età antica

  1. Le coordinate cronologico-spaziali
  2. Fonti “monumentali” e fonti “documentarie”
  3. Le innovazioni tecniche e gli orientamenti tematici attuali nella ricerca antichistica
  4. L’età greca e romana
  5. Il tardoantico
1. Le coordinate cronologico-spaziali

Che cosa significa “storia”? E quali possono considerarsi i limiti cronologici e spaziali di quell’immenso contenitore che si suole designare “età antica”? Il termine “storia” deriva dal greco historía (o historíe, nel dialetto ionico degli scritti più antichi), che significò in primo luogo “ricerca”: una esplorazione, dunque, degli elementi utili a ricostruire eventi del passato. In Omero hístor è l’arbitro che giudica nelle liti, con la capacità riconosciuta di vagliare le ragioni e le prove di entrambe le parti; ma già nel V secolo a.C. Erodoto testimonia l’avvenuto trasferimento del concetto e del termine dal campo della controversia giuridica a quello dell’attività storica, con la sua caratteristica ambivalenza: historéo indica infatti l’indagare, ma historía si è estesa anche al risultato della ricerca, ossia alla memoria che si conserva degli avvenimenti del passato e al loro racconto, compattati in un corpo unitario di conoscenze. Benché a tutt’oggi si usi spesso parlare di storia identificandola con gli avvenimenti (res gestae), appare in realtà ben difficile separare l’oggetto dell’indagine – un accadimento irrepetibile, del quale si è preservato il ricordo grazie a una selezione, a monte, da parte di chi lo ha registrato e di chi lo ha via via trasmesso – dalla conoscenza che se ne ha (historia rerum gestarum) e dunque dalle interpretazioni che ne sono state date. In verità non è possibile fare storia senza fare anche storiografia, vale a dire senza valutare criticamente i filtri antichi e moderni attraverso i quali un fatto storico è arrivato fino a noi. Il termine “critica”, per l’appunto, deriva dal greco krínein, che vuol dire “giudicare”, “discernere”; e già Tucidide aveva messo in guardia lo storico contro i rischi non soltanto della tendenziosità ma anche della soggettività, nel vaglio dei materiali a lui utili. Per storia dell’età antica s’intende, in generale, la ricostruzione delle vicende e delle culture dei vari popoli, dall’avvento della scrittura fino a un’età giudicata ormai diversa per l’instaurarsi di morfologie sociali, economiche, istituzionali, politiche, religiose mutate sia nella loro essenza, sia nella loro interazione reciproca. E benché qualsiasi popolo abbia avuto, com’è ovvio, una preistoria seguita da una “storia antica”, nella tradizione classicistica europea – ovviamente eurocentrica e come tale esportata poi anche fuori d’Europa – con questa espressione si intende lo studio delle civiltà classiche documentate attraverso fonti scritte, e il cui inizio si colloca dopo la fine dei tempi preistorici, per la cui ricostruzione ci si può invece avvalere soltanto di documentazione non scritta (ottenuta con il sussidio di archeologia, paleoetnologia, antropologia culturale, paleoecologia, paleopatologia, paleozoologia, paleobotanica, dendrologia, geografia storica, archeoastronomia, ecc.) e di modelli presi in prestito dalle discipline fisiche, matematiche, statistiche, informatiche e così via. Nelle aree geografiche dove i primi testi scritti compaiono più tardi, l’inizio del periodo protostorico si collega per solito con l’emergere della metallurgia (anche se nel Vicino Oriente i primi oggetti in rame e in oro martellati a freddo risalgono al neolitico, anteriormente anche all’uso della ceramica). Sempre nel Vicino Oriente, il formarsi di società complesse che danno vita alle prime grandi civiltà e già fanno uso della scrittura si colloca allo scorcio del IV millennio, attorno al 3000 a.C. Ma nella medesima epoca la maggior parte dell’attuale Europa ancora si trovava nel neolitico, e soltanto le zone situate attorno al Mediterraneo stavano evolvendo nel calcolitico (da chalkós = “rame”, “bronzo”, e líthos = “pietra”), ossia nella fase di passaggio dall’età della pietra levigata (o neolitico) a quella del bronzo. Sarà nel corso del primo millennio che avranno inizio nelle aree europee l’età dei metalli e la protostoria, in parallelo con il consolidarsi di processi già avviati durante l’ultima età della pietra, quali la sedentarizzazione, le attività di allevamento e di coltivazione, l’uso della ceramica, alcuni commerci a lunga distanza (ambre dalle aree baltiche per ornamenti, ma soprattutto stagno, indispensabile per produrre il bronzo e assai più difficilmente reperibile del rame). È però evidente che l’adozione di siffatte soglie cronologiche è sempre passibile di slittamenti all’indietro, qualora tornino in luce e siano decifrati documenti scritti anteriori a quelli finora noti, com’è già più volte accaduto nell’ultimo cinquantennio. Un’impresa sensazionale come la scoperta, realizzata dalla Missione Archeologica Italiana in Siria negli anni Settanta, di circa 17.000 tavolette iscritte degli archivi reali a Ebla (Tell Mardikh nell’alta Siria) ha fatto rinascere la cultura raffinata di questa città antichissima distrutta dagli hittiti, capitale d’un impero del quale si era pressoché smarrito il ricordo già tremila anni or sono, e ha consentito il recupero di un millennio di storia per il Medio Oriente (2400-1600 a.C. circa). Il ritrovamento a Creta e nel Peloponneso di altri archivi palaziali con tavolette in lineare B e la decifrazione della loro scrittura – grazie alla quale si appurò che la lingua allora usata era già il greco – hanno dischiuso nell’ultimo mezzo secolo prospettive affatto nuove sulla civiltà del II millennio a.C., epoca in cui viene oggi collocato l’inizio della storia greca (benché, di fatto, sia soprattutto la “filologia micenea” a occuparsi di questa fase culturale tuttora sprovvista di articolazioni evenemenziali, per la particolare natura della nuova documentazione acquisita). D’altro canto, l’attuale applicazione nella ricerca antichistica di tecniche, metodologie e modelli sempre più sofisticati – i quali dopo l’ultima guerra hanno conosciuto uno sviluppo prodigioso e si mostrano atti a rendere “parlante”, quanto meno per campionatura, anche la documentazione cosiddetta “muta” (non