove gli uomini facciano, in definitiva, tanti sforzi per creare il benessere sociale […]. Non bisogna dunque cercare negli Stati Uniti l’uniformità e stabilità di vedute, la cura minuziosa dei particolari, la perfezione dei procedimenti amministrativi; ciò che vi si trova è l’immagine della forza, un po’ selvaggia, è vero, ma piena di potenza, l’immagine della vita, disseminata di contrarietà, ma anche di movimento e di sforzi”. A questa libertà un po’ selvaggia ma estremamente vitale, il seguace dello stato paternalistico è portato a contrapporre un modello completamente diverso, caratterizzato da un’autorità sempre all’erta, che veglia sulla tranquillità del suddito, che vola davanti ai suoi passi per allontanarne tutti i pericoli, che gli assicura l’esistenza materiale senza che egli abbia bisogno di pensarvi. Ma, esclama Tocqueville, che cosa importa tutto ciò, “se poi questa autorità, nello stesso tempo in cui allontana le più piccole spine dal mio passaggio, è padrona assoluta della mia libertà e della mia vita; se monopolizza il movimento e la vita al punto che, quando essa langue, tutto langue, quando essa dorme, tutto dorme, quando essa muore, tutto muore?”. Ma è soprattutto in John Stuart Mill che rivive nel modo più suggestivo l’ispirazione individualistica humboldtiana, per il fortissimo accento da lui posto sul singolo, sulla sua libertà, sulla sua originalità, e quindi sulla varietà delle personalità umane e delle loro libere aggregazioni. “La natura umana – scrive Mill nel saggio Sulla libertà – non è una macchina da costruire secondo un modello e da regolare perché compia esattamente il lavoro assegnatole, ma un albero, che ha bisogno di nascere e svilupparsi in ogni direzione, secondo le tendenze delle forze interiori che lo rendono una creatura vivente”. Di qui, da parte di Mill, una duplice posizione: da un lato la ferma difesa dell’autonomia intellettuale e morale dell’individuo, il quale non deve essere costretto da alcuna autorità a dire o a fare (o a non dire o a non fare) qualcosa; dall’altro lato la ferma difesa (nonostante le simpatie milliane per il socialismo democratico-riformista) della libera concorrenza. I socialisti, che nella concorrenza vedono l’origine di ogni male, dimenticano, afferma Mill nei Principi di economia politica, che dovunque non vi è concorrenza vi è monopolio, e che il monopolio, in tutte le sue forme, è una tassazione sugli uomini attivi, per il mantenimento dell’indolenza degli uomini inattivi.

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4. Lo stato minimo e i pericoli della democrazia

La difesa dell’antagonismo, della concorrenza, nonché della varietà delle opinioni e del loro confronto, e la correlativa esaltazione della personalità individuale, della sua originalità, della sua intima energia creatrice, che si rafforza solo attraverso il contrasto e la lotta, implicano, nei pensatori liberali, una forte diffidenza nei confronti dello stato e la tendenza a ridurne al minimo indispensabile sia i poteri che le funzioni. Come ha scritto Norberto Bobbio, sotto il profilo della riduzione e del controllo dei poteri, i pensatori liberali teorizzano lo stato limitato; sotto il profilo della riduzione, quanto più ampia possibile, delle funzioni, essi teorizzano lo stato minimo. Il primo e più deciso difensore dello stato minimo è stato senza dubbio Humboldt (anche se la concezione negativa dello stato come organo che deve limitarsi a far rispettare le regole della convivenza sociale è già presente in Locke e in Kant). È significativo che Humboldt abbia apposto come motto alla propria opera principale un’affermazione di Mirabeau padre che recita: “Il difficile è di promulgare soltanto leggi necessarie, di restare sempre fedeli a questo principio veramente costituzionale della società, di stare in guardia contro il furore di governare, la più funesta malattia dei governi”. Lo stato, dunque, deve intervenire il meno possibile nel libero svolgimento e nella libera crescita della società civile, che ha in se stessa tante energie, tanto rigoglio e tanta forza da assicurare senz’altro, nel modo più ampio, quello svolgimento e quella crescita, i quali possono essere invece solo inceppati e compromessi dall’intervento della pubblica autorità. Ma protagonista della società civile è l’individuo. Dunque, più la sfera d’azione dell’individuo è ampia e libera, e, correlativamente, più