Cina

Stato attuale dell’Asia orientale.

  1. Un insediamento umano precoce
  2. Il potere feudale dei Zhou: si delinea un’identità
  3. La formazione di centri differenziati
  4. Un pensiero articolato e vitale
  5. Lo “Stato del Centro” diventa impero
  6. Gli Han e l’effettiva unificazione dei cinesi
  7. Dallo smembramento allo splendore dei Tang
  8. La grande prosperità della Cina dei Song
  9. La catastrofe del dominio mongolo
  10. Le contraddizioni della potente Cina dei Ming
  11. Il più grande impero del mondo
  12. Il commercio dell’oppio apre l’attacco straniero
  13. La crisi del secolare equilibrio sociale
  14. I falliti tentativi di riforma
  15. La scelta rivoluzionaria e modernizzatrice
  16. L’involuzione reazionaria e la rivoluzione intellettuale
  17. Dall’alleanza rivoluzionaria al decennio di Nanchino
  18. Mao Zedong e la lotta di classe armata nelle campagne
  19. L’invasione giapponese e la resistenza
  20. Il rapido crollo del Guomindang
  21. La Cina di Mao e le sue basi sociali
  22. Dalle riforme di Deng Xiaoping all'inizio degli anni Duemila
  23. TABELLA: Dinastie e imperatori cinesi (1127-1911)
  24. TABELLA: Capi di Stato (1949-2011)
1. Un insediamento umano precoce

Il vasto territorio della Repubblica popolare cinese comprende nella sua parte centro-orientale aree assai favorevoli all’insediamento umano e a un’elevata produzione agricola. La valle dello Huang He (fiume Giallo) presentò pochi ostacoli all’insediamento di gruppi umani anche estremamente primitivi, come quelli dell’“uomo di Pechino”, vissuto 400.000 anni fa. Attorno al III millennio a.C., nelle regioni centromeridionali si moltiplicarono più progrediti nuclei neolitici di uomini dediti all’agricoltura stabile e all’allevamento, capaci di costruire abitazioni, strumenti di lavoro e ceramiche di elevato livello artistico. Pur agendo per gruppi separati, tali nuclei compirono un’esperienza di trasformazione del territorio che generò un patrimonio di leggende popolate da personificazioni simboliche di sovrani saggi, pronti a garantire prosperità, pace e un giusto ordine sociale. I valori espressi da questa tradizione senza tempo rimasero alla base della successiva cultura politica e dell’identità comune dei cinesi. La storia della Cina (“stato del Centro”) inizia probabilmente con la dinastia Shang, sviluppatasi nella valle dello Huang He tra il XVII e l’XI secolo a.C. Con essa si formò una società di agricoltori stanziali sparsi in nuclei tra loro separati, che riconoscevano la supremazia di un sovrano-sciamano dotato di poteri soprannaturali e legittimato da un culto a forti componenti magiche, destinato a sopravvivere nel ruolo di “conciliatore del Cielo e della Terra” attribuito poi a tutti gli imperatori. Oltre che per la cultura magica, la dinastia Shang entra nel corso essenziale della storia cinese per aver elaborato la tecnica di espressione della parola scritta in caratteri indipendenti dal suono e quindi dalle differenze regionali. La scrittura in caratteri rimase un elemento determinante dell’identità cinese, in quanto permise di trasmettere informazioni in aree che parlavano lingue diverse e di mantenere la memoria storica su lunghi periodi, contribuendo così in modo decisivo a creare l’unità della Cina e alla sua costante capacità di attrarre e assimilare gli “altri”.

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2. Il potere feudale dei Zhou: si delinea un’identità

