Democrazia cristiana

Il termine “democrazia cristiana” iniziò a circolare in Italia verso la fine dell’Ottocento negli ambienti più sensibili alla dottrina sociale della chiesa, fissata da papa Leone XIII nell’enciclica Rerum Novarum (1891). Nell’Opera dei Congressi, accanto alle posizioni conservatrici e paternalistiche di Giuseppe Toniolo (che interpretava il cristianesimo sociale come “benefica azione cristiana a favore del popolo”), si svilupparono infatti tendenze democratiche dirette a promuovere la partecipazione politica e sindacale delle masse cattoliche: una partecipazione a cui la chiesa, dalla fondazione dello stato unitario e ancora per molto tempo (fino all’attenuazione del non expedit nel 1904, al patto Gentiloni nel 1913 e poi alla fondazione del Partito popolare italiano nel 1919), si oppose nettamente. Nel 1900 Romolo Murri, direttore della rivista “Cultura sociale” (1898), fondò i Fasci democratici cristiani, convinto che il mondo cattolico dovesse intervenire nella vita politica nazionale per sconfiggere l’oligarchia liberale e giolittiana, che emarginava le masse popolari. Papa Leone XIII, che non condivideva l’ideale democratico e repubblicano di Murri, nel 1901 emanò l’enciclica Graves de communi in cui si oppose alla nascita di un partito cattolico in Italia. Ciononostante Murri fondò, nello stesso anno, la Democrazia cristiana italiana, subito sconfessata dall’Opera dei Congressi, alla quale il nuovo partito voleva aderire. Con l’avvento del nuovo papa Pio X (1903), culturalmente antimodernista e politicamente conservatore, sia la Democrazia cristiana sia l’Opera dei Congressi furono sciolte (1904). Murri, che si avvicinò ai radicali, fu sospeso a divinis nel 1907 e scomunicato nel 1909. La chiesa, in quel frangente storico, aveva preferito sostenere la politica clerico-moderata di appoggio ai governi giolittiani. Come si è già accennato, solo nel 1919 avrebbe infine consentito che nascesse un partito cattolico: il Partito popolare italiano di Luigi Sturzo. Il nome Democrazia cristiana fu ripreso dal partito cattolico italiano ricostituito nel 1942, durante la seconda guerra mondiale, dai vecchi dirigenti del Partito popolare e dai giovani cattolici formatisi nel periodo del fascismo e appartenenti alla FUCI e all’Azione cattolica. La DC, che fece parte del CLN, contribuì alla resistenza partigiana con le “brigate del popolo”. Nel nuovo partito confluì l’intero mondo cattolico, in tutta la complessità della sua cultura, comprendente un’ampia gamma di posizioni politiche che spaziavano da un tradizionalismo paternalistico e conservatore a un cristianesimo sociale e democratico. Il programma del nuovo partito riprendeva dal vecchio PPI la vocazione interclassista, la scelta della democrazia politica (suffragio universale assoluto, sistema elettorale proporzionale) e del decentramento amministrativo, e il sostegno alla piccola proprietà, soprattutto nelle campagne. Grazie all’appoggio sistematico della chiesa e dell’Azione cattolica, la DC poté contare su una vasta e articolata rete organizzativa, che le consentì di diventare presto un grande partito di massa, con quasi un milione di iscritti già nel 1946. Sotto il profilo sociale, fu sostenuta dalla grande borghesia imprenditoriale e dalla proprietà terriera, che non riponevano fiducia negli altri partiti ideologicamente borghesi e conservatori, troppo piccoli per poter esercitare un ruolo politico effettivo nella nuova repubblica democratica. Gli stessi dirigenti della DC, benché di cultura cattolica, erano di mentalità ed estrazione borghese, spesso appartenenti al mondo imprenditoriale (Falck, Pella, Vanoni) e coerenti sostenitori del liberismo economico. Grazie al profondo radicamento del cattolicesimo tra le masse popolari, la DC fu anche un partito interclassista, capace di raccogliere i consensi di ampi settori del mondo contadino, della piccola e media borghesia urbana e rurale e di parte del proletariato. Il conservatorismo dell’elettorato democristiano fu evidente in occasione del referendum istituzionale del 2 giugno del 1946. Il partito si era pronunciato a favore della repubblica, ma aveva lasciato libertà di voto agli elettori, che si espressero infatti in grande maggioranza per la conservazione della monarchia. Alle contemporanee elezioni dell’Assemblea costituente la DC fu subito il partito di maggioranza relativa, con il 35% dei suffragi. Nella Costituente la DC difese i diritti individuali, la libertà di insegnamento, la famiglia, il pluralismo sociale, il Concordato del 1929 tra stato e chiesa e il decentramento. In quegli anni il composito mondo democristiano si divise tra la sinistra di Giuseppe Dossetti, che intendeva continuare l’alleanza con le sinistre nata nella comune lotta antifascista, e la destra di Giovanni Gronchi, che premeva per l’allontanamento del PCI dal governo. Il primo segretario del partito fu Alcide De Gasperi, centrista