la sfera d’intervento dello stato è ristretta, e più il progresso della società è assicurato. Va da sé che in questa concezione il fine della società non è lo stato, il quale è invece solo lo strumento, strettamente subordinato alla società medesima, per garantirne lo sviluppo infinitamente mutevole e vario. Lo stato è coercizione, la società è la somma delle libertà degli individui che la compongono. Perciò l’optimum sarebbe poter fare a meno dello stato. Ciò però non è possibile, perché senza lo stato le sfere d’azione degli individui, le loro libertà, entrerebbero in collisione, e la convivenza diventerebbe presto impossibile. Lo stato è dunque un male necessario, ma occorre fare in modo che sia il male minore, ovvero che la sua funzione sia mantenuta entro limiti assai precisi e molto ristretti: garantire la sicurezza sia contro i nemici esterni sia contro i contrasti interni fra i cittadini. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, un attentato alla sicurezza si dà solo nel caso di azioni che arrechino offesa al diritto altrui, o che siano tali che dalle loro conseguenze si possa temere una offesa simile. Si capisce come sulla base di questi presupposti, comuni in misura maggiore o minore a tutti i pensatori liberali, il rapporto fra liberalismo e democrazia sia difficile e complesso. Ciò non significa, naturalmente, che essi siano inconciliabili: anzi, che la democrazia debba essere considerata come il naturale sviluppo dello stato liberale (se la si prende dal lato della sua formula politica, che è la sovranità popolare, è un risultato acquisito da tempo dal pensiero liberale). Come ebbe a osservare De Ruggiero nella sua Storia del liberalismo europeo, “non appena il liberalismo sorpassa lo stadio feudale e ripudia il concetto della libertà come privilegio o monopolio tradizionale di pochi, per assumere quello di una libertà come diritto comune, almeno potenzialmente, a tutti, esso è già sulla stessa strada della democrazia”. Certo, storicamente, questo passaggio è stato tutt’altro che facile e tutt’altro che indolore, per le resistenze opposte dai ceti e dagli ambienti più conservatori. E tuttavia, una volta aboliti privilegi e monopoli, una rigida divisione di ambiti tra liberalismo e democrazia non è più possibile, e anzi il loro territorio è comune. E infatti liberalismo e democrazia hanno finito col coincidere nella concezione formale dello stato, fondata sul riconoscimento dei diritti individuali e della capacità del popolo di governarsi da sé. “L’estensione democratica dei princìpi liberali – ha affermato ancora De Ruggiero – ha avuto il suo pratico complemento con la concessione dei diritti politici a tutti i cittadini e con la immissione degli strati più bassi della società nello stato; e l’assimilazione ha potuto effettuarsi senza modificare essenzialmente la struttura politica e giuridica delle istituzioni liberali, confermando così l’unità dei princìpi”. E tuttavia, come ha rilevato acutamente De Ruggiero, tra i due concetti (e tra le due realtà e le due culture che essi sottendono) c’è una differenza profonda di mentalità politica, che dà luogo a seri e durevoli conflitti sul terreno della pratica. “Innanzi tutto, vi è nella democrazia una forte accentuazione dell’elemento collettivo, sociale, della vita politica, a spese di quello individuale”. Inoltre, c’è una differenza di atteggiamento verso le decisioni della maggioranza. Come ha osservato Hayek, Friedrich August von (1899-1992) ne La società libera, dal punto di vista del liberale è necessario che quanto è accettato dalla maggioranza diventi legge, ma non è da credere che ciò basti a renderla una buona legge; dal punto di vista del democratico, invece, il solo fatto che la maggioranza voglia qualcosa è sufficiente per considerare buono ciò che essa vuole. Infine l’ideale della democrazia è l’eguaglianza e quello del liberalismo è la libertà, e non si deve dimenticare che, come ha scritto ancora Norberto Bobbio, “libertà ed eguaglianza sono valori antitetici, nel senso che non si può attuare pienamente l’uno senza limitare fortemente l’altro: una società liberal-liberista è inevitabilmente inegualitaria così come una società egualitaria è inevitabilmente illiberale”. Di qui una differenza di mentalità e di cultura fra liberali e democratici, e tutta una serie di contrasti e di conflitti sul piano sociopolitico.