scritta) – porta a ridimensionare l’indispensabilità dei documenti scritti come fonte storica (fino a ieri indiscussa), relativizzando per conseguenza il bisogno di riferirsi alla loro esistenza come spartiacque fra la preistoria e la storia dell’evo antico. Eguale fluidità caratterizza oggi la periodizzazione della fine del mondo antico e degli inizi dell’età medievale, a seguito di valutazioni storiche e storiografiche sempre più articolate, attente alla molteplicità dei fenomeni interagenti, aliene dall’appellarsi semplicisticamente a una mono-causa nell’individuare cesure e persistenze. Sicché l’età del passaggio fra antichità e medioevo si è andata collocando fluidamente tra il IV e il VII secolo, fra il tempo dell’imperatore Teodosio il Grande e quello di papa Gregorio Magno. Un altro fattore di definizione che ha conosciuto innumerevoli mutamenti di prospettiva è quello spaziale. Non per caso nell’antica Grecia la conoscenza geografica si accompagnò alla nascita stessa della storia, attraverso la matrice – a entrambe comune e di forte ispirazione politica – di racconti di ktíseis (fondazioni di città) e i periegéseis (descrizioni geografico-etnografiche di territori). Ancora al tempo di Augusto, il greco Strabone percepiva come strettissimo il legame fra la propria opera etno-geografica e quella storica (a noi perduta). Gli orizzonti geografici della storiografia antica si andarono in ogni caso dilatando di mano in mano che si allargava il raggio degli interessi commerciali, politici e militari degli autori e del loro pubblico. Estendendosi ben al di là della penisola ellenica, essi inglobarono via via le aree della colonizzazione greca mediterranea, verso Oriente e verso Occidente; e arrivarono alle soglie dell’India dopo le conquiste-lampo di Alessandro Magno. La storiografia greca, con le nuove aspirazioni all’universale sollecitate dal costituirsi dell’impero macedone, confluì in seguito con quella romana. Ed entrambe rispecchiarono gli orizzonti ecumenico-mediterranei acquisiti dall’impero di Roma, in cui il mondo ellenistico, frantumandosi, era stato risucchiato. Le scritture storiche di età imperiale ebbero pertanto, per alcuni secoli, una visione unitaria dell’impero, che armonizzarono con la consapevole accettazione di un immenso, variegato patrimonio di “saggezza straniera” (Arnaldo Momigliano). Con il tempo, esse si andarono configurando secondo articolazioni regionali sempre più nette, ma conservando una prospettiva in prevalenza romanocentrica, circoscritta al quadro istituzionale romano, con cui gli orizzonti “universali” della storiografia classica finivano, in sostanza, per identificarsi. Soltanto nel IV-V secolo, sotto l’influenza del cristianesimo trionfante, anche nelle scritture storiche ed etnografiche talvolta si delineò un’ottica più genuinamente “universale”, che in qualche caso arrivò a travalicare i confini politici dell’impero. Nell’alta età imperiale i fattori di unità all’interno dello stato romano erano stati a bella posta accentuati da una letteratura di forte ispirazione propagandistica, anche in contrasto con la realtà (avviata a una progrediente frammentazione regionale). Analogamente, nel corso della tarda antichità – proprio mentre l’impero incominciava a fare più seriamente i conti con i popoli d’oltreconfine – un siffatto scollamento fra realtà e ideologia finì col proiettarsi su tutta l’ecumene conosciuta, prescindendo dal concetto di frontiera politica. Nell’età medievale la conclamata e pretesa “universalità” degli orizzonti storico-geografici – che si ispirava all’universalità della Christianitas succeduta a quella della Romanitas – nei fatti si andò di nuovo circoscrivendo, sino a far coincidere la cristianità “universale” con l’Europa geografico-politica, soprattutto per l’avanzare dell’islam lungo le coste dell’Africa e per la contrapposizione ormai netta con l’Oriente bizantino (un Oriente riguardato dall’Occidente come scismatico e infido). Oggi, nella storia dell’età antica, anche se per ragioni di comodo spesso si fa ancora uso di un taglio “eurocentrico” (in senso lato), si è tuttavia ben consapevoli del fatto che il mondo antico ebbe una fisionomia “mediterranea” largamente unitaria, per quanto composita, della quale non si può non tenere conto. E, di fatto, la ricerca antichistica tende ormai a considerare in maniera globale il complesso intreccio delle vicende politiche, culturali ed economiche mediterranee, associando in proficue sinergie percorsi di storia letteraria, storia artistica, storia economica e storia tout court ; né si dimentica di tributare la dovuta attenzione a componenti che furono essenziali per la nascita e per il secolare sviluppo del pluralismo culturale nella civiltà greco-latina, poi romano-bizantina (mediazioni soprattutto orientali: siriache, giudaiche, ecc.). Fenomeni d’inter-penetrazione e di acculturazione siffatti acquistarono una loro particolare visibilità soprattutto nell’avanzata età imperiale, a partire dal III secolo d.C. Ma un’ottica del genere è stata proficuamente applicata pure nello studio sia della grecità coloniale (da cui hanno tratto vantaggio le ricerche su tutta la fase arcaica della storia mediterranea: greca, italica, iberica, gallica, ecc.), sia dell’età ellenistica e tardoantica (Arnaldo Momigliano, Santo Mazzarino, Giuseppe Nenci, George Vallet), per le quali l’interesse si è riattivato proprio in quanto luoghi d’interazione culturale (sostituendosi al dispregio che, al tempo dello storicismo e dei nazionalismi, era stato tributato a epoche caratterizzate dal cosmopolitismo e da commistioni a vari livelli, giudicate allora “degeneranti”). Oggi ci si sta rendendo pure conto che più o meno fitte trame culturali, religiose ed economiche non cessarono d’intessersi tra l’Oriente e l’Occidente anche dopo lo spezzarsi della storia mediterranea in due tronconi: Maometto e Carlo Magno, per evocare la celebre e tuttora fortunatissima tesi sostenuta da Henri Pirenne nel suo libro del 1937 (lo stesso Pirenne vent’anni prima, nella Storia d’Europa, aveva marginalizzato Bisanzio perché tagliata fuori da quel primato che l’Occidente europeo aveva invece conseguito grazie allo sviluppo delle borghesie cittadine).

