guerra

  1. Definizione
  2. Guerra e storia
  3. Guerra e politica internazionale
  4. Le forme della guerra
  5. Giustificazioni della guerra
1. Definizione

In senso stretto la guerra può essere definita come un conflitto armato e violento, di durata più o meno ampia, tra gruppi umani organizzati (prevalentemente nella forma di stati), intenzionati a imporre la loro volontà all’altro nella prospettiva di una riorganizzazione dei reciproci rapporti di potere (sia in vista di una modificazione dei rispettivi confini territoriali, sia di una dominazione economica, sia di un’annessione, ecc.). Più in generale, il concetto di guerra comprende uno spettro di possibilità che va dal duello al conflitto nucleare totale, dall’utilizzazione metaforica più ampia (la “guerra dei sessi”, o la “guerra fredda”) alle specificazioni tecniche più minute (la guerra come oggetto della riflessione strategica, o come oggetto in vista del quale vengono organizzati gli eserciti), tanto che correttamente già Clausewitz, Karl von (1780-1831) poteva osservare che essa “rassomiglia al camaleonte perché cambia di natura in ogni caso concreto” (Della guerra, I, I, 28). Se poi si aggiunge a questa definizione descrittiva la considerazione secondo cui la guerra può anche essere intesa come il fenomeno sociale di più ampio coinvolgimento che possa immaginarsi – sia per la sua caratteristica di parossistico produttore di morte, distruzione, dolore, ecc., sia per la sua capacità di comportare immensi investimenti finanziari, sia per le sue conseguenze politiche – la complessità del fenomeno appare in tutta la sua profondità. Lo studio della guerra rappresenta dunque uno dei settori più impegnativi dell’intero ambito delle scienze dell’uomo e rende necessari gli apporti di un’infinità di specializzazioni.

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2. Guerra e storia

Fin dalla formazione dei primi raggruppamenti umani la guerra, come forma di soluzione delle controversie, è stata la via normalmente percorsa dai gruppi organizzati per realizzare i propri fini. Ma sarebbe eccessivamente generico considerare che la guerra primitiva sia analoga a quella del mondo contemporaneo: se non cambia il genus, certo sono estremamente differenti le modalità del suo svolgimento nel tempo e nello spazio, tanto da suggerire che trattazioni differenziate debbano essere dedicate alle diverse manifestazioni storiche di questo fenomeno. Va innanzi tutto precisato che le conoscenze nei confronti della guerra risultano sovente molto meno ricche di quanto si potrebbe immaginare: è addirittura la stessa identificazione del numero preciso della guerre nella storia a essere continuamente messo in discussione, tanto che non esiste al mondo un solo elenco delle guerre della storia che sia consensualmente adottato dalla comunità internazionale degli studiosi (si può comunque ragionevolmente argomentare che il numero complessivo delle guerre strettamente intese assommi a circa un migliaio, indipendentemente dalla gravità e dalla distruttività del singolo caso). La storicità della guerra può essere ragionevolmente ricondotta a una scansione in quattro tempi (che corrispondono ad altrettanti tipi): la guerra primitiva, la guerra antica, la guerra moderna, la guerra contemporanea. Mentre la prima forma è contraddistinta dall’inesistenza di precise delimitazioni territoriali dei gruppi combattenti e dalla rozzezza degli strumenti militari (armamento, tecniche di conduzione delle ostilità, ecc.), la seconda fa riferimento principalmente al movimento di consolidamento delle cosiddette città-stato (guerre del Peloponneso) e alla costituzione dei primi grandi imperi (guerre persiane, espansionismo romano nel bacino mediterraneo; scontro tra Roma e Cartagine). La terza forma corrisponde all’innovazione forse più drastica, essendo legata alla nascita dello stato moderno (cioè quell’istituzione contraddistinta dalla contemporanea operosità dei diversi poteri di governo politico territoriale, di amministrazione della giustizia, di potestà di prelevare imposte, di capacità di organizzare eserciti più o meno permanenti). La quarta forma, infine, trova il suo elemento distintivo nel parossismo delle sue capacità distruttive (mentre la seconda guerra mondiale raggiunge una mortalità di più di quaranta milioni di vittime, l’immaginario della guerra nucleare consente di ipotizzare addirittura la distruzione totale di ogni forma di vita sul pianeta). La storia delle guerre potrebbe consentire anche altre tipologie. Due di esse meritano di essere almeno citate: la prima legata alla dimensioni spaziali e la seconda alle sue motivazioni ideologiche. Dal primo punto di vista si deve tener presente che la portata geografica dei singoli conflitti è stata sempre strettamente connessa alle conoscenze tecnologiche a disposizione (si pensi, per non fare che un solo esempio, all’influenza che ebbe la costruzione dei cannoni e della corazzatura per le navi da combattimento) nonché alle capacità logistiche (la sottovalutazione delle quali costò a Napoleone la sconfitta nella campagna di Russia del 1812). In conseguenza di ciò le guerre si sono trovate a essere sempre meno limitate, raggiungendo la dimensione continentale nella prima guerra mondiale e coprendo addirittura tre continenti nella seconda (Europa, Africa, Asia). Dal secondo punto di vista, una svolta determinante fu introdotta dalle circostanze che fecero seguito alla Rivoluzione francese. Fece allora la sua comparsa l’idea di nazione, contraddistinta dai cosiddetti “confini naturali”, per la difesa dei quali la guerra ha visto abbattuti i principi del risparmio delle forze e della conduzione strategica rivolta alla vittoria con la minor distruzione possibile e con il minor numero di scontri armati possibili (teorizzati e praticati specialmente nel XVIII secolo). Si è invece imposto quello che Clausewitz definì il fine dell’“atterramento” del nemico, realizzabile soltanto attraverso “la tensione estrema delle forze” (Della guerra, I, I, 5), che ha raggiunto il suo acme nei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki del 6 e 9 agosto 1945, i quali nello spazio di pochi secondi causarono la morte di decine di migliaia di persone.

