comuni

Con il termine “comune” si intende nel linguaggio storiografico la specifica forma di organizzazione politica assunta dalle autonomie cittadine a partire dalla fine del secolo XI.

  1. La genesi
  2. L’evoluzione degli ordinamenti comunali
1. La genesi

La questione delle origini comunali è stata affrontata negli ultimi decenni secondo prospettive che considerano il caso italiano in un contesto molto ampio. Un punto di partenza è ora largamente condiviso: il movimento comunale, considerato nei suoi aspetti di fondo, fu un fenomeno di dimensione europea. Esso consistette in un’acquisizione generalizzata di capacità di autogoverno da parte delle comunità urbane nel basso medioevo, ed ebbe come presupposto lo sviluppo demografico ed economico che investì il continente a partire dal secolo XI. Sotto il profilo politico il movimento comunale si collocò perciò all’interno di un fenomeno di ordine assai più vasto, quello della crescita generale di poteri su base locale che contrassegnò l’Europa postcarolingia. La constatazione implica una conseguenza importante, e cioè che il terreno su cui si formarono ovunque in Europa le autonomie cittadine è il medesimo terreno su cui si formarono per altro verso i poteri signorili: la disgregazione delle strutture di inquadramento assicurate dall’impero costruito dai franchi. Ciò viene spesso sintetizzato, a proposito dell’Italia, nella formula del comune come “signore collettivo”, che vuole indicare l’omogeneità di fondo che lega le autonomie cittadine ai poteri dei signori rurali. Ciò posto, bisogna però riconoscere le grandi specificità dello sviluppo comunale italiano, che prese le mosse negli ultimi decenni del secolo XI nel centro e nel nord della penisola (il riferimento cronologico è solo indicativo, e corrisponde alle prime attestazioni documentate: Pisa e Lucca ca. 1085, Asti 1095, Milano 1097, Arezzo 1098, Genova 1099). Possiamo analizzare tali specificità almeno su due piani. Il primo è quello della composizione sociale. Se oltralpe possiamo parlare di una generica coloritura borghese, i gruppi che in Italia diedero vita all’autogoverno non sono definibili in modo univoco. La coniuratio, il giuramento comune che pose le basi dell’emancipazione dei cittadini dal potere vescovile, riunì in un medesimo progetto di autonomia componenti diverse: uomini della guerra, cioè aristocratici di tradizione militare, spesso appartenenti alla clientela vassallatica vescovile ma non di rado residenti in città pur continuando a mantenere nel contado castelli e diritti signorili; uomini del denaro (mercanti, cambiatori, monetieri), ai quali la ripresa economica del secolo XI aveva fornito un peso sociale rilevante; uomini del diritto e della parola: notai, giudici, esperti di leggi, tutti detentori di una competenza giuridico-retorica che ne faceva i padroni dei circuiti della comunicazione orale e scritta. Tali ceti, di cultura e provenienza diverse, trassero l’esperienza necessaria per la conduzione del governo dalla loro precedente collaborazione con le curie vescovili. Qui essi acquisirono le competenze indispensabili per la gestione di comunità complesse e raggiunsero una maturità politica che permise loro di liberarsi, in seguito, dalla stessa tutela del vescovo. Il secondo piano riguarda il rapporto della città con il territorio. Fin dall’inizio il comune italiano si proiettò nel contado alla costruzione di un suo spazio rurale, differenziandosi in ciò radicalmente da quanto avvenne nel resto d’Europa. Tre furono le ragioni determinanti. Innanzitutto la città italiana, ereditando in ciò la tradizione della civitas romana, si pose sempre come polo di gravitazione di uno spazio più ampio. Convergevano su di essa funzioni di vario genere (amministrative, commerciali, religiose, militari e di difesa) che sancivano la sua preminenza e ne facevano il punto di coordinamento dello spazio circostante. In secondo luogo, la città vescovile precomunale aveva già posto le premesse per un’espansione, perché il vescovo esercitava all’intorno, al di là della sua già rilevante presenza nelle strutture del possesso fondiario, una precisa egemonia territoriale di tipo signorile. Infine, il comune si espanse, subentrando alle presenze vescovili e ulteriormente incrementandole, perché aveva in sé le forze per farlo. Occorreva la potenza militare, che fu assicurata dagli aristocratici, gli uomini della guerra che parteciparono alla formazione dell’ente comunale. Occorreva denaro, perché spesso l’accrescimento territoriale si svolse pacificamente con acquisto di terre e di diritti da signori e da enti ecclesiastici: la disponibilità economica fu assicurata dalla componente mercantile-commerciale, che considerò conveniente l’investimento di capitali nel contado perché garantito dalla forza politica del comune. E occorreva infine costruire un diritto, legittimare il fatto compiuto, mettere per iscritto i rapporti che la città intratteneva con comunità, signori ed enti del contado: furono giudici, notai e intellettuali a svolgere questa funzione, innescando un processo di documentazione, destinato a divenire imponente nella seconda metà del Duecento, che fa della civiltà comunale italiana il trionfo della parola scritta.