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2. Fonti “monumentali” e fonti “documentarie”

Soprattutto a partire dal dopoguerra si è instaurato con le fonti un rapporto profondamente mutato. Occorrono qui alcuni chiarimenti, sulla linea proposta da Jacques Le Goff circa il significato di “monumento/documento”. “Monumento” si collega alla radice indoeuropea men (come mens = “mente”, e memoria), e dal punto di vista filologico designa qualsiasi traccia del passato che serva a perpetuarne il ricordo (monere significa “far ricordare”, “istruire”), vuoi che si tratti di atti scritti (Cicerone per esempio si avvalse del termine per indicare i decreti del senato) ovvero di opere monumentali (arco di trionfo, colonna, trofeo, memoria funebre, ecc.). Il latino documentum – derivante da docere, “insegnare” – evolvette piuttosto (specie nel linguaggio giuridico) nel significato di “testimonianza” certa, di “prova” obiettiva, contrapposta all’intenzionalità celebrativa del “monumento”. Di qui il culto per il documento avviato dall’Umanesimo e culminato con il positivismo. Ma se a fine Ottocento, in uno storico francese della Grecia e di Roma antiche e della Francia merovingia come N. Denis Fustel de Coulanges appare nettissima la contrapposizione fra “documenti” e “monumenti” (includendo tra questi ultimi la stessa celebre Collezione dei Monumenta Germaniae Historica, che aveva preso avvio a cura dell’Accademia di Berlino fra il 1824 e il 1826 e che, a suo modo di vedere, era espressione erudita del patriottismo tedesco piuttosto che opera di vera scienza), questa marcia trionfale del documento sul monumento non fu né rettilinea né uniforme: basti pensare alle varie collezioni di “Monumenti” di storia patria o regionale promosse nell’Ottocento da Società e Deputazioni in varie città d’Italia (Torino, Modena, Napoli, Romagna, Venezie, Sicilia, ecc.). In seguito, soprattutto per sollecitazione dei padri fondatori delle “Annales” – la rivista che dagli anni Trenta del XX secolo in avanti rinnovò l’approccio storiografico con studiosi come Marc Bloch, Lucien Febvre e Fernand Braudel – ci si rese conto con crescente chiarezza che qualsivoglia documento è anche, al tempo stesso, “monumento”, e che in quanto tale dev’essere fatto oggetto di un vaglio critico attento e sottile, per mettere in luce non soltanto le falsificazioni o le manipolazioni deliberate, ma anche l’influenza determinante esercitata sul suo stesso porsi in essere da chi lo ha voluto, da chi lo ha redatto e dall’“inconscio culturale” che ha orientato un apprendimento, una conoscenza, un certo modo di presentare le cose. Operazioni di smontaggio siffatte comportano anche – necessariamente – il superamento della maniera critica tradizionale di accostarsi al documento. Si è ormai realizzata non soltanto la conversione del documento in monumento, ma anche quella del monumento in documento: pure un falso costituisce infatti una testimonianza preziosa, non su ciò che avrebbe voluto far credere, ma sull’epoca, il movente e la mentalità che stanno a monte dell’opera del falsario.

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3. Le innovazioni tecniche e gli orientamenti tematici attuali nella ricerca antichistica

Sotto il profilo tecnico-metodologico il lavoro dello storico antico è oggi facilitato (ma, se vogliamo, per certi versi anche complicato: in ogni caso arricchito) dal convergere di procedimenti che scaturiscono da una molteplicità di discipline nuove o, comunque, in via di accelerato sviluppo, che consentono importanti allargamenti della ricerca in estensione e in profondità. Da una parte, discipline un tempo considerate ausiliarie (“ancelle”) della storia antica hanno rivendicato una propria identità e autonomia sia nell’oggetto dell’indagine, sia nelle metodologie loro specifiche. Peraltro archeologia, numismatica, sfragistica (o sigillografia: studio dei sigilli e delle gemme lavorate), filologie ed epigrafie (greca, latina, semitica, ecc.), papirologia, diplomatica, onomastica (studio dei nomi propri), toponomastica (studio dei nomi di luogo), prosopografia (studio di personaggi noti del passato), iconografia (descrizione e classificazione dei soggetti artistici e dei loro riscontri letterari), iconologia (interpretazione del significato – simbolico, dogmatico, mistico, psicoanalitico, ecc. – delle opere d’arte e quindi della relazione tra parola e immagine da una parte, valori culturali e sociali del loro contesto storico dall’altra) sono andate accentuando la propria fisionomia di scienze storiche; e buona parte delle problematiche cui esse cercano di dare risposte – sempre più attendibili e precise grazie a tecnologie via via più sofisticate – presentano domande che sono essenziali anche per gli storici. Si gettano quindi nuovi, solidi ponti fra le varie discipline storiche, senza che ciò sconfini nell’utopia dell’interdisciplinarietà (dato che ogni disciplina deve fare uso di un linguaggio suo proprio). D’altra parte, nella ricerca storica antichistica si mettono oggi a partito anche i progressi delle scienze sociali (antropologia culturale, sociologia, sociolinguistica, psicologia delle masse, storia orale, etologia, semiologia e scienze della comunicazione, ecc.) per focalizzare specificità – nel tempo e nello spazio – di fenomeni socioculturali per i quali la documentazione tradizionale (fonti scritte) non è disponibile, o è insufficiente, o non è stata ancora sfruttata in tutte le sue potenzialità (come per esempio nel caso dell’agiografia – letteratura sulle vite dei santi, con studi critico-filologici correlati – che può venire utilizzata anche quale cassa di risonanza di comportamenti e di mentalità, oltre che come miniera d’informazioni sul costume e gli usi domestici nel quotidiano vissuto, grazie a suggestioni come quelle esercitate da Michel Foucault in La cura di sé, 1984). In questo modo si possono recuperare alla storia, almeno in certa misura, periodi di silenzio culturale altrimenti inattingibili, strati sociali o gruppi etnici primitivi del passato le cui tradizioni si sono affidate alla sola trasmissione orale di memorie e di miti. In particolare lo studio della preistoria molto si è giovato della paleoetnologia e dell’archeologia preistorica – sempre più avviate a trasformarsi in scienze sociali attraverso procedimenti conoscitivi comuni alla storia antropologica – per raggiungere un’ampia comprensione di sistemi socioculturali antichissimi, spiegandone i processi di formazione e di trasformazione. Si fa ricorso all’etnologia, alla demografia e alla