fisco

Nel suo significato più generale per fisco si intende il sistema per mezzo del quale in una società politicamente organizzata chi esercita il potere provvede a reperire le risorse economiche necessarie al finanziamento dell’esercizio di essenziali funzioni pubbliche in pace e in guerra. I sistemi fiscali sono andati evolvendosi in relazione al moltiplicarsi dei bisogni, alle modalità tecniche del loro funzionamento, al fatto che la fiscalità abbia un carattere non permanente o permanente e al tipo di soggetti chiamati alla contribuzione. Nel mondo antico le entrate fiscali erano per lo più occasionali e limitate. Ma ad Atene esse acquistarono progressivamente un carattere sistematico al fine di finanziare il costo della politica, dell’esercito e della flotta. I tributi provenivano nella maggior parte da tasse indirette, come i dazi, da tasse personali a carico degli stranieri o delle prostitute, da contributi di cittadini agiati, infine da imposizioni in relazione al determinarsi di situazioni eccezionali, a partire dallo stato di guerra. Un sistema fiscale assai organizzato, affidato a funzionari pubblici o ad appaltatori, che colpiva tanto la proprietà terriera quanto la produzione artigianale e le attività finanziarie e commerciali era quello in vigore nell’Egitto tolemaico. Un sistema diffuso nel mondo antico era anche la tassazione a carico di città e villaggi resi solidalmente responsabili. Nella repubblica romana e poi nell’impero i problemi fiscali assunsero un crescente rilievo in corrispondenza con l’estensione dei compiti civili e militari dello stato. Le esigenze dell’esercito portarono originariamente alla creazione di una tassa di guerra che gravava sulla proprietà. Se non che l’espansione e le conquiste crearono le condizioni perché Roma si facesse finanziare in maniera determinante, mediante saccheggi, requisizioni e tasse sulle proprietà e sulle attività, dalle province e dai popoli soggetti, dove l’esazione dei tributi era affidata ai pubblicani, che prendevano in appalto il servizio. Nel periodo imperiale, a partire dall’età augustea, Roma creò un vero e proprio apparato di funzionari addetti ai compiti di esazione, con l’introduzione in particolare di tasse sul commercio degli schiavi e sulle eredità. Il bisogno di reperire nuovi canali di entrata portò Diocleziano, a cavallo tra il III e il IV secolo, non solo a inasprire complessivamente il carico fiscale ma anche a introdurre una tassa personale sulla proprietà. Col progredire della crisi dell’impero, la capacità di controllo delle entrate fiscali diminuì fino ad annullarsi. Sicché si assistette a una sempre maggiore autonomia e autosufficienza delle province. Ebbe così inizio quel processo che trovò il suo apice nel mondo feudale, dove si generalizzò il principio di un’organizzazione di riscossione delle imposte in denaro e in natura tale da rispecchiare per un verso i rapporti di gerarchia e di potere in relazione ai bisogni sia locali sia più generali e per l’altro diversa a seconda della posizione sociale ed economica, con una netta divisione tra esenti e non esenti. Una caratteristica dominante nel sistema feudale fu l’assenza di sistematicità e di continuità nella riscossione. Il problema fiscale finì per aprire una questione politica di enormi dimensioni. Tra il XIII e il XIV secolo prima in Inghilterra e poi anche in Francia venne avanzata la richiesta che la tassazione venisse approvata dalle rappresentanze dei ceti e degli ordini (il parlamento e gli Stati generali). Negli stati di antico regime le imposte ebbero un carattere non soltanto quanto mai diversificato e non di rado persino caotico, che affiancava diritti feudali, decime, dazi, ecc., ma anche profondamente sperequato, in quanto la fiscalità divenne via via più opprimente per le classi meno agiate a fronte dei privilegi riconosciuti al clero e alla nobiltà. Assai onerosa era la decima, tributo imposto in età carolingia a favore della chiesa, il quale comportava la cessione di un decimo del reddito. Si può quindi capire come la questione fiscale diventasse una questione direttamente politica e come essa abbia giocato un ruolo centrale nella politica riformatrice dei sovrani settecenteschi nell’Europa occidentale (andata incontro in Francia al totale fallimento) e nel provocare lo scoppio della prima rivoluzione inglese del Seicento, della rivoluzione americana e della Rivoluzione francese di fine Settecento alla luce della parola d’ordine “niente tasse senza rappresentanza”. La Rivoluzione francese affermò in Europa il principio, poi divenuto cardine e destinato a diffondersi (che aveva avuto già precedenti in Gran Bretagna), di una tassazione progressiva che doveva affiancarsi a quella indiretta in base al criterio che la contribuzione è un dovere del cittadino chiamato a concorrere a seconda della sua capacità contributiva superando ogni divisione in “ordini”. Sempre da qui emerse la concezione secondo cui la fiscalità costituiva il mezzo non solo per finanziare lo stato e i servizi pubblici, ma anche per reperire risorse al fine di mettere in atto politiche sociali a sostegno delle classi inferiori. Vennero così gettate le basi per una fiscalità, la quale avrebbe trovato la sua attuazione più ampia nel XX secolo, basata oltre che sulle tasse indirette anche sull’imposta progressiva sul reddito e avente tra i suoi fini principali il sostegno del costo delle politiche sociali che, dopo la crisi del 1929, hanno portato alle istituzioni dello “stato sociale”. Un ulteriore importante sviluppo si è compiuto in relazione al formarsi di nuove comunità economiche sovranazionali, come ad esempio la Comunità Economica Europea e poi l’Unione Europea, con una conseguente fiscalità rivolta a finanziare le istituzioni e le politiche economiche comunitarie.