contrattualismo, contratto

Per contratto, sin dall’epoca romana, s’intende un accordo stipulato tra due o più parti che mira a costituire un regolare rapporto, permanente o anche a termine, in materia economico-sociale, giuridica o civile. Non è escluso che si possa pervenire all’accordo privatamente. Ma, in genere, per la buona tenuta del rapporto, si pensa che sia necessario far ricorso a un tertium che rivesta, per competenza professionale e per approfondita conoscenza delle leggi vigenti, un autorevole ruolo di garante, vale a dire un notaio. Questi, istituzionalmente, si occupa del fatto che il patto sia osservato. Se infatti i contraenti non rispettano, anche solo parzialmente, l’accordo, il contratto, in assenza di un nuovo accordo, cessa di esistere. Sul piano sociale, a partire dall’età comunale, grande importanza storica hanno avuto i contratti che hanno regolato le attività artigianali, agricole, commerciali, finanziarie. Sino all’affermarsi della grande industria e ai moderni contratti collettivi di lavoro tra le organizzazioni degli imprenditori e le organizzazioni dei prestatori d’opera. La forma-contratto è poi stata utilizzata nel corso dei secoli, e in forma piena a partire dalla filosofia politica del Seicento, con il fine di chiarire in termini appunto “contrattualistici” l’origine (storica e logica) e il fondamento (antropologico e giuridico) dell’autorità politica. Alcuni presupposti di carattere storico rendono plausibile e comprensibile il passaggio della forma-contratto dal dominio privato, dove naturalmente continua a sussistere, al dominio pubblico, dove dilaga. Questi presupposti hanno a che fare con l’affermarsi dell’individuo come soggetto progressivamente indipendente della vita commerciale, produttiva, giuridica e inevitabilmente anche politica. All’individuo è del resto connessa l’idea di libertà e di mobilità. Un’idea che è rafforzata dalle scoperte geografiche, dalla accresciuta rapidità dei trasporti, dalla rivoluzione dei prezzi, dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche, dalla Riforma protestante e dall’autonomizzarsi della coscienza religiosa. Da queste ultime deriva, tuttavia, anche una lunga e sanguinosa scia di guerre di religione. Tra il Cinquecento e il Seicento si ha dunque un periodo in cui si sviluppano l’individuo moderno, l’economia moderna (che su tale individuo si fonda), la percezione dei rapporti tra gli stati come un conflittuale sistema-mondo, e infine la guerra civile moderna a sfondo religioso e politico, destinata a diventare, con la guerra dei Trent’anni (1618-48), contemporanea alla rivoluzione inglese, una vera e propria guerra civile europea. Dal prolungato disordine sorge anche l’esigenza di costruire una sovranità organizzata con regole certe e accettate, il che è all’origine dello stato moderno e della sua polimorfa e assai più solida fisionomia: territorio, popolazione, confini, poteri politici e giudiziari, forme di rappresentanza, monopolio legittimo della forza, esercito, fisco, moneta, finanza pubblica. Il contrattualismo è però collegato, sul terreno concettuale, con il giusnaturalismo. Si trasforma infatti, innanzitutto, la concezione che si ha dei diritti di natura. Da insieme di caratteristiche che si limitano a descrivere la naturale socievolezza dell’uomo (un dono di origine divina), diventano veri e propri diritti di libertà. Nella Politica methodica (1603) del giurista tedesco Johannes Althusius si sostiene, su basi giusnaturalistiche, che il potere è di fatto delegato dal popolo ai governanti. Nel De jure belli ac pacis (1625) del giurista olandese Ugo Grozio il diritto viene emancipato dalla teologia e viene ricondotto alla naturale propensione dell’uomo a vivere, e convivere, in una società il più possibile ordinata e pacifica. E qui si colloca il fecondo paradosso del giusnaturalismo moderno. Con il diritto di natura si tende a giustificare la creazione di una società che naturale non è, ma che è umana e solo umana e quindi di fatto artificiale e generatrice di diritto positivo: frutto cioè di un patto, o anche di un contratto, non più, o non solo, tra l’uomo e Dio, come nelle Scritture, ma tra l’uomo e l’uomo. Il diritto di natura contiene infatti in nuce la possibilità che l’uomo stesso, per vivere in società, possa uscire dalla natura. È lo scienziato e filosofo inglese Thomas Hobbes, autore del De Cive (1642) e del Leviatano (1651), a effettuare esplicitamente questo passo ulteriore. Dall’osservazione di guerre di religione, guerre civili, rivoluzioni, grandi ribellioni e restaurazioni, numerose nel corso del suo tempo, egli deduce che la natura umana non è affatto socievole. Lo stato di