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3. Guerra e politica internazionale

La guerra può essere considerata, astrattamente parlando, come l’antitesi della politica (conseguendo a una verificata impossibilità di continuare un dialogo, una trattativa, o all’incapacità di mantenere le divergenze nei limiti di un contrasto civile e non violento). Appare tuttavia più suggestivo e fecondo di applicazioni il rovesciamento di questa impostazione operato da Clausewitz con la famosa formula secondo cui “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi” (Della guerra, I, I, 24). Ma anche una volta che questa concettualizzazione sia stata accettata, resta oscura la determinazione delle ragioni (o delle cause, come tradizionalmente si intende) che portano allo scoppio delle singole guerre. Nella sconfinata letteratura che ha riflettuto su questo problema si possono identificare tre principali impostazioni, che si distinguono per il livello di analisi a cui si pongono: l’individuo, lo stato, il sistema internazionale. Nel primo caso, la ricerca delle cause riguarderà aspetti interiori dell’individuo, sia in termini etico-religiosi (come quando si considera che la guerra, come ogni altra forma di violenza o di sopraffazione, sia stata introdotta nella realtà umana da una qualche colpa originaria) sia in termini psicoanalitici (Freud riconduceva i comportamenti umani alle due fondamentali pulsioni di eros e tanathos e riteneva che l’aggressività rappresentasse l’estrinsecazione di una forza irrefrenabile). Nel secondo caso, al centro dell’attenzione viene posto lo stato, il quale può essere giudicato, per la sua particolare composizione interna, come aggressivo e imperialistico (dalla dottrina marxista), oppure come soggetto spontaneamente espansivo e quindi inevitabilmente portato alla conquista di risorse naturali o di mercati (dottrina liberale, la quale tuttavia ipotizza inoltre che il progresso sociale e tecnico sia destinato, alla lunga, a rendere diseconomiche le guerre). La terza immagine infine, quella che si rifà al concetto di sistema internazionale, può essere considerata come quella che ha ottenuto la maggiore attenzione, specie negli studi contemporanei, essendo ricollegabile, per un verso, al concetto di anarchia internazionale (in sostanza formulato per la prima volta da Thomas Hobbes), secondo il quale – in assenza di una qualsiasi autorità al di sopra delle parti – il ricorso alla guerra come tecnica di soluzione dei contrasti è inevitabile e strutturale. A questa insostenibile situazione diverse dottrine hanno opposto due vie d’uscita: l’equilibrio internazionale e il super-stato mondiale. Secondo la prima impostazione sarebbe inerente al rapporto politico internazionale la ricerca incessante e ripetuta di una configurazione del rapporto delle forze che consenta una loro parità, destinata ovviamente a sconsigliare di ricorrere a una guerra nella quale risulterebbe altamente difficile riuscire vincitori (questa impostazione immagina poi due prevalenti disposizioni: quella bipolare e quella multipolare). Nella seconda impostazione, l’unica alternativa alla guerra di tutti contro tutti consisterebbe (secondo l’indicazione di Immanuel Kant) nel verificarsi di due successivi eventi: la trasformazione dei vari stati in regimi democratici (nel lessico kantiano “repubblicani”), per natura meno inclini al conflitto di quelli dispotici; quindi la costruzione di una confederazione, a sua volta democraticamente governata (una parziale e rozza applicazione di questa impostazione può essere individuata nell’ONU).

