giusnaturalismo

In senso ampio, è giusnaturalistica ogni teoria che affermi l’esistenza di un diritto naturale, precedente e superiore a ogni diritto positivo. In senso più stretto, si chiamò giusnaturalistica la dottrina del diritto naturale dei secoli XVII e XVIII, da Grozio a Rousseau. Lo “ius naturale” fu variamente attribuito, dai diversi autori, alla volontà divina, a un istinto naturale presente nell’uomo come negli animali, o alla ragione umana. Il primo riferimento all’esistenza di un diritto naturale risale a Sofocle (497-406 a.C.), il cui personaggio Antigone, protagonista dell’omonima tragedia, rappresentò il contrasto tra la legge naturale, voluta dagli dei, e il diritto positivo, stabilito dal sovrano (Creonte). I sofisti, sempre nel V secolo a.C., discussero a lungo sulla legge di natura, individuandola talvolta nella volontà del più forte (Callicle, Trasimaco), talvolta nel rispetto dell’originaria uguaglianza degli uomini (Ippia). In età ellenistica fu lo stoicismo a continuare il dibattito sul diritto naturale, attribuendolo questa volta alla razionalità universale immanente alla natura e presente nella mente umana. Influssi stoici si fecero sentire anche nella cultura romana e particolarmente nel De republica di Cicerone (106-43 a.C.), dove si fa riferimento a una legge razionale eterna e naturale. Nel pensiero giuridico romano si fece strada anche la concezione della legge naturale come norma istintiva comune all’uomo e agli animali (Ulpiano, 170-228 d.C.). Nel medioevo si teorizzò la derivazione del diritto naturale dalla volontà divina, rivelata all’uomo nell’Antico e nel Nuovo Testamento (Graziano, XII secolo). Con la ripresa dell’aristotelismo ricomparve l’attribuzione della legge naturale alla ragione, soprattutto in Tommaso d’Aquino (1225-74) e nel pensiero tomistico, che, con alterna fortuna, è rimasto in vita fino ai nostri giorni. Il giusnaturalismo moderno si affermò nel XVII secolo, facendo tesoro delle riflessioni di autori precedenti, come Francisco Suarez (1548-1617), Alberico Gentili (1552-1611) e Johannes Althusius (1557-1638), e di correnti cinquecentesche, come i monarcomachi. Sorto nel periodo della crisi degli universalismi medievali e dell’affermazione dello stato moderno, il giusnaturalismo si oppose alla teoria dell’origine divina del potere sovrano, sostituendola con un’interpretazione contrattualistica (contrattualismo); inoltre, nella maggioranza delle sue formulazioni, criticò l’assolutismo regio e sostenne l’idea della limitazione del potere e della sua revocabilità in caso di violazione dei diritti naturali, alimentando così una parte consistente della cultura del liberalismo moderno. Il caposcuola fu Ugo Grozio (1583-1645), che pose come base del diritto la razionalità naturale, superiore all’autorità di qualsiasi legislatore e valida indipendentemente dalla volontà e perfino dall’esistenza di Dio. Nel Seicento si sviluppò un ampio dibattito sul presunto stato di natura in cui sarebbe originariamente vissuta l’umanità e sulle conseguenze giuridiche e politiche deducibili dalle sue caratteristiche e dall’evoluzione verso la società civile. Al dibattito parteciparono pensatori molto diversi tra loro, per concezioni filosofiche e antropologiche, nonché per tendenze politiche. Thomas Hobbes (1588-1679) descrisse lo stato di natura in termini fortemente negativi, come una condizione di guerra di tutti contro tutti (“bellum omnium contra omnes”), in cui ognuno ha diritto su tutto ciò che riesce a ottenere con la forza. Dal caos e dalla guerra si può uscire, secondo Hobbes, soltanto con un patto istitutivo della società civile, in cui ognuno rinunci a ogni diritto (tranne a quello alla vita) e accetti come legge la volontà del sovrano, delegato dai contraenti alla tutela della comunità. La giustificazione dell’assolutismo fu in tal modo ricavata dall’analisi razionale dello stato di natura. Non lontana nei presupposti contrattualistici dalla teoria hobbesiana fu la riflessione di Baruch Spinoza (1632-77), il quale però se ne distaccò nelle conclusioni: lo stato, assoluto rispetto all’individuo, dev’essere controllato dalla collettività, poiché fondamento del patto sociale e fine dell’esercizio del potere è il conseguimento dell’utile comune, inteso come garanzia della sicurezza e ampliamento, con l’unione delle forze, della potenza dell’uomo. Spinoza, inoltre, assegnò allo stato il compito di tutelare la