climatologia storiche, all’antropometria, alla paleozoologia, alla paleobotanica, alla paleopatologia, all’archeoastronomia e all’astronomia culturale (studiando le importanti connessioni fra ricerca archeologica e astronomia), alle prospezioni elettriche, magnetiche, meccaniche e soniche, a fotografie aeree e da satellite, alle risorse più aggiornate delle indagini chimiche, fisiche, medico-biologiche, antropometriche, geologiche, ecologiche, storico-geografiche, ecc., per rifondare con tutti gli attributi delle scienze esatte e sperimentali sia la ricerca archeologica (la cosiddetta “New Archaeology” il cui atto ufficiale di nascita risale al 1968, fiera di operare come in un “laboratorio”), sia l’indagine topografica, papirologica, epigrafica. Forti di questi e di altri strumenti nuovi, in archeologia si tende a determinare con crescente rigore il sistema dei rapporti fra la natura del terreno, la stratigrafia e il monumento (la regola ha del resto una portata più generale: qualsivoglia testo o documento, per essere pienamente utile, deve essere studiato nell’imbricazione con il suo contesto monumentale e culturale, evitando d’isolarlo dall’insieme di cui fa parte). Si è in grado di sondare i fondali marini per rintracciare relitti di antiche navi affondate con i loro carichi di merci o strutture portuali sommerse per bradisismi. Si attuano ricognizioni del terreno in profondità, mediante carotaggi; ci si avvale di metodi fondati sulla radioattività per attribuire datazioni assolute ai materiali. Grazie all’analisi chimica delle pietre e degli impasti di anfore e oggetti vitrei si può determinarne la provenienza, ricavando risposte utilissime sui commerci dei marmi per uso monumentale, delle sculture, delle ceramiche e delle merci trasportate nei vari tipi di contenitori fittili, sui “viaggi” dei manufatti e delle iscrizioni (queste ultime trovandosi talora su blocchi riutilizzati in seguito come zavorra di navi). Sempre attraverso analisi chimiche sui resti materiali si precisa la composizione di antichi profumi, cosmetici e alimenti, tecniche di lavorazione e leghe dei metalli, in certi casi svelando falsi clamorosi (come quello – che sembra ormai dimostrato – della fibula Praenestina, la cui iscrizione in latino arcaico era riguardata sino a pochi anni or sono come esempio linguistico fra tutti vetustissimo), in altri casi contribuendo a mettere a fuoco fenomeni economici di grande rilievo come l’inflazione monetaria e i connessi procedimenti – pubblici e privati – di adulterazione della moneta. Si analizzano anche i tessuti; si leggono papiri carbonizzati; si rintraccia la struttura di vigneti sepolti sotto cenere e lava dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. Si mostra che è possibile istituire un rapporto preciso fra strutture insediative e paesaggio (paleoecologia), ricostruire – con l’ausilio della podologia (scienza del terreno) e delle analisi pollinee (paleobotanica) – interi sistemi di colture antiche, dinamiche di dissodamento, diboscamento, impaludamento, abbandono. Si tracciano profili di cicli climatologici secolari attraverso il variabile spessore degli anelli di crescita nel tronco sezionato delle gigantesche sequoie californiane, traendone considerazioni circa la possibile influenza climatica sulle migrazioni dei popoli di tutto il globo, in varie fasi dell’evo antico. La dendrocronologia consente di datare con precisione antiche costruzioni lignee conservate (a questo modo è stata assegnata al 965 d.C. la motte fortificata di Douai). Con l’ausilio della toponomastica, dell’aerofotografia e delle immagini da satellite si ricostruiscono cartograficamente le divisioni agrarie dell’età magnogreca e romana. Ci si appella a mezzi chimici per stabilire parentele fra individui fossili, nonché la loro eventuale provenienza da altre regioni o località (paleodemografia); si controllano l’entità del fattore denutrizione sugli scheletri rinvenuti nelle antiche sepolture e le malattie che hanno afflitto quegli individui da vivi, nonché le tare congenite dovute ai matrimoni consanguinei nelle società germaniche (paleopatologia). Com’è ovvio, la precisione ed esaustività delle analisi è realizzabile soprattutto per campionature, che soltanto con il tempo potranno venire assemblate in quadri generali adeguati e rinnovati. Soprattutto a partire dagli anni Sessanta si è dunque assistito a quella che è stata definita una “rivoluzione documentaria” in senso quantitativo non meno che qualitativo. L’interesse della ricerca ha cessato, per conseguenza, di concentrarsi esclusivamente sugli avvenimenti politici in senso stretto (la concezione “eventocratica” della storia tradizionale), sugli aspetti diplomatici e militari, sulle grandi personalità, sui luoghi del potere. Molte gerarchie si sono rovesciate, sono cambiati i protagonisti assieme con i documenti ai quali ci si rivolge per allargare l’indagine storica a tutti gli uomini, compresi i ceti emarginati o minoritari (quindi anche alle donne – seppure con accentuazioni “femministe” talora deleterie – ai bambini, agli eretici, ai folli, ai banditi; e inoltre ai popoli remoti nel tempo e nello spazio, alle culture contadine, o indigene, o primitive, in precedenza giudicate sottoculture, ecc.). Si è accantonata l’idea di privilegiare soltanto il documento scritto: invero oralità e scrittura quasi ovunque, in epoca storica, hanno coesistito, anche se l’avvento della scrittura ha senza dubbio rappresentato una tappa decisiva nello sviluppo di una società, per il ruolo svolto nella diffusione delle conoscenze all’interno di questa. Altre multiformi categorie di documenti possono in ogni caso concorrere alla ricostruzione della storia di una società nelle sue zone più dimenticate e “silenti” (silenziose per assenza di documenti scritti; e a queste forme di obliterazione inconscia o di eliminazione intenzionale Michel de Certeau ha dedicato analisi sottili). Ma è stato in particolare l’avvento del computer – con le straordinarie possibilità dischiuse dall’informatica – che ha condotto a un dilatarsi della memoria storica ai dati seriali e quantitativi, i quali hanno comportato anche un’organizzazione differente dei dati stessi, immagazzinandoli in corpora all’interno di un patrimonio culturale di cui tendono a rivoluzionare la fisionomia e la cronologia in determinate sequenze storiche: questo, per lo meno, è il programma che si prefiggono coloro che maneggiano le banche dei dati, sebbene il cammino da percorrere per un utilizzo storico criticamente corretto e proficuo appaia ancora assai