confucianesimo

Termine utilizzato dagli occidentali per indicare quel complesso di teorie filosofiche, etiche e politiche della Cina imperiale più propriamente note come rujiao o rujia, cioè “dottrina” o “scuola dei letterati”. Confucio (551-479 a.C.), riconosciuto fondatore della scuola, in realtà non si considerò mai creatore di un pensiero originale, ma soltanto difensore e divulgatore di una tradizione più antica, precedente cioè la crisi politica e sociale che attraversò la Cina in tarda epoca Zhou (nel periodo detto delle “Primavere ed Autunni” 740-454 a.C.). A Confucio e alla sua scuola è riconosciuto il merito di aver fissato il canone della tradizione (cinque classici, jing, e quattro libri, shu), da cui mosse la speculazione filosofica al tempo della dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.), quando il confucianesimo divenne la dottrina ufficiale dell’impero, su cui si sarebbe formata per secoli la classe intellettuale del paese. Da quel momento fu edificato un complesso sistema etico-politico in sé omogeneo, finalizzato alla legittimazione del potere imperiale. Con la dinastia Han venne messa a punto la macchina di selezione e reclutamento della futura classe dirigente dell’impero (mandarini), attraverso un complesso sistema di pubblici esami a cui un candidato poteva accedere in base al censo, all’importanza della famiglia o su raccomandazione di una o più persone influenti. Non dobbiamo altresì lasciarci fuorviare dalla scolastica confuciana. Esiste infatti, prima e a fianco della sua cristallizzazione ideologica, una realtà del confucianesimo che si presenta in tutta la sua complessa ricchezza speculativa e che ci permette di ricostruire la storia della filosofia cinese. Per Confucio il processo di civilizzazione che rese la terra abitabile per l’uomo fu l’opera sapiente dei grandi sovrani legislatori dell’antichità. Compito di ogni monarca era dunque di informare la propria azione a quegli antichi modelli, per mantenere la pace nel regno, quale garanzia di un ordine non soltanto politico, ma cosmico. Il Tianzi, l’imperatore, governava con l’esempio della propria condotta virtuosa e non con la legge, uniformandosi al mandato del Cielo (Tian ming). Ma il mandato del Cielo si chiama Natura, e questa Natura è la natura dell’uomo (xing), che si realizza praticando la Via (Dao) che è scritta nel cuore dell’uomo. Al centro (zhong) dell’uomo sta l’immutabile Dao del Cielo. Ritornare a quel centro è in definitiva, per Confucio, la via dell’uomo. Tutta l’etica confuciana si sviluppa a partire dalla virtù ren (umanità, benevolenza, socievolezza) e se non dimentichiamo che il termine virtù (de), nell’antica lingua cinese, indicava una potenza propria di un oggetto o di una persona, è facile capire come le qualità morali siano per il confucianesimo l’espressione dello stesso ordine cosmico. L’uomo, realizzandosi come uomo di ren, aderisce incondizionatamente al mandato del Cielo, permanendo nella verità. Ren è ad un tempo la vera natura dell’uomo e la virtù suprema, da cui discende ogni altra norma morale. L’uomo moralmente realizzato è soltanto colui che rende manifesta la propria fedeltà al comando del Cielo, praticando il Li (norma morale, rito). Li è il termine con cui la scuola dei letterati indica l’insieme delle tradizioni, delle istituzioni sociali, delle norme consuetudinarie eticamente fondate. Li è principio sacrale, norma del Cielo, condotta per l’uomo, manifestazione della virtù ren. Il Li si formalizza nel rispetto dei cinque rapporti sociali fondamentali: tra padre e figlio, tra fratelli, tra marito e moglie, tra sovrano e suddito, tra amici. Xiao, la pietà filiale, è la virtù morale che alimenta l’ethos sociale e garantisce l’armonia nell’impero. Per il confucianesimo è indispensabile operare