codificazione

  1. Premessa
  2. La codificazione tra XIX e XX secolo
1. Premessa

Letteralmente, e in prima approssimazione, il termine richiama l’attenzione sull’attività compilativa – diffusa a partire dall’antichità romana – del codificare, ossia del raccogliere in forma di codice unico insiemi complessi di normative (si vedano in questo senso i vari codici romani dal gregoriano al teodosiano fino al giustinaneo, e poi le raccolte barbarico-medievali, che si limitavano a collezionare costituzioni imperiali, o mescolanze di giurisprudenza romanico-barbarica di norme formalizzate e di consuetudine). Nell’età moderna la nozione ha tuttavia assunto un significato peculiare, trasmesso soprattutto dall’esperienza politico-giuridica postilluminista e della Rivoluzione francese. Da qui l’accezione contemporanea del termine che deriva appunto dal francese codification (pur essendo stato proposto in senso analogo dall’inglese J. Bentham). Con questo significato la codificazione rimanda a un’attività razionalizzatrice e sistematizzatrice nel merito delle norme per settori omogenei del diritto, con lo scopo di produrre testi legislativi completi, facilmente accessibili e certi (eliminando così l’eccessiva discrezionalità interpretativa dei giudici), in grado di sostituire la farragine legislativa precedente. In realtà, agli albori dell’età moderna, in Francia, Inghilterra, Spagna e Germania si era già tentato – sulla scorta di correnti di pensiero giuridico giusnaturalista – di procedere a codificazioni coerenti nei settori del diritto amministrativo, civile, penale, commerciale. Tuttavia mancò sempre, prima della Rivoluzione francese, un’autorità capace di imporre energicamente le condizioni necessarie e sufficienti alla realizzazione completa e all’affermazione forte del rispetto delle norme contenute nei codici, riassumibili nel principio dell’eguaglianza di fronte alla legge.

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2. La codificazione tra XIX e XX secolo

Già nei primi anni della Rivoluzione furono intraprese iniziative per la codificazione civile, penale, di procedura civile e penale, commerciale. Dopo una serie di prove non portate a termine o inapplicate, si arrivò nel periodo napoleonico alla definizione del Codice civile (1804), denominato nel 1807 Codice napoleonico. Questo costituì il modello per l’elaborazione degli altri codici napoleonici – di procedura civile (1807), di commercio (1808), penale (1810) e di procedura penale (1811) – e, più o meno negli stessi anni, per le attività codificatorie degli altri paesi caduti sotto l’egemonia francese, in particolare per l’Italia e le aree francofone (vi furono resistenze all’adeguamento nei paesi di lingua tedesca, come l’Austria e altri stati, che, date le precedenti tradizioni giuridico-amministrative proseguirono per molto tempo nella produzione di strumenti giuridici metodologicamente distanti dall’impostazione qui presentata). La ragione della fortuna del modello francese non dipese soltanto dall’imposizione napoleonica, bensì dalla sua semplicità e praticità, pur nel rispetto dell’organicità della trattazione della materia giuridica. Inoltre, in esso venivano recepiti nella sostanza principi giuridico-sociali di tipo liberale e costituzionale ormai fatti propri dalla cultura europea più avanzata del tempo. Dopo la Restaurazione vi fu una fase, anche in Italia, nella quale tali codici furono aboliti. Tuttavia ben presto si fece strada in Francia, Belgio e nei principali stati italiani la convinzione che fosse necessario rifarsi alla codificazione di stile napoleonico, pur nel mantenimento di peculiarità differenti, come nel caso del diritto di famiglia e di successione. Fu decisivo nella storia italiana il codice civile sabaudo, detto “albertino” perché emanato nel 1842 da Carlo Alberto (a esso fecero gradualmente seguito altri codici, ultimo dei quali fu il codice di procedura civile promulgato da Vittorio Emanuele II nel 1854). Dopo la proclamazione del Regno d’Italia (1861) fu avviata una nuova stagione codificatoria destinata ad armonizzare unitariamente le differenti codificazioni italiche, cosa che fu fatta rapidamente soprattutto sulla scorta del modello sabaudo. I nuovi codici (civile e procedura civile, commerciale, marittimo) dell’Italia unita entrarono in vigore nel 1866. Seguirono più tardi quello penale e di procedura penale. Tuttavia tali codici, frutto dell’esigenza di dare un quadro di riferimento giuridico al paese, furono a più riprese modificati nei decenni successivi. I codici penale e di procedura penale furono variati e riapprovati sotto il regime fascista per l’azione del ministro A. Rocco nel 1930, entrando in vigore nel 1931 (lo stesso avvenne nel medesimo lasso di tempo per il codice delle leggi provinciali e comunali, riformato solo nel 1990). In epoca repubblicana sono stati messi a punto diversi progetti di modifica per la legislazione penale e si è pervenuti alla definitiva codificazione nel 1989. Il codice civile trovò nell’edizione del 1942 (che incorporò il codice di commercio) una stabile formulazione, e così anche il codice di procedura civile, nonostante le molte parziali riforme messe a segno negli ultimi decenni soprattutto in materia di diritto di famiglia (1975), del lavoro e in altri campi strettamente legati all’evoluzione politico-sociale. Il diritto internazionale, infine, si presenta come un terreno nuovo e promettente per la codificazione nel Novecento, soprattutto nel secondo dopoguerra per impulso dell’ONU.

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