elettorali, sistemi

Per sistema elettorale s’intende genericamente un meccanismo giuridico e organizzativo complesso, idoneo a trasformare i voti in seggi, ossia una procedura che collega la sorgente del consenso politico alla sede istituzionalizzata della volontà sovrana mediante una selezione della classe (o dell’élite) rappresentativa e di governo. I sistemi elettorali adottati all’interno di una compagine statale (sovranazionale o transnazionale, nazionale, regionale o locale) si pongono immediatamente in rapporto col funzionamento dell’intero sistema politico, mostrandosi sovente in grado di influenzarlo alla pari di altri elementi istituzionali. Non certo però di predeterminarlo, poiché è da escludere (almeno nelle democrazie occidentali) una relazione meccanicamente causale. I criteri di scelta dell’uno o dell’altro sistema elettorale sono perciò correlati alla tradizione, alla storia, alla cultura di una determinata comunità nonché ai risultati che essa vuol ottenere in termini di rappresentatività, stabilità ed efficienza di governo. Ciò detto, allorché si parla di sistema elettorale, è opportuno premettere una distinzione consolidata nella dottrina giuridica e scientifica, allo scopo di meglio inquadrare l’argomento. Infatti, da un lato è possibile evidenziare un concetto largo e più generale di “sistema elettorale”, che comprende sia quelle che D.W. Rae chiama le election laws, sia le electoral laws : vale a dire sia le leggi che regolano l’organizzazione e il procedimento delle elezioni – per esempio le questioni della formazione del corpo elettorale (elezioni), dell’ineleggibilità, dell’incompatibilità, ecc. – sia quelle che determinano la fase dello scrutinio e dell’assegnazione dei seggi. Da un altro lato, più restrittivamente, il sistema elettorale può esser inteso come “sistema di ripartizione del corpo elettorale in collegi, modo di votazione e criteri di scrutinio”. Riprendendo la classificazione proposta da S. Rokkan, secondo cui ogni sistema elettorale comprende almeno sei differenti dimensioni – e cioè: 1) chi vota; 2) il peso di ciascun elettore; 3) la standardizzazione delle procedure e la libertà di scelta; 4) il tipo di circoscrizione o collegio; 5) i livelli di scelta offerti all’elettore; 6) la procedura di calcolo con cui i voti sono trasformati in seggi – si può concludere che i primi tre punti sono da mettere in relazione con la definizione più ampia, comprendente le election laws citate da Rae; e che gli ultimi tre si collocano più specificamente all’interno del tema “sistema elettorale”. Sui primi tre non si rilevano, tra l’altro, grandi differenze nelle legislazioni dei paesi euroamericani o che si richiamano al modello occidentale. Non è dato insomma vedere variazioni sostanziali tra le norme che pongono in essere e organizzano l’applicazione dei principi di universalità, eguaglianza, libertà e segretezza del suffragio. Viceversa sui punti rimanenti, che delimitano il dibattito più propriamente tecnico sui “sistemi elettorali”, le diversità sono evidenti e produttive di effetti. È anzi opportuno sottolineare come la strutturazione e la formula del processo elettorale nelle fasi della votazione e dello scrutinio possa comportare ricadute sui princìpi primi – sull’eguaglianza e sulla libertà del suffragio, per esempio, laddove si pensi alle conseguenze che può ingenerare la distorsione, intrinseca ai vari sistemi, sull’egual peso di ogni voto oppure la delimitazione della scelta proposta ai cittadini sulla loro effettiva libertà. In questa sede, pertanto, l’attenzione sarà posta sui vari sistemi elettorali in senso stretto, pur non evitando di accennare, quando occorra, ai risvolti normativi più generali.