la “rettifica dei nomi” (zheng ming), al fine di ridare ai nomi il loro originario valore esplicativo, ristabilendo così le funzioni che sono proprie di ogni ruolo sociale rettamente inteso. Ma l’uomo può seguire il Dao, praticare la virtù, diventare uomo di ren, perché è per natura orientato al bene. Fu Mencio (370-290 a.C.) a esporre per la prima volta la teoria della natura umana che Confucio aveva solo implicitamente presupposto. Per Mencio l’uomo è necessitato a fare il bene per un incoercibile impulso naturale. In questo modo, tuttavia, la corrente menciana del confucianesimo non è in grado di fornire una spiegazione convincente del male nel mondo. Il male è ricondotto alla categoria dell’imperfetto o spiegato come prodotto dell’ignoranza. Secondo Xunzi (310-230 a.C.) l’aporia non è superabile se non rinunciando al postulato menciano dell’innata bontà dell’uomo. Respinte le tesi di Mencio, Xunzi sostenne che tutto ciò che di buono si può ritrovare nell’uomo è frutto di un faticoso apprendistato. La natura umana è cattiva e non può garantire di per sé alcun ordine sociale; la virtù non dimora per natura nel cuore dell’uomo. Dunque la natura, in Xunzi, non è più percepita come fondamento della morale e il bene è inteso come il frutto di un lungo e difficile processo di acculturazione. L’uomo guidato dalla propria intelligenza cerca ciò che si deve, lasciato ai propri istinti naturali insegue insensati obiettivi egoistici. Il processo di civilizzazione libera l’uomo dalla paura e dall’indigenza, fornendogli quel complesso di regole e di leggi che è garanzia contro il disordine. Il sovrano per Xunzi, non è più mediatore esemplare tra due ordini, ma costruttore non garantito di quella mediazione. Il Li appartiene alla sfera della cultura, costituisce l’eredità storica degli antenati, finalizzata alla soluzione dei conflitti derivanti dalla stato di natura. Perciò la “rettifica dei nomi” diventa un processo di razionalizzazione dei ruoli, e non più un ritorno a modelli ideali e naturali. Xunzi fu maestro di Han Feizi (morto nel 233 a.C.), filosofo di scuola legista. Una soluzione mediana tra Mencio e Xunzi fu tentata dal filosofo Dong Zhongshu (179-104 a.C.), che fu anche il principale artefice della rinascita confuciana e l’ideologo del nuovo impero Han. La natura umana possiede solo in potenza la bontà, che è resa manifesta grazie all’educazione e alla guida del sovrano. Il sovrano, quale figlio del Cielo, riceve da questo il mandato di guidare gli uomini al Bene e di trasmettere loro la volontà del Cielo. L’imperatore è anche sommo sacerdote incaricato di rendere culto al Cielo quale rappresentante di tutti gli uomini. Nel XII secolo, in epoca Song (960-1279), il pensiero confuciano si rinnovò profondamente, anche sotto la spinta della sfida del buddhismo. Zhuxi (1130-1200) è considerato l’artefice principale di questo rinnovamento. A lui si deve l’elaborazione di una poderosa sintesi dottrinale (il “neoconfucianesimo”), che in epoca Ming (1368-1644) divenne l’unica interpretazione ufficialmente accreditata della grande tradizione classica, oggetto di studio per tutti coloro che volevano diventare mandarini. Zhuxi propose una soluzione metafisica dell’antica aporia tra ordine naturale e morale, sostenendo che l’intera struttura dell’universo può essere compresa come il composto di due principi tra loro inseparabili, ma distinti: il li, principio formale o modello razionale di organizzazione, e il qi, energia, o principio materiale. L’insieme di tutti i li particolari corrisponde al Dai Ji (realtà ultima, norma suprema) che è ad un tempo principio di natura e legge morale, principio regolatore dell’universo e ultima meta a cui tutti tendiamo. Contro il presunto dualismo di Zhuxi si mosse Wang Shouren, noto anche con il nome di