lungo. Si vanno oggi costruendo serie statistiche dei fenomeni più svariati: tabelle di prezzi; indici di produttività, d’inflazione e di deflazione; curve di durata media della vita in diverse regioni e a seconda dei sessi e delle età, in base ai dati forniti dalle recensioni a tappeto di iscrizioni e papiri (esemplari gli innumerevoli studi quantitativi sulle vicende finanziarie ed economiche del principato prodotti da Richard Duncan-Jones). In ogni caso – merita sottolinearlo – è pur sempre l’ottica dello studioso a muovere le file di questo difficile gioco informatico, programmando le domande in vista di risposte adeguate. Per quanto si riferisce agli orientamenti tematici, le novità emergenti nella ricerca antichistica si collegano, almeno in parte, al rinnovamento del quadro teorico-metodologico, a sua volta connesso con le innovazioni tecniche. Spiccano pertanto, nelle indagini storiche attuali, le convergenze disciplinari e, quindi, anche la tendenza a una crescente cooperazione internazionale nella ricerca. Si va irrobustendo il collegamento fra discipline storiche e archeologiche, in una prospettiva soprattutto territoriale e in senso tanto sincronico quanto diacronico. Gli studi sul territorio rappresentano senza dubbio un settore privilegiato delle indagini antichistiche più innovatrici e significative degli ultimi anni (tuttora in progress): territorio anatomizzato – a livello micro-territoriale, regionale, sovra-regionale – specialmente nelle sue strutture produttive, nei suoi aspetti insediativi non soltanto urbani ma anche rurali, nei modi di sfruttamento della terra, nei condizionamenti geomorfologici; meno, per ora, nelle specificità socio-culturali, nella mobile dialettica delle relazioni umane circoscritte entro una ben definita area antropologica (le loro tracce nella cosiddetta “cultura materiale”, nelle fonti scritte, nelle tradizioni orali presentano infatti non poche difficoltà di appropriata lettura). In ogni caso, la prospettiva regionalistica tende sempre a integrarsi con una visione diacronica. Si è inoltre appresa l’importanza di tenere conto, per ogni categoria di fonti (rappresentazioni monumentali non meno che scritture storiche, documentarie, letterarie), dell’impatto tanto tecnico quanto formale, secondo “leggi” stilistiche proprie a ciascuna di esse: le convenzioni espressive – ossia le “retoriche” – variano infatti da settore a settore, “manipolando” i contenuti stessi a livello subliminale. Dai nuovi approcci discendono pertanto rinnovate interpretazioni anche nella storia più propriamente politica. Emerge, in sostanza, l’esigenza di ristrutturare la ricerca sull’antichità fornendole una piattaforma documentaria nuova o del tutto rinnovata, indispensabile per colmare tanti vuoti della storia sociale, agraria, finanziaria, culturale (in quanto storia delle culture locali e anche del quotidiano vissuto: si pensi, per quest’ultimo, alla Vita privata dall’impero romano all’anno Mille, 1985, a cura di Philippe Ariès e George Duby). Soltanto ricerche “sbriciolate” su aree circoscritte sembrano, di fatto, consentire di raggiungere prospettive innovatrici (seppur parziali) rispetto a quelle proposte sia dalla storiografia filologica dell’Ottocento, sia da quella di stampo idealistico fra le due guerre. Storia “locale”, dunque, ma come “grande storia” alla lente, come microanalisi per controllare o correggere su campioni geograficamente limitati la validità di quadri teorici generali spesso assurti a dogma, nell’attesa di ricomporre i risultati settoriali in ricostruzioni e sintesi più ampie, rimodellate e sfumate secondo nuovi punti di riferimento. Non pare che il rinnovato interesse nei confronti della cosiddetta “cultura materiale” – per quanto certo sollecitato, specie nel suo primo germogliare, dal marxismo – si colori oggi di una precisa ideologia. Un orientamento del genere, specialmente in Italia, è stato invero promosso soprattutto da una reazione più o meno consapevole a una storiografia da troppo tempo nutrita di idee astratte e di prospettive altamente ideologizzate, esprimendo dunque l’esigenza di una storia dell’antichità più neutrale, “oggettiva”, confrontata con il concreto, fondata su una documentazione il più possibile libera da mediazioni interpretative, da strumentalizzazioni sia antiche (fonti scritte) sia moderne (storiografia). Ma oggi, nella crisi generale delle ideologie, i diversi approcci sia metodologici sia tematici tendono a integrarsi reciprocamente, piuttosto che a contrapporsi. In una prospettiva affine sono state fatte oggetto di un’attenzione fino a ieri inusitata anche le antichità paleostoriche, hittite, fenicio-puniche e semitiche (pensiamo alla scuola di Sabatino Moscati), anatoliche, africane, nonché le tematiche già “ghetto” dell’aneddotica o del folklore quali la storia della donna e dei ceti non alfabetizzati, delle superstizioni e della magia, dell’alimentazione, dell’abbigliamento, della salute, delle applicazioni tecniche (in relazione con gli avanzamenti dei saperi scientifici a livello teorico), degli atteggiamenti di fronte alle calamità naturali, alla malattia, alla morte, alla vecchiaia, alla sessualità, alla contraccezione e all’aborto, ecc. Non soltanto questi comportamenti sociali e questi sistemi di valore di un remoto passato sono ora più accessibili grazie a tecniche di ricerca sofisticate, ma esercitano il fascino dei territori ancora inesplorati, della “periferia” geografica e culturale. Un’altra novità emergente negli orientamenti tematici della ricerca storica antichistica è costituita dal superamento della partizione tradizionale fra “storia greca” e “storia romana” (spesso artificiale e di puro comodo). Ci si orienta ormai verso una prospettiva unitaria della storia antica: opere come la Storia di Roma (4 voll. in 7 tomi, dal 1989) e I Greci. Storia cultura arte (dal 1996) – edite a Torino presso Einaudi e frutto di cooperazione specialistica internazionale – ovvero Lo spazio letterario di Roma antica (5 voll., dal 1989) e Lo spazio letterario della Grecia antica (3 voll. in 5 tomi, dal 1992) – realizzate da specialisti tutti italiani presso l’Editore Salerno di Roma – sono esempi eloquenti di queste rinnovate prospettive. Infine, come già si è accennato (paragrafo 1), le recenti acquisizioni metodiche e problematiche della ricerca in ambito antichistico hanno comportato anche ripensamenti, spesso radicali, nelle periodizzazioni tradizionali, grazie anche alla ravvivata attenzione per le età di transizione (nel passato altra trascurata “terra di nessuno”).