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5. Liberalismo e liberismo

Alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento il pensiero liberale ha mostrato un’evidente tendenza al declino. Tale declino era dovuto in gran parte ai profondi mutamenti sociali ed economici verificatisi in Europa in quel periodo, e ai loro contraccolpi sulle sfere della politica e della cultura. La seconda fase dell’industrializzazione, l’estendersi dei cartelli e dei trusts, la vastissima urbanizzazione, l’avvento della società di massa, produssero forti inquietudini sociali e politiche, e un generale indebolimento delle antiche concezioni individualistiche. I potenti movimenti nazionalisti da una parte e socialisti dall’altra non si ispiravano certo al pensiero liberale. A ciò bisogna aggiungere che dopo il decennio 1870-80, in cui il liberalismo europeo aveva raggiunto il proprio apice, incominciò a imporsi sempre più una politica di protezionismo e di interventi statali. Come ha sottolineato George Lichtheim, questi interventi venivano chiesti un po’ da tutti: dai socialisti in nome del movimento operaio, dai nazionalisti a sostegno delle loro rivendicazioni e, naturalmente, dalle associazioni industriali e finanziarie. “Tutti quanti – ha osservato ancora Lichtheim – contribuivano a spingere l’intervento dello stato oltre il punto considerato accettabile dalla dottrina liberale classica [...]. Il protezionismo nella sfera economica e l’espansione coloniale all’estero, più la silenziosa concentrazione del capitale in unità più vaste, non soggette a una concorrenza efficiente, scalzavano le fondamenta stesse del credo liberale”. In questa nuova situazione i pensatori liberali si interrogarono sui rapporti che intercorrono fra il liberalismo e contesti socioeconomici, e in primo luogo fra liberalismo e liberismo. Una importante discussione su questo tema si svolse in Italia negli anni Trenta e Quaranta fra Benedetto Croce e Luigi Einaudi. Nella sua Storia d’Europa nel secolo XIX (1932), Croce aveva affermato che, se il comunismo avesse avuto ragione nel ritenere che l’ordinamento capitalistico ha come effetto di danneggiare e scemare la produzione della ricchezza, il liberalismo non avrebbe potuto “se non approvare e invocare per suo conto” l’abolizione della proprietà privata. Dopotutto, avvertiva Croce, “il contrasto ideale del comunismo col liberalismo, il contrasto religioso, consiste in altro”, ovvero consiste “nell’opposizione tra spiritualismo e materialismo, nell’intrinseco carattere materialistico del comunismo, nel suo far Dio della carne o della materia”. Successivamente Croce precisò il proprio punto di vista, e sostenne che la libertà può affermarsi quale che sia l’ordinamento economico della società, poiché l’idea liberale “non ha nessun legame necessario e perpetuo con la proprietà privata delle terre e delle industrie”, ed essa si oppone piuttosto “primamente e direttamente all’oppressione e falsificazione della vita morale, da qualunque parte si eserciti. Perciò Croce rifiutava l’affermazione secondo cui il liberalismo ha come sua base il liberismo inteso come iniziativa individuale, come operosità e libera concorrenza, come selezione di capacità. Luigi Einaudi rivolse una dura critica a queste affermazioni di Croce, nelle quali egli ravvisava una concezione astratta e metastorica della libertà e del liberalismo. Per Einaudi c’era un legame stretto e indissolubile fra liberalismo e contesto socioeconomico. In particolare, a Einaudi sembrava che nel Novecento due sistemi economici, diversissimi fra loro nei presupposti ma assai simili nei risultati, negassero in eguale misura la libertà umana: il comunismo e il capitalismo monopolistico. Nel primo la società civile viene completamente plasmata e dominata dallo stato, e quasi “ingoiata” da esso, sicché viene abolito qualunque spazio di libertà; nel secondo viene gravemente lesa la libertà di iniziativa e di intrapresa della maggioranza degli individui a favore di minoranze che vengono a godere di posizioni di assoluto predominio e privilegio. Tali sistemi, diceva Einaudi, “tendono, per la indole loro propria, a ridurre gli uomini a meri strumenti, anelli minimi di una ferrea catena che lavora e produce”, “a imprimere uno stampo uniforme su tutti gli uomini, a farli svegliare, muovere, entrare in certi luoghi di lavoro, che si direbbero di pena, alla