intellettuali

Già in Russia, negli anni sessanta del XIX secolo, a opera dello scrittore Pètr Boborykin, era comparso il termine intelligencija, poi diffuso e reso celebre dal più noto Turgenev. Con il termine si intendeva però un vero e proprio gruppo sociale, separato dalla restante popolazione e impegnato nella produzione e nella trasmissione del sapere. Nel 1898, poi, grazie al Manifeste des intellectuels, pubblicato in Francia sul quotidiano “L’Aurore” a difesa del capitano Dreyfus, il sostantivo, prima di fatto inesistente, cominciò a circolare, con altro significato, sino a diventare popolarissimo, anche in Occidente. L’intellettuale, in questa seconda accezione, non è membro a priori di un gruppo sociale, ma è un singolo uomo di cultura, erede dei philosophes settecenteschi o del Gelehrte di Fichte. L’intellettuale-individuo ritiene a posteriori che il suo lavoro, e il prestigio da tale lavoro derivato, possano e debbano essere messi liberamente in contatto con gli interessi generali della società. Membri dell’intelligencija, in sostanza, si è, mentre “intellettuali” si diventa. Con il leninismo, e soprattutto con la sua diffusione in Occidente, i due significati fatalmente interferirono, sino a fondersi. Tracce evidenti di ciò vi sono nello stesso pensiero di Gramsci. In genere, tuttavia, in Occidente “intellettuali” non sono né quanti si limitano a operare nel campo scientifico o letterario (torre d’avorio), né i funzionari ideologici esplicitamente al servizio di questo o quel partito (eteronomia). L’uomo di cultura e il militante non sono di per sé “intellettuali”. Per essere intellettuali occorre essere insieme impegnati e indipendenti. Alla formazione di questo significato concorsero, nel decennio successivo alla prima guerra mondiale, le analisi, pur diverse tra loro, di Max Weber, Julien Benda, John Dewey e Karl Mannheim. In Italia, la parola divenne di dominio pubblico grazie al Manifesto degl’intellettuali fascisti redatto nel 1925 da Giovanni Gentile. Fu tuttavia proprio Antonio Gramsci a essere considerato, in seguito alla pubblicazione nel secondo dopoguerra dei Quaderni del carcere, il teorico italiano degli intellettuali, intesi come veicolo del consenso e dell’egemonia all’interno della società civile. La questione degli intellettuali, tuttavia, sembra, negli ultimi decenni del Novecento, aver perso centralità e anche ragione di essere. La funzione intellettuale, in una società che si è intellettualizzata molecolarmente, si è infatti moltiplicata e iperspecializzata, laddove il compito precipuo dell’intellettuale-individuo era fornire un disinteressato punto di vista universale sul tutto, il che non è praticamente più possibile. [Bruno Bongiovanni]