e filoamericano, che conferì alla DC un carattere laico e autonomo dalla chiesa, nell’intento di renderla un partito della borghesia con ampio sostegno popolare. Il suo obiettivo era organizzare “un partito di centro, che guarda verso sinistra”, cioè capace di conservare l’elettorato moderato e conservatore, ma anche di fare concorrenza alla sinistra con una politica di cauto “riformismo dall’alto”. De Gasperi attese il momento internazionale propizio per chiudere le porte del governo alle sinistre e inaugurare la stagione del “centrismo”: è quanto accadde nel 1947, quando gli Stati Uniti – nel clima della guerra fredda – promisero all’Italia gli aiuti economici del piano Marshall a condizione che al governo partecipassero solo partiti di provata fede filo-occidentale. Tutta la politica democristiana nell’era di De Gasperi fu mirata all’emarginazione in Italia delle forze di estrema destra, chiuse a ogni riformismo, e di estrema sinistra, pericolose per l’assetto sociale esistente e per la collocazione internazionale del paese. Nel 1947, ad esempio, De Gasperi sfruttò la spaccatura interna al movimento socialista, invitando il nuovo PSLI (poi Partito socialista democratico italiano) a entrare nella maggioranza, al fine di indebolire e isolare l’estrema sinistra relegata all’opposizione. Nel 1948 la DC raccolse i frutti dell’energica campagna politica e ideologica, improntata all’anticomunismo e all’esaltazione della scelta filo-occidentale (confermata nel 1949 dall’adesione al Patto atlantico), sconfiggendo nettamente il Fronte popolare delle sinistre e ottenendo il 48,5% dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento. Forte della stabilità politica conseguita, De Gasperi, sostenuto dalla sinistra del partito (Dossetti, La Pira, Fanfani), volle impostare una politica di cauto riformismo, che realizzasse gli obiettivi del programma per il quale il partito era stato fondato. Incontrò, però, la strenua resistenza della destra del partito, timorosa di ogni benché minima trasformazione sociale, la quale riuscì a depotenziare le sue iniziative. Così, la progettata riforma agraria si limitò a una legge stralcio, che frazionò le terre meno fertili dei grandi latifondi in proprietà spesso troppo piccole e poco assistite, non in grado di consentire una reale modernizzazione dell’agricoltura. La Cassa per il Mezzogiorno fu, anch’essa, insufficiente a risolvere gli squilibri tra nord e sud. Il progetto di concretizzare l’autonomia regionale, prevista dalla Costituzione, venne addirittura abbandonato. De Gasperi orientò la DC, e i governi nazionali, anche sulla strada della realizzazione dell’unità europea, contribuendo alla nascita della CECA (1952). Nel 1953 la DC cercò di rafforzare ulteriormente la stabilità dei propri governi con la contestatissima “legge truffa”, che avrebbe assegnato il 65% dei seggi della Camera alla coalizione che avesse avuto il 50,01% dei suffragi: l’obiettivo fallì per pochi voti. Alla morte di De Gasperi fu eletto segretario Amintore Fanfani (1954-59), della corrente di “Iniziativa democratica” (con Rumor, Galloni, Gui, Taviani, Moro e Zaccagnini), fautore di una politica tecnocratica e di intervento statale in economia, che si concretizzò nella nascita di numerosi enti di stato (tra cui l’ENI) e del ministero delle Partecipazioni statali. La DC cercò di occupare tutti i posti-chiave a ogni livello del ramificato sistema di potere che stava costruendo, in un’ottica spartitoria e clientelare, che fece parlare di un vero e proprio “regime democristiano”. Negli anni Sessanta il fenomeno del correntismo, sempre esistito nella DC, si sviluppò ulteriormente, con tensioni e contrasti spesso di natura clientelare, che portarono nel 1968 al “manuale Cencelli” per regolamentare la spartizione dei posti di potere secondo il peso congressuale delle correnti. La corrente più forte era in quegli anni quella dorotea, nata nel 1959 nel convento romano di Santa Dorotea, da un gruppo (Rumor, Taviani, Colombo, Moro) che si era staccato da Fanfani, facendolo sostituire alla segreteria del partito da Aldo Moro (1959). Contrari all’energico centralismo fanfaniano, i dorotei furono maestri della flessibilità e della mediazione politica. Dal punto di vista politico, le correnti si divisero soprattutto sul nuovo problema dell’apertura della maggioranza governativa al PSI, che dal 1956 aveva sciolto il patto di unità d’azione con il PCI. Mentre le correnti più conservatrici continuarono a sostenere la chiusura a sinistra e appoggiarono la breve e fallimentare esperienza del governo Tambroni (1960), i dorotei e le correnti più progressiste avviarono un dialogo costruttivo con il PSI. Il centrosinistra, realizzato da Moro con l’appoggio di Fanfani nel 1963 grazie alla nuova situazione interna e internazionale (boom economico, distensione, pontificato di Giovanni XXIII), fu sempre frenato nella sua vocazione riformista dalle