costituzione

  1. Definizione
  2. Tipi di costituzione
  3. Sviluppo storico delle costituzioni
  4. La costituzione della repubblica italiana
1. Definizione

Nel linguaggio storico-politico il termine “costituzione” ha due significati. Il primo ha un valore descrittivo: in base ad esso la costituzione è il modo in cui è formato e articolato qualsiasi ordinamento giuridico. Il secondo ha invece un valore prescrittivo, nel senso che la costituzione è un modello che sta a indicare in quale modo l’ordinamento giuridico di uno stato deve essere organizzato. Una costituzione può essere non scritta ovvero derivata da una solenne tradizione in evoluzione, come in Gran Bretagna, e in tal caso non si dà distinzione tra questa e le leggi ordinarie; oppure può essere scritta, come quella degli Stati Uniti, acquistando così il carattere di una “carta fondamentale” che definisce la struttura dell’organizzazione politica dello stato, la forma e il funzionamento del potere esecutivo, del potere legislativo e della giustizia, i loro rapporti e, nel caso di un ordinamento confederale o federale, quelli tra gli stati membri e gli organi comuni. Data la loro natura prescrittiva, le costituzioni scritte definiscono il quadro orientativo generale delle leggi ordinarie, della cui legittimità sono la misura. Mentre la costituzione non scritta inglese è stata il prodotto di una lunga evoluzione storica, che ha avuto il suo punto culminante tra la seconda metà del XVII e la prima metà del XVIII secolo, le costituzioni scritte hanno fatto la loro comparsa nel secolo XVIII e sono state l’espressione della lotta delle forze liberali contro l’assolutismo: una lotta diretta a porre limiti allo stato a tutela dei diritti inalienabili dei cittadini. Quanto alla loro origine le costituzioni posso essere il frutto di un atto rivoluzionario oppure della concessione di un sovrano che autolimita i suoi precedenti poteri assoluti.

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2. Tipi di costituzione

Le costituzioni sono di vario tipo. Si distinguono da un lato per il meccanismo formale stabilito per la loro modificazione e dall’altro per il contenuto delle loro prescrizioni in tema di forma dello stato, di diritti civili e politici dei cittadini, di contenuti economico-sociali. Circa i criteri di modificazione, esse si dividono in rigide e flessibili. Una costituzione è rigida quando la sua modificazione richiede procedure diverse rispetto a quelle necessarie per la formazione delle leggi ordinarie. In genere è richiesta una maggioranza più ampia nel seno dell’organo legislativo. È flessibile quando non vi è differenza fra le due procedure. In relazione alla struttura del potere, una costituzione è liberale se è prevista la separazione dei poteri, non liberale quando questa non sia contemplata. Per quanto riguarda le finalità economico-sociali, le costituzioni si distinguono in liberali o liberaldemocratiche, democratico-sociali, socialiste. Liberali sono le costituzioni nelle quali i diritti di libertà sono riconosciuti come originari e inviolabili e il diritto di proprietà quale uno tra essi. Le costituzioni liberali possono poi essere definite liberaldemocratiche allorché il diritto di voto è universale e non sono posti limiti al pieno esercizio dei diritti delle organizzazioni sindacali e dei partiti. Democratico-sociali sono le costituzioni nelle quali i principi liberaldemocratici vengono per un lato inglobati e per l’altro modificati in relazione soprattutto alle finalità sociali dello stato. Il diritto di proprietà è sì riconosciuto, ma nell’ambito delle sue funzioni sociali e quindi reso relativo e non assoluto, riconoscendosi il diritto di espropriazione, nazionalizzazione o socializzazione in caso di un interesse prevalente dello stato. Di tendenza socialista o socialiste sono le costituzioni che pongono allo stato lo scopo primario di assicurare il superamento della società capitalista o di garantire l’ordine derivante dall’avvenuto superamento del capitalismo stesso. Le costituzioni di questo tipo respingono la separazione dei poteri e il parlamentarismo e assegnano al partito comunista una condizione di monopolio di fatto (costituzioni democratico-popolari) o di diritto (costituzioni socialiste) all’interno del sistema politico. Costituzioni teocratiche sono infine quelle che pongono all’ordinamento dello stato lo scopo di essere il mezzo per attuare un ordine prescritto dalla religione. Un’importante distinzione è anche quella tra costituzione formale, ovvero l’insieme dei principi che costituiscono il fondamento del sistema normativo dell’ordinamento dello stato, e costituzione materiale che risulta dal modo in cui di fatto quell’ordinamento funziona in relazione all’impulso che a esso viene dall’azione dei principali soggetti politici e sociali.