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2. L’evoluzione degli ordinamenti comunali

Il cosiddetto “comune consolare” durò fino alla fine del secolo XII. La sua struttura istituzionale era almeno relativamente semplice. Il governo cittadino era assicurato, oltre che dall’assemblea generale della cittadinanza (i cui poteri effettivi non sono chiari), da gruppi di consoli, continuamente rinnovati, appartenenti per lo più alle aristocrazie già legate al vescovo. Una trasformazione determinante si produsse fra il XII e il XIII secolo, quando prese forma un sistema istituzionale di maggiore complessità – il “comune podestarile” – imperniato sulla figura di un podestà, politico professionale e itinerante chiamato di anno in anno a svolgere la sua funzione in città diverse e ricompensato per questo. Almeno tre fattori concorsero a determinare tale trasformazione. Da un lato si impose la necessità di una figura che fosse in grado di ricomporre sul piano politico le diverse competenze tecniche presenti nell’amministrazione, ciò che si poteva ottenere solo con l’esperienza e con un impegno totale, di tipo professionale. D’altro canto, il cambiamento al vertice fu solo l’aspetto più visibile di una ristrutturazione complessiva dell’apparato comunale, che venne ora articolandosi in consigli maggiori e minori, commissioni e uffici con compiti determinati: insomma, in un sistema di governo del quale l’istituzione del podestà fu il fulcro e il centro di coordinamento. Infine, la soluzione podestarile – alla quale si giunse peraltro in modo non lineare, per successivi tentativi – contribuì ad affrancare in parte la dimensione politica dall’influenza dei gruppi aristocratici, e rispose anche alla crescita dentro la città di forze di estrazione sociale non nobiliare. Questo dato, tuttavia, non deve essere interpretato in senso rigido. Il comune podestarile, nella prima metà del Duecento, era ancora un comune a netta prevalenza aristocratica, nel quale le famiglie che avevano governato in età consolare subirono tutt’al più un processo di parziale selezione e ricambio. Ed è noto che anche le principali famiglie che alimentarono il grande circuito dei podestà itineranti furono per lo più di ascendenza aristocratica (per esempio i milanesi Pusterla, Pirovano, Pietrasanta, i bolognesi Andalò e Lambertini, i modenesi Rangoni). Intorno agli anni Settanta del secolo XIII, invece, l’emergere di nuovi ceti giunse a incidere sulle istituzioni. Prese allora a operare ovunque, di fronte al podestà e come sua replica con segno politico invertito, un “capitano del popolo”. Per comprendere le ragioni lontane del suo avvento occorre guardare a una storia minore che si svolse nei quartieri e nei rioni fra una torre, una chiesa e una piazza. Nelle contrade urbane si era andata organizzando durante la prima metà del secolo una rete di società territoriali armate che riunivano quanti, nell’esercito comunale, prestavano servizio come fanti (pedites). Esse fornivano sedi organizzative alla componente mercantile e artigiana della popolazione. Fu dunque spontaneo il loro progressivo trasformarsi in uno strumento di pressione politica nei confronti del governo podestarile. Ciò avvenne esplicitamente a metà secolo, quando in ogni città le società d’armi si federarono in una sorta di partito di scala cittadina, la società del “popolo” o, come più spesso si dice, il “popolo”, che riuscì a imporre successivamente, attraverso l’istituzione del capitano, una deformazione in senso dualistico e policentrico della costituzione comunale. Il movimento di “popolo” in questa prima fase ebbe dunque una base territoriale e diede voce a ceti privi fino ad allora di un’adeguata rappresentanza politica. Solo quando si giunse alla formazione di società popolari unitarie lo schieramento poté talvolta rifondarsi su base corporativa, abbandonando l’originaria struttura territoriale. Ma non fu un percorso obbligato, perché non mancarono esempi di forti movimenti di “popolo” in assenza di significativi raggruppamenti di mestiere. I regimi di “popolo” intrapresero una razionalizzazione a tappe forzate dell’apparato di governo, promuovendo tra l’altro la riforma dei sistemi fiscali e finanziari, un’organica legislazione di disciplina sociale, un uso sistematico della documentazione scritta corrente (si è parlato talvolta di una “rivoluzione documentaria” popolare). Ma lo svecchiamento urtò contro le resistenze del tradizionale ceto politico aristocratico. Il problema fu affrontato dal “popolo” con energia negli ultimi due decenni del secolo, attraverso corpi di leggi che colpivano duramente i diritti politici dei Magnati o Grandi (gli aristocratici di tradizione militare e le famiglie più recenti che ne avevano assunto lo stile di vita cavalleresco). Fu un complesso normativo capillarmente diffuso, i cui esempi più organici furono gli Ordinamenti sacrati di Bologna (1282) e gli Ordinamenti di giustizia fiorentini (1293). La legislazione antimagnatizia segnò il punto di maggiore forza del comune popolare; ma ne indicava anche, in certo modo, i possibili fattori di crisi. Il senso profondo dell’esperienza popolare era consistito nel tentativo di governare lo sviluppo della società mantenendo un funzionamento aperto delle istituzioni. La crisi di fine secolo, sacrificando la libertà del gioco politico all’esigenza di ordine e di pacificazione, rese evidenti tutte le difficoltà di questo progetto. Si aprì così la via alla dissoluzione stessa dell’esperienza comunale. Se il compito della politica doveva essere ora quello di subordinare alla pace e all’ordine ogni altro ideale, l’esigenza poteva essere meglio raccolta fuoriuscendo apertamente da un sistema istituzionale policentrico attraverso governi personali o involuzioni oligarchiche, favorite peraltro dalla formazione negli anni del “popolo” di nuove élites ai vertici comunali. Fu quanto accadde ovunque con la signoria cittadina del secolo XIV o con forme di governo criptosignorili a egemonia patrizia. [Enrico Artifoni]

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