natura è sopraffazione e conflitto permanente. A rischio, in presenza di una libertà individuale che degenera naturaliter in anarchia asociale, è la possibilità di costituire una societas civilis. A rischio è quindi la stessa vita umana. Per uscire dalla condizione ferina (status naturae) e per diventare veramente umano l’uomo non può che privarsi dei diritti naturali stessi, alienandoli a un tertium, lo stato, che sia in grado di tutelare la pace, l’ordine e quindi la sopravvivenza materiale, e simbolico-culturale (religione, scienze, arti), della specie umana. Lo stato, in questa prospettiva, si trasforma proprio nel potere assoluto della specie sull’individuo che la minaccia. Gli individui stipulano cioè un contratto, si emancipano da se stessi e si affidano a una macchina artificiale che rappresenta la specie e che ha su di loro, con il loro consenso, un potere appunto assoluto. Possono farlo perché sono dotati della capacità di calcolo e di previsione. La loro scelta contrattualistica è quindi una scelta d’ordine utilitaristico. Meglio sudditi – questa è la logica del contratto – che vittime della guerra di tutti contro tutti. L’assolutismo di Hobbes, dunque, non è consustanziale a una società “organica” in cui non est potestas nisi a Deo. È l’esito della libera e razionale scelta degli individui, i quali, in seguito al contratto, obbediscono non più alle autodistruttive e istintuali leggi di natura, ma alle civili leggi positive. Ed è attraverso il contrattualismo-assolutismo che si apre un varco concettualmente significativo verso la sovranità popolare e la democrazia. Il primo, e per lungo tempo l’unico, a insinuarvisi, è il filosofo ebreo olandese Baruch Spinoza. Nel Tractatus theologico-politicus (1670) si sostiene infatti che con il contratto sarà in realtà la società stessa, una volta liberatasi da paure e superstizioni, e non un tertium, ad avere il sommo potere. E che cos’è il diritto che gli individui avranno alienato alla società? “Talis vero societatis jus Democratia vocatur”, risponde Spinoza. Il diritto degli individui, una volta trasferito alla società, è cioè la democrazia. È questa, d’altra parte, la prima volta, nella filosofia politica, che la parola “democrazia” compare al di fuori della classica tripartizione delle forme di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia). I tempi poi mutano, tra equilibrio di Vestfalia (1648) e Glorious Revolution britannica (1688). Si fanno più pacifici. E l’antropologia pessimistica di Hobbes, condivisa anche da Spinoza, si trasforma, alla fine del Seicento, nell’antropologia tendenzialmente ottimistica del filosofo inglese John Locke. Questi ritiene infatti il contratto necessario non per sopravvivere – giacché la natura già tutela vita, libertà e proprietà – ma per fissare i limiti che il potere dello stato deve avere. Il contratto di Hobbes è dunque indispensabile per costruire uno stato che difenda tutti dall’anarchismo naturalistico dell’individuo. Il contratto di Locke è invece auspicabile per difendere dall’invadenza dello stato l’iniziativa dell’operoso e tendenzialmente pacifico individuo della moderna società civile. È nato anche il liberalismo. Tutte le voci della politica moderna ruotano così intorno al contratto: l’assolutismo, la democrazia in fieri, il liberalismo. Il punto d’arrivo di questa riflessione è rappresentato dal Contratto sociale (1762) di Jean-Jacques Rousseau. L’antropologia vi viene rovesciata sul piano assiologico. L’uomo è infatti buono in natura. S’incattivisce e diventa egoista in civiltà. Il contratto si rivela allora necessario per contrastare gli interessi particolaristici che la civiltà ha consolidato e per fondare un’autorità politica che sia in grado, armonizzando ciascun cittadino con la volontà generale, di perseguire il bene comune. E se per Hobbes, quindi, con il contratto si diventa sudditi obbedienti, per Rousseau si diventa cittadini attivi e in un certo senso anche militanti della cosa pubblica. Siamo alla vigilia della Rivoluzione francese e si conclude, declinate ormai le forme della politica moderna, la parabola classica del contrattualismo, cui tuttavia si torna nel Novecento a far ricorso, ad esempio con Una teoria della giustizia (1971) di John Rawls, quando l’utilitarismo economicistico sembra potere erodere le basi comuni della convivenza. Con il contratto, strumento peraltro “realistico” e a sua volta sorto sotto il segno dell’“utile”, si è creduto infatti di rintracciare gli anticorpi atti a tenere sotto controllo la sempre possibile deriva sia verso l’individualismo assoluto (mercato selvaggio) sia verso lo stato assoluto (dispotismo politico). [Bruno Bongiovanni ]