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3. Sviluppo storico delle costituzioni

La costituzione non scritta inglese, derivata dal succedersi secolare di una serie di atti che hanno segnato il cammino dei diritti e delle libertà inglesi, ha i suoi documenti fondamentali nella Magna Charta del 1215, nella Petizione dei diritti del 1628, nell’Habeas Corpus del 1679, nel Bill of Rights del 1689, nell’Act of Settlement del 1701, nella prassi, consolidatasi nel corso della prima metà del Settecento, per cui il monarca, prendendo atto della definitiva supremazia del parlamento, conferiva al leader della maggioranza il ruolo di primo ministro. La prima costituzione scritta dei tempi moderni è quella federale degli Stati Uniti, approvata nel 1787, entrata in vigore nel 1789 e radicata nelle costituzioni di cui si erano in precedenza dotate alcune delle ex colonie americane dopo l’inizio della rivoluzione contro l’Inghilterra. Si trattava di costituzioni tipicamente liberali, rivolte da un lato all’affermazione dei diritti naturali e quindi inalienabili dei cittadini (la sovranità popolare, le libertà politiche e civili, la libertà religiosa, il diritto di proprietà, la ricerca del benessere), dall’altro alla limitazione dei poteri dello stato in base alla distribuzione e all’equilibrio dei poteri. Di matrice rivoluzionaria furono le costituzioni francesi. Dopo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (26 agosto 1789) – che proclamava i diritti naturali dell’individuo, la separazione dei poteri, la sovranità popolare, il diritto dei cittadini a concorrere alla formazione della legge “personalmente o per mezzo di loro rappresentanti” – si susseguirono tre costituzioni. La prima, monarchica, istituì nel 1791 la monarchia costituzionale; la seconda, repubblicana, varata nel 1793 dai giacobini e mai entrata in vigore, introdusse il suffragio universale con aperte finalità sociali; la terza fu approvata nel 1795, ispirata a criteri di moderatismo borghese, e diventò il modello delle costituzioni adottate in Italia dalle repubbliche sorte per effetto delle conquiste francesi. Dopo le costituzioni napoleoniche, che sancirono il trapasso dal liberalismo al dispotismo imperiale, tra il 1814 e il 1848 si ebbero una serie di costituzioni che inaugurarono l’era delle monarchie costituzionali. Particolarmente importante la Charte octroyée, “concessa” per l’appunto da Luigi XVIII nel 1814, che, mentre instaurava un regime parlamentare, limitava fortemente il suffragio nella Camera Bassa (laddove quella Alta era di nomina regia) e attribuiva al re il totale controllo dell’esecutivo e l’iniziativa legislativa. L’era vera e propria del costituzionalismo liberale fu inaugurata in Italia con le costituzioni del 1848. Di queste solo lo Statuto, ovvero la costituzione “concessa” da Carlo Alberto il 4 marzo 1848, ebbe un carattere duraturo, tanto da diventare nel 1861, dopo l’unificazione, la costituzione del regno d’Italia. Secondo lo Statuto al re apparteneva il potere esecutivo e il compito di organizzare l’amministrazione della giustizia. Il parlamento era formato da una Camera dei deputati elettiva e da un Senato di nomina regia. A quest’ultimo spettava un compito di eventuale moderazione nei confronti della prima. Il governo era responsabile unicamente di fronte al re. La religione cattolica era la sola religione dello stato. In conseguenza delle forti limitazioni poste ai poteri del parlamento, lo Statuto dava vita a un sistema non già parlamentare ma “costituzionale puro”. Se non che l’interpretazione che la monarchia sabauda diede del proprio ruolo fu di tipo inglese, e cioè di limitazione dei propri poteri a favore di quelli del parlamento e di rispetto della maggioranza, così inaugurandosi un regime di fatto parlamentare e liberale, che si rafforzò e allargò nel periodo successivo all’unificazione italiana. L’esito della prima guerra mondiale, con l’abbattimento dell’impero russo e di quelli centrali e l’impetuosa irruzione di grandi masse sulla scena politica, portò a una dilatazione della geografia delle repubbliche parlamentari. In Germania fu approvata nel 1919 la costituzione di Weimar, fondata su un compromesso tra i poteri del parlamento e quelli del presidente. La costituzione spagnola del 1931, come quella tedesca, si caratterizzò per essere assai avanzata sul terreno del riconoscimento dei diritti sociali. Nel 1937 l’Irlanda si diede una costituzione di ispirazione nettamente cattolica in relazione ai compiti della proprietà e al ruolo della famiglia. Nella Russia sovietica e poi nell’Unione Sovietica le costituzioni del 1918 e del 1924 introdussero una forma di potere che respingeva la separazione dei poteri, poneva quale finalità fondamentale il superamento della proprietà privata e la collettivizzazione dei mezzi di produzione, negava il diritto di voto alle classi e agli individui ostili al potere sovietico, attribuiva un maggior peso al voto degli operai rispetto a quello dei contadini, stabiliva la dittatura del proletariato sotto la guida del partito comunista, destinata a diventare tout court la dittatura di quest’ultimo. La costituzione staliniana del 1936 stabilì il suffragio universale, ma nel quadro dello stato totalitario. La costituzione del 1977 dichiarò superata la dittatura del proletariato e compiuta la trasformazione dello stato in stato di tutto il popolo; ma si trattò di un fatto puramente formale. Alle costituzioni dell’URSS si sono ispirate quelle degli altri paesi comunisti, adattandosi in relazione alle esigenze della transizione dal regime di “democrazia popolare” a quello “socialista”. Caratteristiche del tutto particolari ha avuto invece l’assetto costituzionale iugoslavo, segnato dalla combinazione tra il ruolo politico unico della Lega dei comunisti da un lato e il decentramento federale e l’autogestione delle imprese dall’altro. Un tipico esempio di costituzione teocratica è quella adottata in Iran nel 1979. Essa, che costituisce un modello per movimenti integralisti islamici, sottopone l’ordinamento giuridico all’insegnamento del Corano interpretato dall’autorità religiosa, combatte in maniera radicale l’influenza dell’Occidente e ogni forma di laicismo. Un tratto particolarmente significativo è l’esclusione delle donne dalla vita politica.