I governanti Shang, che godevano di incommensurabili privilegi rispetto ai coltivatori ed erano “corrotti e dissoluti”, furono sconfitti – la data tradizionale è il 1027 a.C. – da tribù guerriere “efficienti e austere” provenienti da nord-ovest, che imposero un regime aristocratico-militare. La nuova dinastia Zhou, insediata dapprima nella media valle dello Huang He e, dopo il 770 a.C., più a oriente, fu un contenitore istituzionale di realtà diverse in formazione. Il potere supremo era quello dell’imperatore, circondato da una gerarchia di feudatari ai quali era delegato il controllo su territori e gruppi umani in cambio di obblighi di soccorso militare e del pagamento di tributi. I contadini lavoravano e vivevano entro strutture comunitarie e non potevano essere cacciati dalle loro terre; coltivavano a turno gli appezzamenti del villaggio e dovevano riservare una parte dei terreni alla produzione di beni destinati a coprire i tributi al signore e alla gerarchia feudale. A fronte di condizioni naturali difficili, tale sistema radicò tra i contadini un’intensa pratica di lavoro comune e di forte identificazione con il villaggio. Questa civiltà articolata produsse testi poetici, storiografici e magici che costituirono il nucleo fondamentale della tradizione raccolta nei “Cinque classici”. Mentre le terre e le genti inserite in un unico complesso articolato si estendevano, il legame tra i feudatari e l’imperatore e tra gli strati inferiori e quelli superiori della gerarchia si allentò, delineando una pluralità di centri di potere e una diversificazione economica e culturale tra le varie aree. Divenne poi sempre più rilevante il peso di una classe dirigente che disponeva, per privilegi materiali, della possibilità di acquisire la conoscenza della lingua scritta in caratteri. I suoi membri traevano potere più dal possesso di strumenti culturali che dai legami personali con le gerarchie superiori o dalla discendenza familiare. Gli uomini colti costituivano il tessuto indispensabile dei rapporti sociali, della trasmissione delle conoscenze e dello stesso potere politico all’interno di un mondo contraddistinto a un tempo da legami comuni e da differenze locali. La fonte di energia impiegata nella produzione e nella gestione delle acque era costituita dal lavoro delle comunità di contadini: attraverso la conoscenza dei meccanismi psicologici e organizzativi della società, era compito dei governanti assicurare il loro consenso all’assetto di potere esistente e all’ordine sociale.

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3. La formazione di centri differenziati

Gradualmente le grandi regioni del paese assunsero una loro identità e divennero sedi non solo di produzione materiale ma anche di elaborazione culturale e di trasformazioni istituzionali, sociali ed economiche. Nacquero scuole locali di pensiero, che ebbero una netta propensione per la problematica politica, sociale o morale e una scarsa sensibilità per i temi metafisici o religiosi. Scopo comune delle “cento scuole” era quello di dotare i giovani membri della classe dirigente degli strumenti per governare entità politiche sempre più autonome dal potere centrale. Su questo sfondo va inquadrata l’opera del “maestro Kong”, Confucio, che operò nello Shandong tra il 551 e il 479 a.C. La sua prospettiva era sostanzialmente conservatrice, nel senso che mirava a ristabilire il rispetto dei valori e soprattutto dei comportamenti tradizionali, anche dal punto di vista formale (il “rito” e l’uso “esatto” delle parole). Il canone fondamentale dei rapporti all’interno dello stato era modellato sulle relazioni familiari, dove l’autorità indiscussa del padre doveva essere contemperata dal suo impegno a procurare ai familiari prosperità e sicurezza, attraverso una costante azione saggia e un comportamento esemplare. Nella visione dei confuciani, la società doveva strutturarsi su una rete gerarchica ben stabilita e sul principio di un paternalismo autoritario, sanciti da pratiche formaliste e da comportamenti prescritti. Benché la violenza e la repressione fossero considerati strumenti estremi, il condizionamento pervasivo di ogni pensiero e di ogni atto era ritenuto indispensabile per garantire l’ordine, la pace e la prosperità materiale, in un sistema che ha sempre ignorato diritti personali e libertà individuali. Il complesso di idee abbozzato da Confucio fu perfezionato dai suoi seguaci e, tra gli altri, dal maestro Meng (Mencio), che nella seconda metà del IV secolo a.C. elaborò la teoria del “mandato del Cielo”: essa in sostanza legittimava il rovesciamento dei governanti moralmente indegni che non fossero in grado di assicurare al popolo pace e prosperità. Tutta l’opera della scuola confuciana fu oggetto di pesanti rielaborazioni e falsificazioni dopo che divenne, nel II secolo a.C., l’ideologia della burocrazia dello stato unitario.