libertà di coscienza, considerata un bene assoluto. Anche Samuel Pufendorf (1632-94) affermò l’origine contrattuale dello stato, ma articolò il patto sociale in due fasi distinte: dapprima il “pactum unionis”, che trasforma un’associazione naturale in una società civile e che stabilisce le regole fondamentali della convivenza; successivamente il “pactum subjectionis”, che delega il potere a un sovrano, il quale però deve rispettare le norme sancite dal patto d’unione, potendone derogare solo in casi di estrema gravità, legati alla sopravvivenza della comunità. Una chiara asserzione dell’esistenza di diritti naturali inalienabili si trova nelle opere di John Locke (1632-1704), il quale sostenne il diritto dei popoli alla resistenza nei confronti dei sovrani non rispettosi dello “ius naturale”. Locke riscontrò come nelle società naturali, prive cioè di istituzioni civili e politiche (come le tribù degli amerindi), venissero spontaneamente rispettati alcuni diritti individuali, i quali sono pertanto naturali e non stabiliti dall’autorità di qualche legislatore. Compito dello stato è garantire, col potere che a esso deriva dal monopolio della forza fisica, il rispetto dei diritti che nello stato di natura sono precari perché affidati all’incerta autodifesa individuale. I diritti naturali più evidenti sono quelli alla vita, all’incolumità fisica, alla libertà (purché non venga usata a danno di altri) e alla proprietà privata fondata sul lavoro. La terra è stata donata da Dio a tutti gli uomini, secondo Locke, per cui tutti hanno diritto al godimento dei suoi frutti spontanei, ma quando subentra il lavoro, chi si è impegnato acquista il diritto alla proprietà del frutto del proprio sforzo. Lo spostamento del fondamento del diritto di proprietà dalla forza o dalla consuetudine all’attività lavorativa mette in luce come il giusnaturalismo si sia sviluppato in concomitanza con la diffusione della mentalità borghese. Il diritto naturale alla libertà fu esteso, da Locke e dai giusnaturalisti, anche al campo religioso: contro le persecuzioni e le guerre tra le diverse confessioni, il giusnaturalismo ebbe il merito di diffondere l’ideale della tolleranza religiosa e della sostanziale laicità dello stato. La riflessione sullo stato di natura continuò nel Settecento e fu centrale nella riflessione di Jean-Jacques Rousseau (1712-78). Rousseau era consapevole del carattere ipotetico di qualsiasi descrizione dello stato naturale, ma non rinunciò a servirsene come criterio ideale per giudicare la società moderna e per progettare sistemi sociali e politici alternativi. La giustizia e l’uguaglianza naturali, precedenti l’istituzione della proprietà privata (causa – secondo Rousseau – di ogni disuguaglianza e ingiustizia), devono ispirare la stipulazione di un nuovo contratto sociale, che fondi uno stato democratico, in cui il popolo conservi la piena sovranità. Solo così l’obbedienza alla legge civile non comporta rinuncia alla propria inalienabile libertà. Con Immanuel Kant (1724-1804) il fondamento della legge naturale fu posto negli “a priori” della ragione e non nello stato di natura. La concretezza e la forza delle idee giusnaturalistiche si può dedurre dal riferimento esplicito ai diritti naturali di due importantissimi documenti politici della seconda metà del Settecento: la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776) e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789), uno dei primi atti della Rivoluzione francese. La cultura romantica e ottocentesca in genere, caratterizzata da una filosofia prevalentemente storicistica, abbandonò il giusnaturalismo per l’astrattezza del concetto di “natura” e per la tendenza a vedere nelle istituzioni il frutto della “libertà” umana contrapposta alla “necessità” naturale. Con Hegel in particolare – e con la sua teoria dello stato organico – la grande stagione del giusnaturalismo moderno può dirsi conclusa. La stessa cultura liberale si sforzò dopo di allora di rifondare i propri princìpi su basi diverse quali, ad esempio, l’utilitarismo. Una ripresa del giusnaturalismo si è avuta nel XX secolo, soprattutto dopo la tragica esperienza dei regimi totalitari, per l’esigenza di ancorare il diritto positivo a norme razionali universali e di tutelare i cittadini dai rischi del potere arbitrario e dispotico. Sono giusnaturalistiche le posizioni del neocontrattualismo, del neokantismo e del neotomismo. [Sergio Parmentola]