lavoro

Attività volta alla trasformazione di elementi materiali o simbolici con lo scopo di ottenere beni o servizi provvisti di una accresciuta utilità, così da poter soddisfare, direttamente o indirettamente, bisogni propri o altrui. L’esperienza concreta del lavoro accompagna l’uomo lungo tutta la sua storia, tanto da essere un elemento stabile della condizione umana, oltre che un fondamento – presumibilmente il principale, assieme all’esperienza del sacro – della vita in società. Ma per quanto antica sia tale esperienza, l’idea e il concetto di lavoro, intesi, in senso moderno, come attività di trasformazione della natura, sono assai recenti. Come tutte le rappresentazioni sociali, quella del lavoro è soggetta a variazioni nel tempo e nello spazio. Ogni tipo di società e di cultura è caratterizzato, oltre che da propri sistemi produttivi ed economici, da un’immagine specifica del lavoro. In gran parte delle società agricole, come nell’Occidente antico e nella Cina contadina, il lavoro non è concepito come trasformazione, ma come contributo e partecipazione all’ordine del cosmo, inteso in senso naturale e soprannaturale allo stesso tempo. Similmente, è soltanto con l’avvento del capitalismo industriale che il lavoro viene inteso come lavoro in generale, come una risorsa e una merce tra le altre, capace di produrre ricchezza. Essenziali per comprendere la lunga evoluzione del lavoro e delle sue rappresentazioni – con i connessi riconoscimenti sociali, materiali e simbolici – sono la differenziazione funzionale dell’economia e le forme della divisione del lavoro. Benché non si tratti di un’evoluzione unilineare, non v’è dubbio che dalle comunità primitive di caccia e raccolta alla società industriale, passando attraverso le comunità pastorali, le società agricole e la società feudale, il lavoro sia passato da una situazione in cui l’economia era confusa con le altre funzioni sociali, a una crescente differenziazione. Quando ciò si verifica, compare la distinzione, prima assente, tra status sociale, status occupazionale e status professionale degli individui, e compaiono per la prima volta i problemi del lavoro come tali, cioè come problemi di governo. La differenziazione funzionale si accompagna all’intensificazione della divisione del lavoro, che è divisione di settori, di attività, di mansioni, di ruoli: dalle comunità di caccia e raccolta nelle quali non vi è che una divisione embrionale dei compiti tra quanti partecipano alla caccia o alla raccolta, passando per la molteplicità dei mestieri artigiani del medioevo, con le loro distinzioni professionali e gerarchiche interne – mestieri precedentemente confusi nell’artigianato domestico, tipico della comunità contadina – fino alla società industriale che incorpora, prima nella manifattura, poi nella fabbrica moderna, le professionalità artigiane, per scomporne quindi i momenti operativi fino a generare un’inusitata quantità di nuovi mestieri razionalmente progettati. Questa storia non è segnata soltanto dalle forme della divisione tecnica del lavoro – posta da Adam Smith (1723-90) a fondamento della produttività e della produzione della ricchezza – ma anche da quelle della divisione sociale del lavoro. Queste, oltre a variare in funzione di fattori materiali e ambientali, variano in relazione a fattori culturali e politici. Si osserva così, in primis a opera di Karl Marx, la precoce apparizione della divisione sessuale del lavoro, in particolare con l’avvento della rivoluzione agricola, poi la divisione tra schiavi e liberi nella società antica, quindi – ma la successione è più logica che temporale – la divisione tra città e campagna. A queste forme, assai mutevoli secondo le epoche e i luoghi, se ne aggiungono altre: tutte hanno, però, la caratteristica di porre una correlazione più o meno rigida tra divisione tecnica e divisione sociale del lavoro. Accade così che certe attività manuali competano esclusivamente agli schiavi, o alle donne, o ai paria, o a certi gruppi etnici, mentre determinate attività intellettuali o di comando siano appannaggio più o meno esclusivo di altri gruppi sociali (liberi, uomini, ecc.). Al riguardo, quel che merita rilevare è che in epoca moderna, con alcune anticipazioni in età medievale e rinascimentale, si registra la progressiva attenuazione della corrispondenza rigida tra divisione tecnica e divisione sociale del lavoro: corrispondenza che in varie forme e gradi persiste tuttora – dati i condizionamenti della stratificazione sociale, della divisione tra i sessi e tra le razze e delle appartenenze culturali – ma che nelle aziende industriali o di servizi operanti tra XX e XXI secolo nelle società democratiche è sempre meno legittimata e funzionale. Una volta divenuto, con la rivoluzione industriale, formalmente libero, il lavoro si pone anche come principio di legittimazione, assieme a quello della cittadinanza democratica, dei diritti alla partecipazione sociale e al benessere. Per questa stessa trasformazione i conflitti di lavoro – legati alle disuguaglianze nella struttura del comando, nella divisione dei compiti e nella distribuzione della ricchezza prodotta – sono centrali per capire il funzionamento e il cambiamento della società. In particolare dagli anni Venti agli anni Settanta del XX secolo – nel periodo della produzione di massa e della razionalizzazione organizzativa di tipo ford-tayloristico, basata sulla separazione tra concezione ed esecuzione del lavoro, sulla parcellizzazione dei compiti e sulla motivazione economica come unica motivazione riconosciuta a lavorare, si sviluppano le lotte operaie, i sindacati e le relazioni industriali. La regolazione del mercato del lavoro diventa un compito importante di ogni governo, non soltanto nelle fasi recessive del ciclo economico, ma anche in conseguenza degli effetti congiunti della globalizzazione dei mercati e dell’innovazione tecnologica (automazione e telematica) che consentono aumenti di produttività in presenza di disoccupazione crescente. Il conflitto industriale cambia in parte natura e perde centralità, in relazione allo sviluppo del settore terziario e alla conseguente contrazione quantitativa della classe operaia. Contemporaneamente, il rapporto tra vita di lavoro e vita extralavorativa cambia carattere: questa tende ad autonomizzarsi sempre più da quella, almeno sul piano dei modelli di comportamento e delle gerarchie sociali. Allo stesso tempo, però, le due sfere della vita ritrovano forme di composizione e intreccio in nuove modalità di lavoro, consentite dalla telematica e rispondenti alle esigenze di flessibilità delle imprese, quali il telelavoro e il lavoro mobile. [Paolo Ceri]