Yangming (1472-1529), per il quale tutto deve essere invece ricondotto a un unico principio razionale, che egli identifica con la mente (xin), rivendicando l’identità tra mondo fisico e mentale e l’unità tra conoscenza e azione. Se la mente è il principio, ogni uomo ha in se stesso la chiave di accesso alla conoscenza e alla realizzazione del bene. Ogni uomo è potenzialmente il sovrano di se stesso. Al tempo dell’ultima dinastia mancese dei Qing (1644-1911) i filosofi, reagendo allo strapotere della scuola Song, ritenuta troppo influenzata dal buddhismo e dal taoismo, ritornarono inizialmente alla lezione degli studiosi della dinastia Han. La controversia tra i sostenitori delle due diverse scuole fece fare notevoli progressi alla critica storica e filologica dei testi antichi. Dalla seconda metà del XIX secolo la scuola confuciana, sfidata dalle potenze europee, intraprese una radicale revisione critica del proprio passato, per opporsi alla penetrazione culturale dell’Occidente. La revisione riguardò primariamente la filosofia politica della tradizione confuciana e diede vita a una non effimera corrente riformatrice. Kang Youwei (1858-1927) può essere ritenuto l’ispiratore e la guida più autorevole, insieme a Tang Sitong (1865-98), della nuova tendenza modernizzatrice del jinwen (testo nuovo). Con il crollo del sistema imperiale (1911) anche il confucianesimo venne violentemente criticato dai giovani intellettuali radicali, perché ritenuto di ostacolo al processo di modernizzazione della nuova repubblica cinese. Il movimento del 4 maggio del 1919 si fece promotore di una vasta campagna anticonfuciana, e intellettuali come Chen Duxiu (1879-1942), Li Dazhao (1889-1927), Lu Xun (1881-1936), Hu Shi (1891-1962), presero definitivamente congedo dal confucianesimo, facendosi sostenitori del progresso scientifico, della democrazia e del liberalismo. Hu Shi divenne allievo di John Dewey negli Stati Uniti; Chen Duxiu e Li Dazhao furono tra i primi divulgatori del pensiero socialista; Lu Xun si fece promotore della rivoluzione letteraria. Eppure il confucianesimo non è morto, e la sua lezione è ancora rintracciabile nelle argomentazioni degli stessi intellettuali rivoluzionari, nella loro concezione etica del socialismo, nel loro modo di intendere la libertà dell’individuo, nelle loro utopiche costruzioni di modelli di benessere e di armonia universale. Lo stesso movimento per la “vita nuova” con cui Jiang Jieshi (Chiang Kai-shek), tentò un rilancio del confucianesimo, durante il periodo del governo di Nanchino (1927-37), non deve essere interpretato come mero espediente politico. Per il Guomindang e per la repubblica di Taipei (Taiwan) il confucianesimo rimane ancora oggi la dottrina a cui ispirarsi e un elemento caratterizzante dell’intera civiltà cinese. Nella Repubblica popolare, al contrario, dopo il 1949, le teorie filosofiche e politiche della scuola dei letterati furono aspramente criticate e violentemente combattute, con l’accusa di aver legittimato un passato di sfruttamento e di ingiustizia e di costituire ancora lo strumento ideologico delle classi conservatrici. Dal movimento per l’educazione socialista precedente la Rivoluzione Culturale del 1966-69, alla violentissima campagna contro Lin Piao e Confucio degli anni 1972-73, nessun altro paese ha sottoposto la propria tradizione culturale a un’azione demolitrice tanto vasta e profonda. Ancora oggi, la Cina post-maoista non riesce a fare i conti in modo pacato con la propria eredità culturale. Soltanto in questi ultimi anni è stato consentito agli studiosi cinesi di riavvicinarsi ai grandi maestri del passato senza dover temere ritorsioni da parte del potere politico e senza dover dare prova di ortodossia di fronte a qualche superiore autorità dottrinale. [Federico Avanzini]