dittatura

Nell’antica repubblica romana la dittatura era una magistratura temporanea dotata di poteri straordinari, istituita in periodi di crisi militare o politica. Il dittatore veniva nominato dal senato, e confermato dai comizi curiati; i suoi poteri, ben delimitati, erano molto ampi ma non arbitrari, e poteva restare in carica al massimo per sei mesi. A partire dal II secolo a.C., con la crisi della repubblica, le originarie prerogative della carica scomparvero, e personaggi come Silla e Giulio Cesare esercitarono un potere personale autoritario privo di fatto di qualsiasi controllo. Scomparvero così le originarie differenze tra la dittatura e regimi autoritari quali la tirannide, il dispotismo e simili. In epoca moderna il termine indica perlopiù una forma di governo autoritario e arbitrario da parte di una persona, di un gruppo o di una classe che, concentrando in sé ogni potere, può avere compiti e durata variabili. A seconda delle circostanze in cui è istituita, delle forze sociali che la sostengono e delle finalità che si pone, una dittatura può avere carattere progressista (come la dittatura giacobina) o reazionario (una distinzione presente già in Machiavelli). Nel Novecento l’esperienza delle dittature totalitarie (totalitarismo) ha contribuito, insieme alla crescente diffusione delle aspirazioni alla democrazia, a rafforzare il giudizio negativo sulla dittatura. Una delle forme più tipiche di dittatura moderna è la dittatura militare, che soprattutto nei paesi del Terzo Mondo ha rivendicato a sé in molti casi una funzione di stabilizzazione e di incentivazione allo sviluppo. Nel moderno pensiero politico il concetto di dittatura ha assunto un significato e una diffusione specifici nella nozione di dittatura del proletariato, che costituisce uno dei concetti centrali del marxismo. Probabilmente coniato da Blanqui, il concetto fu elaborato da Marx ed Engels (in contrapposizione a quella che essi chiamavano “dittatura della borghesia”, e che poteva attuarsi in varie forme, compresa la repubblica parlamentare) per indicare il periodo di transizione dalla società capitalistica a quella socialista successivo alla vittoriosa rivoluzione proletaria, durante il quale vengono creati i presupposti della società senza classi e dell’estinzione dello stato. Benché indicassero con precisione diversi provvedimenti di transizione (limitazione della proprietà privata tramite imposte progressive e di successione, espropriazione di latifondisti e industriali, statalizzazione di banche e trasporti, ecc.), Marx ed Engels non diedero mai una definizione sistematica della forma che la dittatura del proletariato avrebbe dovuto assumere, limitandosi a brevi cenni e all’indicazione che essa sarebbe stata di breve durata; né tanto meno sostennero la necessità di un partito o di un suo ruolo guida. Solo la Comune di Parigi (1871) fornì loro un modello e un esempio: maggiore partecipazione degli operai alla guida dello stato, unione di potere legislativo ed esecutivo in un organo eletto a suffragio universale, revocabilità di funzionari e rappresentanti. Benché dopo il 1870 Marx ed Engels avessero iniziato a considerare la possibilità, nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti, di una transizione pacifica al socialismo, dopo la loro morte i partiti marxisti continuarono a considerare la dittatura del proletariato un punto programmatico centrale. Ma con la crescente presenza dei socialisti nei parlamenti e nelle amministrazioni dello stato “borghese” la rilevanza pratica del concetto diminuì; soltanto i gruppi della sinistra socialista continuarono a sostenere la dittatura del proletariato come fine pratico. Il concetto tornò di attualità con la rivoluzione d’ottobre del 1917 e con la formulazione datane da Lenin, che gli assegnò un ruolo fondamentale nell’azione diretta a spezzare l’opposizione della borghesia. La prassi del bolscevismo (che dalla definizione dei soviet come strumenti della dittatura del proletariato giunse a fondare la dittatura del partito) e la centralità del concetto nei programmi della Terza Internazionale e dei partiti comunisti riaccesero i dibattiti nel movimento operaio e contribuirono ad approfondire la frattura tra riformisti e rivoluzionari. I regimi comunisti, mostrando l’impraticabilità della dittatura del proletariato, assunsero il carattere di dittatura dei vertici del partito unico al potere.