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4. L’età greca e romana

Se, ora, si cerca di enucleare alcuni aspetti fondamentali che caratterizzano l’attuale conoscenza dell’età antica, per il periodo della Grecia classica sembra di poter dire che fattore fra tutti determinante fu il modo di vita dell’uomo greco. Da esso “non soltanto gli aspetti politici vengono condizionati, ma anche quelli culturali, morali e religiosi della sua formazione” (Marta Sordi). Egli si identifica con il cittadino (polítes); ed è il suo vivere katà póleis che ne fa un “animale politico” libero, contrapposto al “barbaro” che è per natura “servo” di despoti e tiranni, vuoi nelle contrade sul Mar Nero e in Asia Minore – dove i greci fondarono le prime póleis già in età micenea -, vuoi tra le popolazioni indigene fra le quali i greci impiantarono le loro colonie costiere in Occidente. Siffatta distinzione tra greci e barbari fu dapprincipio esclusivamente politica e culturale (V secolo a.C.); soltanto in seguito si andò esasperando, caricandosi d’implicazioni etniche, quasi “razzistiche”. Nata dalla riforma oplitica del VII secolo (tattica di combattimento in falange, ossia in formazione serrata di fanti che si proteggevano l’un l’altro con gli scudi, onde respingere la carica dei cavalieri avversari), la polis si fondò sulla parità dei diritti di tutti gli uguali davanti alla legge (isonomía); essi partecipavano con spirito solidale alla gestione della comunità e dei suoi culti. Il punto d’arrivo non poteva che essere la democrazia. Essa realizzò in Atene l’esperienza più piena di partecipazione politica e di pace sociale sostenuta da un vasto consenso popolare, anche se può essere discutibile la convinzione (che fu già di Tucidide e che si rafforzò nel dibattito politico del V e IV secolo a.C., influenzando la storiografia successiva) secondo la quale la democrazia sarebbe stata un’invenzione ateniese. “Noi – affermava Tucidide – abbiamo una forma di governo che non imita le costituzioni dei vicini, ma siamo noi stessi esempio per gli altri. Riguardo al nome, essa è chiamata democrazia perché è amministrata non per il bene di pochi, ma per una cerchia più vasta: di fronte alla legge tutti, nella vita privata, godono di eguali diritti; né avviene che la povertà offuschi il prestigio e arresti la carriera di chi può rendere buoni servizi alla città [..]. Senza alcuna costrizione nella vita privata, nei rapporti pubblici non trasgrediamo la legge soprattutto per reverenza verso di essa”. La democrazia si costituì in Atene pacificamente e nella pace si conservò, identificandosi quindi con la tradizione politica e religiosa del popolo (démos), “costituzione dei padri” (pátrios politéia) che portò ad associare il concetto di cambiamento e di rivoluzione (neoterismós) con il sopravvento dell’oligarchia e della tirannide. L’esperienza democratica – contributo incancellabile della grecità alla formazione della coscienza politica occidentale – non ebbe tuttavia la capacità di proiettare tale apertura “interna” anche all’esterno, nei confronti degli alleati. Il “popolo” ateniese pretese d’imporre il proprio impero (arché) agli alleati come a sudditi. Proprio gli ideali di autonomia e di libertà tipici della polis sfociarono quindi nelle guerre per l’egemonia che dilaniarono la Grecia nel V e IV secolo (Atene, Sparta, Tebe). Di qui nacque poi il tentativo – effimero nei risultati – di assicurare un equilibrio fra i vari “stati” greci mediante una “pace comune” (koiné eiréne) fondata su un’alleanza multilaterale e garantita da principi di diritto “sovrannazionali” (386 a.C.). Tratto originale e caratteristico nelle vicende di Roma fu al contrario – sin da età antichissima e fuori da qualsivoglia influenza greca – la capacità di estendere la cittadinanza (civitas) ben oltre i confini della città (urbs). L’indifferenza per il fattore etnico nasceva dalla consapevolezza di essere un popolo misto sin dalle origini, formatosi dall’incontro-scontro con popoli diversi, via via assorbiti in una unità di natura politica e morale: si pensi al mito troiano e alla leggenda di Enea profugo dalle contrade d’Asia, progenitore dei romani dopo essersi radicato nel Lazio con i compagni sopravvissuti; e si pensi alle vicende storiche successive, che portarono alla fusione in Roma di elementi indigeni, latini, sabini, etruschi. Tale aspetto suscitava meraviglia e ammirazione presso i greci già nel III secolo a.C., come si apprende dalla lettera di Filippo V di Macedonia ai larissei nel 214 a.C.; e intellettuali come Dionigi di Alicarnasso, al tempo di Augusto e dell’impero mediterraneo di Roma ormai consolidato, ne fecero l’argomento centrale per giustificare l’affermazione politica di Roma e l’accettazione del suo primato “mondiale” da