  1. Sistemi maggioritari e non maggioritari
  2. Sistemi proporzionali e misti
1. Sistemi maggioritari e non maggioritari

Da un punto di vista tecnico occorre focalizzare l’attenzione su come si presentano nei diversi sistemi i tre elementi, la cui varia connotazione e sintesi dà luogo al ventaglio delle possibili configurazioni di un sistema elettorale: a) la strutturazione dei modi di scelta della preferenza che viene presentata nella “scheda elettorale”; b) la delineazione della circoscrizione o collegio; c) la formula matematica che presiede alla trasformazione dei voti in seggi. Per inciso, cogliendo per i primi due elementi le tipologie fondamentali, si può affermare quanto segue: le schede possono essere “nominali” o “ordinali”, a seconda che all’elettore si imponga una scelta tra il partito o il candidato oppure lo si lasci libero di selezionare candidati appartenenti anche a raggruppamenti diversi; i collegi, generalmente ma non necessariamente aventi base territoriale, si distinguono in “uninominali” e “plurinominali” a seconda del numero (uno o più) di candidati da eleggere. Sulla scorta delle più sapienti caratterizzazioni e miscelazioni di queste tre componenti, sono state elaborate diverse centinaia di sistemi elettorali, riconducibili però infine alla distinzione fondamentale tra sistemi maggioritari e sistemi non maggioritari (“non maggioritari” è dizione preferita, in sede scientifica, al termine “proporzionale”, che risulta però di uso più corrente). Mentre nei sistemi maggioritari risulta determinante la volontà della maggioranza degli elettori nell’assegnazione dei seggi, e quindi nella concentrazione di questi in capo a poche forze politiche, nei sistemi proporzionali vi è la tendenza a garantire una distribuzione più equa e più frazionata ai vari gruppi in competizione in ragione della quota dei voti ottenuti. Vi sono poi i cosiddetti sistemi “misti”, che mescolando talune caratteristiche degli uni e degli altri cercano di volta in volta di assicurare una rappresentanza alle minoranze, punite nel maggioritario, o una maggiore consistenza ai partiti più forti al fine di eliminare l’eccessivo frazionamento che potrebbe prodursi col sistema proporzionale. Mentre nel caso del maggioritario assumono maggiore importanza le scelte relative al tipo di scheda e di collegio da adottare, nel caso del proporzionale e del misto è la formula matematica a produrre gli effetti più incisivi sul risultato complessivo. Non a caso, i modelli più raffinati sono stati elaborati da studiosi dei paesi dove tradizionalmente sono in vigore sistemi di questo genere. Considerando i due tipi fondamentali (maggioritario e proporzionale) nel loro impatto più generale con il sistema politico in termini di rappresentatività della volontà dell’elettorato e di garanzia d’efficienza ed efficacia ai fini della messa in funzione di un esecutivo, vale in genere nella dottrina consolidata, almeno in prima battuta, quanto segue: appare più garante di rapidità ed efficienza il maggioritario, più fedelmente rappresentativo degli orientamenti dell’elettorato il proporzionale. A proposito del maggioritario, vale la pena spendere qualche parola sul modello originario inglese, che storicamente si pone come l’antesignano di tutti i sistemi elettorali dell’età contemporanea, essendo stato introdotto fin dal medioevo e, dopo la “Gloriosa Rivoluzione” del 1689, più volte riformato in senso liberale e democratico dal Settecento al Novecento. Secondo il meccanismo del sistema elettorale maggioritario uninominale a maggioranza semplice (detto plurality system, o anche first-past-the post), è eletto il candidato che raccoglie il maggior numero di suffragi nel proprio collegio. All’elettore basta apporre una croce sulla scheda (ballot paper) in corrispondenza del nome del candidato scelto. In caso di parità, non si ricorre al ballottaggio, ma è in genere l’ufficiale elettorale circoscrizionale a esercitare il diritto di voto decisivo. Il risultato è immediatamente spendibile ai fini della costituzione di un potere esecutivo che si rivela efficiente, pur non essendo spesso adeguatamente rappresentativo delle tendenze della comunità elettorale. L’alternativa maggioritaria al plurality è il majority system, secondo cui il candidato da eleggere deve raccogliere la maggioranza assoluta, ossia la metà dei voti più uno. Esiste ancora una variante del maggioritario, detta double ballot, che è una sintesi del plurality e del majority : al primo turno il candidato deve conseguire la maggioranza assoluta; in caso contrario, vi è un turno di ballottaggio nel quale è sufficiente la maggioranza relativa o al limite una maggioranza qualificata, ovvero un determinato quorum. Il sistema basato sul doppio turno e sul ballottaggio è in vigore in Francia dalla fine della seconda guerra mondiale (salvo una brevissima parentesi negli anni Ottanta).