stessa ora, a compiere i medesimi atti”. Alcune delle posizioni espresse da Einaudi presentano una notevole consonanza con l’opera di Friedrich von Hayek, che può essere considerato il più grande pensatore liberale del Novecento. Hayek ha una concezione puramente negativa della libertà. Egli la definisce infatti come quella condizione in cui un uomo non è soggetto alla coercizione esercitata da un altro uomo o da altri uomini, che possano esercitare un controllo sul suo ambiente e sulle sua attività, in modo tale che egli sia costretto ad agire non in base a un piano coerente che si è prefisso, ma a servire i fini di altri. La libertà presuppone quindi che l’individuo abbia una propria sfera privata di azione e che l’ambiente attorno a lui sia tale da non permettere a nessuno di interferirvi. Ne discende che il compito di una politica di libertà deve essere quello di ridurre al minimo la coercizione e i suoi dannosi effetti. La libertà così definita non può essere identificata con la ricchezza, perché chi vive negli agi può non essere libero, nel senso che (come un manager o un generale) può essere costretto a cambiare i propri piani al cenno di un superiore, mentre una persona di umile condizione può avere una sfera di libertà assai più ampia. È naturale che, in questo quadro, Hayek abbia una concezione puramente negativa anche della funzione dello stato: il quale, da un lato, deve essere il più possibile limitato, nel senso che deve intervenire il meno possibile nella vita degli individui (e infatti il pensatore austriaco scorge in Humboldt una delle voci più pure e profonde del liberalismo); e dall’altro ha un ruolo fondamentale, ma solo nel senso di garantire attraverso le leggi, cioè attraverso norme generali e astratte, la coesistenza e il libero esplicarsi delle libertà individuali, al riparo da qualunque intromissione. Le leggi devono garantire anche la libera concorrenza, e quindi impedire qualunque forma di monopolio, perché, in caso contrario, la libertà individuale sarebbe gravemente minacciata, e anzi vanificata. In questa prospettiva libertà nel senso intellettuale e culturale (libertà di pensiero, di parola e di stampa) e libertà in senso socioeconomico si saldano intimamente. Queste due dimensioni sono per Hayek assolutamente inscindibili. Egli ha affermato a questo proposito: “Tutte le argomentazioni a sostegno della libertà intellettuale valgono anche per la libertà di fare, vale a dire per la libertà d’azione. Le svariate esperienze da cui sorgono le differenze di opinione che, a loro volta, danno origine allo sviluppo intellettuale, sono il risultato delle diverse scelte d’azione compiute da persone diverse in circostanze diverse”. Esaltare il valore della libertà intellettuale – dice ancora Hayek – a detrimento della libertà d’agire equivarrebbe a considerare il cornicione da solo come se fosse tutto l’edificio. La profonda ispirazione liberistica del pensiero di Hayek fa sì che egli sia un critico severo del cosiddetto “stato del benessere” o “stato-provvidenza”, scaturito dalle politiche liberalsocialiste e laburiste, anche se egli ammette che sia necessario garantire “una limitata sicurezza che possa essere assicurata per tutti”, ovvero la certezza di un minimo di sussistenza per tutti (da non confondere, però, con la certezza di un dato livello di vita per tutti). Negli ultimi decenni si sono manifestate però, nel pensiero liberale, correnti e tendenze sempre più preoccupate della giustizia sociale. Appartiene ad esse John Rawls, per il quale “ciascun individuo possiede un eguale diritto a una libertà di base la più estesa possibile, compatibile con altrettanta libertà per gli altri”; ma, a suo avviso, le diseguaglianze sociali ed economiche debbono essere strutturate in modo tale da essere, da un lato, volte al vantaggio dei meno favoriti e, dall’altro lato, connesse a posizioni e cariche accessibili a tutti in condizioni di equa eguaglianza di opportunità. In contrasto con queste preoccupazioni, un altro autore americano, Robert Nozick ha ribadito le ragioni dello “stato minimo”, il cui unico compito è a suo avviso quello di sovrintendere alla giustizia commutativa, fondata sui contratti fra privati. Nozick è giunto ad affermare che “la tassazione dei guadagni di lavoro è sullo stesso piano del lavoro forzato”. [Giuseppe Bedeschi]

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