parte degli stessi greci, tuttavia pretendendo che proprio Roma, in quanto “città greca” per i suoi legami leggendari con l’arcade Evandro, avesse preservato il meglio dell’incorrotta grecità originaria. Veniva superato così, in funzione apologetica e propagandistica, lo scarto culturale di qualche secolo che si frapponeva tra la cultura greca e quella latina, oggi peraltro storicamente accertato. Tale capacità di assimilazione e d’integrazione accompagnò tutta la storia di Roma sia nella prassi (garantendo libertà e ampie facoltà di autogestione ai popoli sottomessi – con graduazioni certo, ma nel rispetto sostanziale di tradizioni diversissime e consolidate – in cambio di un’adesione di principio alla supremazia politica di Roma), sia nella propaganda elaborata dalla storiografia e dalla letteratura coeve e successive, riuscendo a lungo a sopire o a smussare contrasti latenti e incidendo profondamente sulla realtà attraverso una “retorica” del potere romano e dell’unità imperiale che seppe spesso farsi potere e unità effettivi. A questo modo vennero superati i conflitti fra patrizi e plebei nel V e IV secolo a.C., sfociando nell’associazione di questi ultimi alle somme magistrature dello stato. Egualmente furono integrate nella cittadinanza romana – non senza vivaci resistenze – le svariate realtà etniche della penisola, anche se l’identità dell’Italia era destinata a rimanere incompiuta. Il tornante decisivo di tale vicenda si colloca alla conclusione della guerra sociale (90-88 a.C.), allorché le città degli alleati italici (socii) entrarono a far parte dello stato romano diventando municipi. Il processo si concluse fra l’età di Cesare e quella di Augusto, compattando nella cittadinanza romana l’intera Italia fino all’arco alpino, con uno statuto di privilegio rispetto alle province. Durante le guerre civili (II-I secolo a.C.) e poi nel corso del principato gli homines novi furono ammessi al potere attraverso prestigiose carriere equestri e magistrature senatorie, sostituendosi poco a poco alla vecchia nobilitas. Fu quindi la volta del graduale assorbimento dei provinciali nella cittadinanza romana (a titolo individuale o a gruppi) e per conseguenza nell’esercizio delle pubbliche cariche (incluse, alla fine, le più alte magistrature senatorie), peraltro superando forti resistenze da parte dei vertici che si sentivano esautorati: si ricordi il celebre discorso tenuto dall’imperatore Claudio in senato per perorare la contrastata ammissione in esso di notabili della Gallia Comata, conservatoci sia in originale nella tavola bronzea di Lione, sia nell’elaborazione letteraria elegantissima di Tacito, che si conclude con il monito: “Tutto ciò che a voi sembra antichissimo, o Padri Coscritti, un tempo fu nuovo; e anche le novità di oggi, un giorno, appariranno antiche”. Processi d’integrazione siffatti coinvolsero nel tempo strati sociali sempre più larghi e meno prestigiosi per estrazione e ricchezza, purché disposti ad adottare i moduli mentali e culturali della civilitas romana; e si articolarono secondo una progressione cronologica che lambì – all’apparenza curiosamente – prima tutte le province dell’Occidente, meno “civilizzate” ma proprio per questo più facilmente omogeneizzabili, e poi le province dell’Oriente greco, ben più civili, ma secondo tradizioni autonome e antiche ben difficili da modificare. Finché la celebre Constitutio Antoniniana, al tempo di Caracalla (nel 212-14 d.C.), venne a consacrare ufficialmente l’inclusione pressoché totale (già di fatto operante) dei sudditi dell’impero nello status di cittadini romani. Si trattò di un livellamento giuridico “mondiale”, che avanzò di pari passo con quello di una “mondiale” sudditanza a un potere di vertice sempre più autocratico, per quanto reso più moderato dalla pragmatica attenzione del principe-dominus – “padrone”, ma anche “patrono” – nei confronti di tutti i gruppi sociali che allora contavano, onde assicurarsene la collaborazione e il consenso. L’ideale di una comunità fondata sul diritto, che consacrava una comunanza di valori culturali “universalmente” comuni (entro l’ambito “universale” dell’ecumene imperiale) era destinato a rendere possibile, a un certo punto, anche l’incontro fra la cultura greco-romana e quella giudaico-cristiana, che nel frattempo si era appropriata dei moduli espressivi e mentali familiari agli intellettuali della koiné mediterranea (III-IV secolo d.C. e seguenti). La “filosofia” cristiana, una volta identificata con la cultura di Roma, si sarebbe aperta – quanto meno in Occidente – agli stessi popoli barbari, riguardati come “romani” via via che si convertivano al cristianesimo (come nel V secolo d.C. ebbe a scrivere Patrizio, l’evangelizzatore dell’Irlanda, in una lettera al dinasta locale Corotico).