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2. Sistemi proporzionali e misti

Nell’ambito dei sistemi proporzionali e misti, che si annunciano e prevalgono con il progressivo imporsi della democrazia di massa, dei partiti e del suffragio universale, variano considerevolmente i modi di presentarsi dei tre elementi basilari dei sistemi elettorali. La lista può essere “rigida” (senza possibilità di esprimere preferenze), “semirigida” o “libera”, ossia aperta alle scelte impreviste e preferenziali dell’elettore. Si può verificare negli ultimi due casi la pratica del panachage, consistente nella facoltà che è data all’elettore di costruirsi una sua lista mettendo insieme candidati di liste diverse. I collegi sono plurinominali e di solito di dimensioni più vaste dei maggioritari uninominali. Grande importanza assume l’adozione della formula dello scrutinio, tra le molte esistenti, al fine del conteggio e dell’assegnazione dei seggi. A questo proposito, per i sistemi proporzionali si distinguono le formule basate sul metodo del quoziente da quelle basate sul metodo del divisore o infine su metodi automatici. Nella forma più semplice, quella del quoziente naturale, il primo tipo di formula prevede che i voti di una determinata circoscrizione siano divisi per i seggi da assegnare: si ha in tal modo il quoziente elettorale di base per l’aggiudicazione effettiva dei seggi. Questa formula, che normalmente comporta un problema di “resti” da calcolare ulteriormente, è stata sottoposta a successive rielaborazioni e correzioni da cui sono scaturiti metodi di conteggio diversi, quali l’Hagenbach-Bischoff (detto del “+1”), Imperiali (o del “+2”) o infine il cosiddetto “+3”, che in tempi più o meno rapidi consentono l’assegnazione di tutti i seggi. I metodi del divisore, sorti anch’essi per porre rimedio al problema dei resti e per giungere a risultati matematicamente ineccepibili, si fondano sulla divisione della cifra elettorale di ciascuna lista (cioè il numero dei voti validi ottenuti) per serie di numeri successivi. Il più noto è il metodo d’Hondt, che divide le varie cifre elettorali per la serie 1-2-3-4-5 e così via. Esistono altri metodi (Nohlen, delle più alte medie, St. Laguë, ecc.), che propongono divisori diversi che talora mettono in luce lo scopo intrinseco di favorire o meno i gruppi minori (cosa che rientra nello spirito dei sistemi proporzionali). I metodi automatici, di cui il più noto storicamente è quello applicato in Germania all’epoca della repubblica di Weimar, prevedono la suddivisione dei voti ottenuti dai partiti per un numero predeterminato, una sorta di quoziente arbitrario (ad es. 60.000) e la conseguente assegnazione dei seggi. I resti di ciascuna circoscrizione sono inefficaci o possono esser fatti confluire a livello nazionale. Ricerche ripetute e approfondite hanno consentito di registrare statisticamente notevoli variazioni di risultato, a seconda dei metodi adottati, ai fini della conformazione della rappresentanza. I sistemi misti, come si è accennato, sorgono per l’opportunità di mediare tra le caratteristiche del maggioritario e del proporzionale e per tentare di conservare i loro aspetti positivi (efficienza nella formazione del governo e ampia rappresentatività) escludendone i difetti. Ciò fa sì che in genere essi presentino una complessità maggiore degli altri, che tuttavia non si traduce necessariamente in superiore macchinosità applicativa. Il più noto dei sistemi misti trae origine dal modello elaborato all’inizio del Novecento dall’austriaco S. Geyerhahn (di cui porta il nome). Con varianti esso è applicato nella Repubblica Federale Tedesca, sia per l’elezione del Bundestag sia per le diete di alcuni Länder. E, a partire dalle leggi n. 276 e n. 277 del 1993, funge da riferimento anche in Italia per l’elezione di Camera e Senato. Il metodo Geyerhahn si propone di ricucire “il contrasto