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4. La costituzione della repubblica italiana

Dopo lo Statuto albertino, che il fascismo non soppresse formalmente ma alterò completamente nella sostanza, la seconda costituzione italiana fu quella repubblicana approvata nel 1947 da un’Assemblea costituente ed entrata in vigore nel 1948. Essa istituì una repubblica unitaria e istituzioni liberali a fondamento democratico, subendo la congiunta influenza delle culture politiche del liberalismo, del cattolicesimo democratico, del socialcomunismo. Stabilite le libertà politiche e civili, vennero altresì affermati i principi della solidarietà sociale. La repubblica venne “fondata sul lavoro”. Furono affermati il “diritto al lavoro”; la tutela della proprietà nei limiti però delle superiori esigenze sociali; il diritto degli strati più deboli all’assistenza sociale. Il potere legislativo fu diviso tra la Camera dei deputati e il Senato, entrambi elettivi; il potere esecutivo fu affidato a un presidente del Consiglio, nominato dal presidente della repubblica e ai ministri. La magistratura fu resa “un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. A garanzia della costituzionalità delle leggi ordinarie fu creata una Corte costituzionale. Al presidente della repubblica, capo dello stato e da eleggersi ogni sette anni, fu affidato un compito di garanzia circa il corretto funzionamento delle istituzioni. Quale correttivo della struttura centralistica dello stato vennero introdotte, oltre ai comuni e alle province, le regioni come enti autonomi. I rapporti tra stato e chiesa furono regolati dal Concordato del 1929, inglobato nella costituzione, così continuandosi a riconoscere quella cattolica come “la sola religione dello stato”. Le confessioni non cattoliche furono considerate “egualmente libere” dinanzi alla legge, ma unicamente la chiesa cattolica, indipendente e sovrana “nel proprio ordine”, fu riconosciuta quale un ordinamento giuridico autonomo. Vietata la ricostituzione del partito fascista, i partiti al pari dei sindacati furono tenuti a darsi ordinamenti interni democratici. La costituzione ha dato vita a una repubblica parlamentare, in quanto il parlamento ha una posizione centrale, dato che a esso spetta anzitutto di dare o negare la fiducia al governo. La costituzione è “rigida”, non può cioè essere modificata mediante la legislazione ordinaria. La sua revisione è affidata alle Camere e può essere sottoposta a referendum popolare confermativo, salvo che in caso di approvazione delle leggi costituzionali da parte di ciascuna delle due Camere con la maggioranza di due terzi. A seguito di un nuovo Concordato fra stato e chiesa firmato nel 1984, la religione cattolica non è più religione dello stato. A partire soprattutto dagli anni Novanta, nel quadro delle profonde trasformazioni del sistema politico e partitico italiano, si impose progressivamente l’esigenza – condivisa dalle maggiori forze politiche presenti in parlamento e nel paese – di attivare un processo di revisione complessiva della Costituzione del 1948. A tale scopo operò, ma senza successo, un’apposita commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, i cui lavori furono interrotti nel 1998. Nei primi anni Duemila furono avanzati due diversi progetti di riforma costituzionale. Il primo, approvato da un referendum popolare ed entrato in vigore nel novembre del 2001, ebbe per oggetto l’ordinamento territoriale italiano in vista di una sua futura ristrutturazione in senso federale. In particolare, tale riforma ribaltò l’ordine di preminenza nella formazione delle leggi, attribuendo allo Stato la competenza specifica su alcune materie e lasciando alle regioni la cosiddetta competenza residuale su tutte le altre. Il secondo progetto di riforma, che prevedeva, tra le novità più importanti, l’istituzione di un Senato federale volto a rappresentare gli interessi regionali, il rafforzamento dei poteri del premier con la conseguente creazione del cosiddetto premierato e la riduzione del numero dei parlamentari, fu invece respinto da un referendum popolare tenutosi nel giugno del 2006.

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