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5. Il tardoantico

La crescente disponibilità d’informazioni consentita dall’imponente sviluppo delle discipline di cui si è già discusso nel terzo paragrafo permette oggi di conoscere l’età tardoantica assai meglio che nel passato, diradando la tenebra che fino a ieri sommergeva questi secoli non a caso definiti per consuetudine “bui”. Si sono andate di conseguenza attenuando le schematizzazioni e le generalizzazioni (più o meno negative) nella storia politica, istituzionale (civile ed ecclesiastica), amministrativa e socioeconomica, non meno che in quella dell’arte, della cultura, della tecnica, delle religioni, mentalità, costume, folklore, nonché dei fenomeni di acculturazione (influenze, eredità e prestiti operanti in direzioni anche opposte). L’interesse per il periodo tardoantico si è dunque cospicuamente accresciuto, lasciandosi alle spalle i pregiudizi classicistici conservatisi in una cultura rimasta fino a ieri aristocratica, imperialista e colonialista, radicata in postulati romanocentrici ed eurocentrici. Si sono dissolte le grandi interpretazioni unidimensionali e totalizzanti della “crisi” del tardoantico proposte dalla storiografia del passato nel solco, più o meno consapevolmente seguito, già della storiografia antica. Negli ultimi decenni ci si è andati orientando verso una ricomprensione del tardoantico decisa a staccarsi dalle valutazioni trasmesse dall’Umanesimo e dal Rinascimento italiani, caratterizzate dalla ripulsa o dal disinteresse per la cultura “degradata” del “basso” impero. L’approccio pluridimensionale – per tematiche, fonti e metodologie – consente oggi di mettere in luce aspetti nuovi o di riformulare radicalmente molti di quelli già noti. I risultati sono talvolta sorprendenti e in ogni caso più ricchi, diversificati e concreti, quindi meno plasmabili dal pregiudizio e dall’ideologia, che della crisi tardoimperiale si sono sempre serviti come specchio (deformante) di problemi del presente, oggetto di dibattiti e d’interpretazioni contrastanti in quanto “archetipo di ogni decadenza” (Arnaldo Momigliano): ché, nel corso della storia, all’impero di Roma fatiscente, “traslato”, “salvato” o redivivo hanno fatto riferimento tutte le nuove potenze bisognose di crismi di grandezza, dal regno bizantino a quello carolingio, dal Sacro Romano Impero germanico all’impero napoleonico, zarista, fascista; ovvero gli stati che, all’apice della propria affermazione, si sono preoccupati di esorcizzare sotterranei timori d’indebolimento militare incombente, di commistione etnica, di degenerazione culturale (così Paolo Paruta nella repubblica veneziana di fine Cinquecento, come Edward Gibbon nel grande impero inglese dell’avanzato Settecento). Venuto ormai il tempo per una valutazione del tardoantico meno strumentale ed eteronoma, appare di conseguenza più difficile pervenire a una qualsivoglia interpretazione univoca dei secoli alla cerniera fra classicità e medioevo. Nel contempo, si è esorcizzato lo spettro della decadenza e della catastrofe accantonando l’epicedio sul tramonto della classicità, “mito borghese” mirabilmente formulato soprattutto da Michail Rostovtzev (1926). Nell’analisi dei fattori interni ed esteriori che portarono, attraverso flussi e riflussi, alla fine del tardoantico e all’inizio del medioevo (nell’Occidente latino, ma anche nell’Oriente bizantino) i dibattiti sulla periodizzazione, un tempo accesissimi, si sono andati affievolendo. Quasi tutti gli studiosi sono infatti ormai disposti a riconoscere che lo spartiacque cronologico può variare a seconda delle aree geografiche, nonché degli indicatori di continuità e discontinuità di volta in volta privilegiati. Se, per esempio, l’installarsi dei longobardi in Italia nell’avanzato VI secolo costituì per molti aspetti (economici, sociali, politici) un’effettiva cesura per la storia della penisola nel contesto del mondo mediterraneo, il problema si pone in termini differenti per i Balcani ben più precocemente germanizzati, per la Spagna visigota, per la Gallia franca, per la Sicilia e per l’Africa prima bizantine e poi musulmane, per Bisanzio vacillante sotto i colpi delle rovinose invasioni persiane nel VII secolo, mutilata della Siria e dell’Egitto divenuti arabi fra il 630 e il 650. Uno storico marxista d’oltre oceano come G.E.M. De Sainte Croix ha ritenuto di poter estendere fino alle invasioni arabe del VII secolo addirittura la sopravvivenza dell’“antico mondo greco”. I riferimenti cronologici mutano del pari a seconda che il problema delle continuità e delle rotture venga affrontato dal punto di vista istituzionale, socioeconomico, culturale, ossia con attenzione focalizzata sugli insediamenti e le loro funzionalità, oppure sull’evoluzione delle strutture agrarie e della loro condizione giuridica, sulla qualità, quantità e ritmi della circolazione monetaria, sulla produzione e diffusione delle merci, sull’estrazione sociale e sulla fisionomia etnica dei ceti dominanti (con la loro spiritualità, religione e cultura – scritta, visiva, orale), sull’articolazione degli strati sociali subalterni e il loro ruolo nell’economia e nel vivere sociale (schiavi, coloni, servi, liberi braccianti salariati, piccoli possidenti coltivatori, ecc.). Appare per esempio evidente la scarsa coincidenza tra la periodizzazione della storia politico-istituzionale (cesura nella seconda metà del V secolo), quella del cristianesimo (con una frattura secondo alcuni già percepibile nel IV secolo) e quella delle permanenze insediative (in cui la “rottura” appare evidente soprattutto nel VII secolo). La “mutazione” del tardoantico (per usare un termine caro ai biologi) si articola quindi fra IV e VII secolo: ossia quando, in sostanza, gli antichi stessi – i quali neppure si accorsero del 476, data divenuta poi emblematica nella manualistica, ma di assai tardivo successo (XIX secolo) – presero coscienza che l’impero di Roma era tramontato e che le strade dell’Oriente e dell’Occidente erano ormai, senza rimedio, divergenti. Ma ciò era apparso già chiaro a Giovanni Lido nell’Oriente bizantino al tempo di Giustiniano (da un punto di vista istituzionale e linguistico), e poi a papa Gregorio Magno in Occidente allo spirare del VI secolo, agli occhi del quale Roma – “aquila spiumata” – non conservava più neppure le vestigia dell’antica grandezza politica. Occorre tuttavia anche ricordare che la storia di questo tramonto del mondo classico – ormai identificato con l’impero di Roma – fu parecchio lunga: in Oriente esso si protrasse fino alla caduta di Costantinopoli – “nuova Roma” – nel 1453: e di fatto, nel secolo dei lumi, uno storico del tardo impero fra tutti grandissimo come Edward Gibbon estese appunto sino a tale anno la sua Storia della decadenza e caduta dell’impero romano (1776-88). [Lellia Cracco Ruggini]

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