fra esigenze locali e generali, fra espressione di fiducia personale e affermazione di appartenenza a un dato ordine di vedute, fra riconsacrazione dell’autonoma volontà individuale ed esaltazione della forte disciplina di gruppo [..], tra il dominante dissidio, d’ordine generale, fra il momento dell’individualità ed il momento della collettività che mirano ad escludersi a vicenda” (Schepis). Allo scopo, esso associa il principio del collegio uninominale con quello del proporzionale, suddividendo il territorio in collegi uninominali a maggioranza semplice in numero inferiore a quello dei rappresentanti da eleggere, ad esempio la metà, o in misura maggiore, a seconda dei casi. La parte restante dei rappresentanti viene eletta col sistema proporzionale, sulla base di liste indipendenti o presentate dai raggruppamenti politici. Se questo, in sintesi, è il nucleo del metodo Geyerhahn, nell’applicazione esso presenta un gran numero di varianti, specie per ciò che concerne la percentuale riservata al maggioritario o al proporzionale. Per il Bundestag, per esempio, vale il rapporto di metà a metà, per alcuni Länder esso arriva al 70%-30%. Per il parlamento italiano (dal 1993) esso è del 75%-25%. Un elemento di differenziazione fra i vari sistemi elettorali, che però vale anche per i proporzionali puri, è l’esistenza o meno di clausole di sbarramento (Sperrklausel) legali, applicate sia alla quota proporzionale sia a quella maggioritaria. In Germania vige l’obbligo per le liste presentate di conseguire almeno il 5% dei voti o un certo numero di seggi uninominali, pena l’esclusione dalla rappresentanza. Influiscono sui sistemi elettorali che prevedono lo scrutinio di lista anche i cosiddetti premi di maggioranza, ossia quelle percentuali significative di seggi che vanno alle liste che abbiano raggiunto la maggioranza dei suffragi. Nella storia delle elezioni in Italia va ricordato in proposito il caso emblematico delle elezioni politiche del 1924, quando – grazie alla nota legge Acerbo del 1923 – al partito fascista che ottenne la maggioranza relativa dei voti validi (che doveva essere pari a un quorum di almeno il 25%) fu riconosciuta la rappresentanza parlamentare dei due terzi. È questo un caso-limite (come pure quello della “legge-truffa” del 1953) che mostra quanto una legge elettorale, peraltro concepita esplicitamente allo scopo di consolidare il potere fascista, possa condizionare l’intero sistema politico. Tale riflessione introduce ad alcune considerazioni conclusive intorno all’effettivo peso esercitato dai sistemi elettorali sui regimi liberaldemocratici, in particolare sul sistema dei partiti. In primo luogo, è indubbio che il sistema maggioritario favorisce il rapporto personale tra elettori ed eletto; al contrario, il proporzionale, oltre a spersonalizzare tale relazione, mette il candidato eletto in relazione con la sua funzione di rappresentanza politica generale. In secondo luogo, per un certo periodo si è teorizzato sulla corrispondenza palesemente esistente tra l’adozione di sistemi maggioritari e la tendenza al bipartitismo e viceversa tra la prevalenza dei sistemi proporzionali e il pluripartitismo. In realtà, pur senza negare un reciproco condizionamento tra i due fenomeni, studi più meditati tendono oggi a escludere un nesso causale tra essi e mettono in rilievo come questi piuttosto obbediscano a leggi peculiari di sviluppo. Pertanto, se è dimostrato che un sistema elettorale finisce per influire sulla morfologia della rappresentanza politica, parlamentare e amministrativa, sarebbe comunque errato attendersi da esso o dalla sua riforma risultati che competono eminentemente alla strutturazione interna del sistema politico nel suo complesso o che discendono dalle strategie intrinseche ai progetti delle forze politiche e sociali. [Corrado Malandrino]

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