correnti di destra della DC, timorose di perdere l’elettorato conservatore. Dopo gli sconvolgimenti del 1968 e l’“autunno caldo” del 1969, la DC si presentò come il partito della stabilizzazione moderata del sistema, cercando di mediare tra l’ansia di rinnovamento penetrata anche nel mondo cattolico (CISL, ACLI) e le spinte di destra di un elettorato che minacciava di spostarsi verso il MSI. Negli anni Settanta cominciò la flessione elettorale della DC, che per una ventina d’anni era rimasta attestata intorno al 40% dei voti. Le ragioni della crisi furono l’esaurimento della formula del centrosinistra e l’avanzata elettorale del PCI (particolarmente forte nel 1975 e nel 1976), l’esplosione di alcuni scandali per fenomeni di corruzione politica, la sconfitta nel referendum del 1974 sul divorzio, nel quale la segreteria Fanfani aveva impegnato a fondo il partito. Alla nuova situazione e all’emergenza terroristica degli “anni di piombo”, la nuova segreteria di Benigno Zaccagnini (1975) e il leader Aldo Moro risposero con una politica di “attenzione” al PCI, che si tradusse nei governi di solidarietà nazionale del periodo 1976-79. Terminata l’emergenza del terrorismo ed entrata in crisi la sinistra comunista, negli anni Ottanta la DC, sempre più in difficoltà (calo elettorale, sconfitta sull’aborto), ricostruì alleanze di quadripartito per poi entrare nella nuova coalizione di pentapartito (DC, PSI, PSDI, PRI, PLI), perdendo però la posizione di indiscussa centralità di cui aveva goduto nei decenni precedenti. Per la prima volta dopo il 1945 la presidenza del consiglio passò in mani non democristiane (Spadolini, 1981-82; Craxi, 1983-87). Un effimero rilancio del partito si ebbe con la segreteria di Ciriaco De Mita (1982-89), della sinistra del partito, che inaugurò un periodo di intensa rivalità con il PSI di Bettino Craxi e che nel 1987 ridiede alla DC la presidenza del consiglio. Le mai sopite divisioni interne riportarono nel 1989 la segreteria del partito al leader del centro, Arnaldo Forlani, fedele alla formula del pentapartito e noto per la sua chiusura nei confronti del PCI. Nel 1991 un sostenitore dell’apertura a sinistra, l’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando, uscì dalla DC e fondò il partito trasversale la Rete. La crisi del sistema dei partiti italiani negli anni Novanta, culminata nei processi contro Tangentopoli (1992), travolse anche la DC, giudicata dall’elettorato la massima responsabile, insieme con il PSI, del livello raggiunto dalla corruzione politica nel paese. Dopo le sconfitte elettorali alle politiche del 5 aprile del 1992, che videro il partito scendere sotto la soglia del 30%, e alle amministrative parziali del 1993, con un vero e proprio crollo, la DC si sciolse nel 1994, dopo aver dominato per quasi mezzo secolo la storia dell’Italia repubblicana. Dalla sua dissoluzione sorsero tre partiti: il nuovo Partito popolare italiano, guidato da Mino Martinazzoli (dal dicembre 1992 segretario della DC), che raccolse alcune correnti di centro e di sinistra; il Patto per l’Italia di Mario Segni, di centro, particolarmente impegnato nella battaglia per il rinnovamento delle istituzioni; il Centro cristiano democratico, di Mario Mastella e Pierferdinando Casini, che raccolse l’eredità della destra del partito. Una parte della sinistra, guidata da Pierre Carniti, costituì il movimento cristiano-sociale. Per le elezioni politiche del 27-28 marzo 1994, il Patto per l’Italia di Segni e il PPI di Martinazzoli si allearono, costituendo lo schieramento centrista insieme ad alcuni esponenti dei partiti laici (repubblicani, liberali, socialdemocratici); il CCD di Mastella e Casini si aggregò al nord al Polo della libertà (con Forza Italia, Lega Nord e Unione di centro) e nel centro-sud al Polo del buongoverno (con Forza Italia e Alleanza Nazionale); i cristiano-sociali si presentarono con lo schieramento progressista (con PDS, Rifondazione comunista, Rete, Verdi, PSI e Alleanza democratica). Le elezioni furono vinte dai Poli del centrodestra e consentirono al CCD di ottenere 30 deputati e 10 senatori. La sinistra progressista fu battuta, ma il grande sconfitto fu – nella nuova logica bipolare indotta anche dalle riforme elettorali in senso maggioritario del 1993 – lo schieramento di centro: alla Camera ebbe 46 deputati (32 del PPI, ottenuti con l’11,1% dei voti; 14 del Patto di Segni con il 4,6%), contro i 206 di cui disponeva la DC nell’ultima legislatura, per quanto la lettura di tali dati debba essere contestualizzata nella profonda trasformazione complessiva del sistema politico nazionale. Nel corso successivo degli anni Novanta i partiti sorti dalla dissoluzione della Democrazia Cristiana si sono ulteriormente suddivisi, dando origine a nuove formazioni politiche variamente schierate rispetto ai due poli di centrodestra e centrosinistra che hanno dominato la politica italiana dopo le elezioni del 1994.