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4. Le forme della guerra

Si può sostenere che la guerra serva a qualche cosa? Essa, ovviamente, può essere considerata come il principale agente del mutamento politico internazionale, o addirittura come l’unico strumento per mezzo del quale i rapporti di forza tra gli stati mutano. Per questo, il fine della realizzazione di un potente apparato militare è sempre stato tra i programmi più importanti degli stati. Si potrebbe poi dire che alle guerre spetti di dare vita agli stati, come si argomenta analizzando le circostanze storiche della formazione dei diversi stati nazionali; oppure che tocchi loro di preservare “la salute morale dei popoli” come “l’agitarsi dei venti preserva dalla putredine (...) i laghi” (Hegel); o ancora e al contrario che esse rappresentino un assurdo spreco di risorse materiali e morali (come argomentava N. Angell ne La grande illusione, del 1911). Si può infine sostenere che le dimensioni delle distruzioni possibili siano ormai tali che la guerra, nella sua assolutezza, sia diventata quasi impossibile, così come è stato ampiamente sostenuto nell’ambito della teoria strategica dell’età nucleare, che ha coniato il concetto di dissuasione, proprio per illustrare l’anomalia introdotta dalla comparsa delle armi termonucleari. Tali armi, con le loro illimitate potenzialità, avrebbero infatti, paradossalmente, finito per svolgere una funzione di limitazione e di autocontrollo rispetto alla possibilità stessa di ricorrere alla guerra. Se è divenuta sempre meno probabile nelle sue dimensioni massime, oggi, dopo la fine della guerra fredda e dell’epoca bipolare, la guerra risulta tuttavia tanto più possibile nelle sue dimensioni più limitate – ma non per questo meno sanguinose e potenzialmente destabilizzanti per l’ordine internazionale – degli scontri etnici, delle guerre di liberazione nazionale, delle guerre di guerriglia e delle cosiddette “guerre asimmetriche”, che, a partire dal caso della ex Iugoslavia per arrivare a quelli del Caucaso, del Centroafrica e più recentemente dell’Afghanistan e dell’Iraq, risulterebbero sempre più frequenti e diffuse (come sostenuto nel 1999 da M. Kaldor in Le nuove guerre).

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5. Giustificazioni della guerra

Quali che siano le ragioni (o le cause) della guerra, è possibile elaborarne anche delle giustificazioni? Una distinzione preliminare va fatta per quanto concerne l’ammissibilità stessa del punto: si potrebbe infatti argomentare (come fanno normalmente le teorie pacifistiche e della non violenza) che nessuna guerra possa, ad alcun titolo, trovare una giustificazione per l’incommensurabilità del valore umano che con la guerra va irrimediabilmente perduto. Ma esiste, almeno nella cultura occidentale, una prevalenza favorevole al ricorso alla tradizionale impostazione cristiana relativa alla cosiddetta “guerra giusta”, che ha in Sant’Agostino e in San Tommaso, i suoi più significativi rappresentanti, e che può essere ricondotta a cinque principali condizioni, relative al giusto titolo di chi decide la guerra, alla valutazione della causa che ve lo spinge, alla rettitudine dell’intenzione che vuole realizzare, alla proporzionalità dei mezzi cui ricorre, al rispetto del principio della discriminazione tra combattenti e civili – che in sostanza (per quanto non sempre facilmente applicabili nei complessi casi possibili) possono essere ricondotti all’opinione dominante nel sentire comune dell’umanità. Altre culture o religioni, come quella islamica, tuttavia non condividono se non in parte questa impostazione, correggendola con il concetto di “guerra santa”, da intendere come quella cui il profeta Maometto spingerebbe tutti i credenti per diffondere l’islam nel mondo. [Luigi Bonanate]

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