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4. Un pensiero articolato e vitale

Le differenze tra le varie componenti di un impero articolato, in continua espansione verso il sud e contraddistinto da un comune corredo culturale e materiale, si accentuarono tra il 722 e il 481 a.C., il periodo “della primavera e dell’autunno”. Si delinearono allora delle vere e proprie signorie indipendenti, dotate di strutture istituzionali distinte e concorrenti tra loro. Tra il 403 e il 221 a.C., l’epoca “dei regni combattenti”, divenne più netta la contrapposizione tra vere e proprie strutture statali gestite dai gruppi locali di una classe dirigente appartenente a una comune cultura ma impegnata in una competizione senza risparmio di colpi. Non vi è da stupirsi che fervesse il dibattito filosofico e politico: per decidere le sorti del mondo, che “tra Cielo e Terra è la dimora degli uomini, il luogo dello stato”, serviva soprattutto la strategia, che in effetti andava assai al di là delle tecniche militari per affrontare la dialettica di tutti i rapporti umani in base a considerazioni materiali, produttive, sociologiche e che trovò il suo più geniale teorico in Sun Zu. Ma non mancava con Mo Ti una scuola ugualitaria e pacifista che rifiutava il coinvolgimento negli scontri tra potenti. Il IV e il III secolo a.C. furono uno dei periodi più vitali della storia della Cina, in particolare dal punto di vista tecnico e materiale. Già nel V secolo si era diffusa rapidamente la fusione del ferro, utilizzato per la produzione di armi ma soprattutto di asce, badili e altri strumenti agricoli. Le nuove tecniche consentirono di disboscare e bonificare la valle del Chang Jiang o Yangzi: un’ondata di pionieri trasformò in terreni agricoli quest’area favorita dalla natura molto più dell’arido nord, accelerando il processo di fusione etnica e culturale tra le varie genti. Le nuove terre erano libere dai vincoli delle antiche comunità di villaggio e anche dalle ipoteche feudali. Possedute privatamente, potevano essere vendute, comprate, ipotecate, ereditate, divise tra molti figli e accumulate nelle mani di proprietari non coltivatori. Da allora il regime di proprietà privata della terra divenne costante e determinò il lento tramonto dell’aristocrazia feudale e delle garanzie comunitarie per i coltivatori. Contemporaneamente si affermò il taoismo, che doveva costituire una compresenza antitetica all’ideologia confuciana. Formulata da pensatori del IV secolo a.C., la cultura taoista rimanda a un vasto movimento iniziatico diffuso in precedenza tra i contadini e gli esclusi dal potere e fatto proprio dai pionieri solitari che nel sud potevano permettersi di “godere” la vita e di inserirsi senza traumi in condizioni naturali favorevoli all’insediamento e alla produzione, lontano dai pressanti condizionamenti sociali e politici propri dell’arida valle dello Huang He. Lo stato poteva essere leggero e limitato alle dimensioni del villaggio, la virtù dei governanti doveva essere misurata su un’intuitiva saggezza e non su un elaborato possesso di nozioni, il rapporto con la natura poteva essere stabilito in termini di convivenza e non di assoggettamento. Il taoismo ha costituito nella civiltà della Cina il momento libertario dell’evasione dagli obblighi e dalle coazioni, dell’iniziativa individuale, del piacere e della curiosità personale (diede un contributo senza pari all’elaborazione della scienza, della tecnologia e della medicina), della fantasia (la pittura e la letteratura cinesi sono dominate dalle concezioni taoiste) e anche della trasgressione dagli obblighi politici o familiari, attraverso la ribellione, la frequentazione di fantasmi e altri esseri soprannaturali, ogni genere di pratiche di sesso, senza rifiutare il cibo, le pozioni miracolose, l’alcol, la droga. Il taoismo fu un’ideologia di rifiuto, ma non di elaborazione alternativa: rigettò le imposizioni ma non seppe dare forma e norme all’istanza di libertà e quindi non produsse una durevole alternativa al sistema confuciano. Le ribellioni nacquero sempre taoiste ma, raggiunto il potere, ristabilirono l’ordine confuciano.

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5. Lo “Stato del Centro” diventa impero

A preparare il terreno per l’unificazione furono comunque nel IV secolo a.C. i pensatori “legisti” che teorizzarono l’autorità del principe e della legge quale fonte di ogni potere e quale base dello stato, al di sopra di incerte norme morali e di condizionamenti personali. Su loro consiglio i governanti dello stato di Qin introdussero una serie di riforme che mobilitarono la manodopera per la creazione di un sistema di canali capaci di produrre consistenti eccedenze di cereali e di garantire facili comunicazioni. Un esercito di contadini armati e uno stato retto da funzionari reclutati per conoscenze economiche e tecniche sconfissero uno dopo l’altro, nel corso del III secolo a.C., gli altri “regni combattenti”. Nel 221 Zheng, il geniale sovrano di questo stato del nord-ovest, poté proclamarsi “primo imperatore” dell’unificato “Stato del Centro”, la Cina. L’imperatore – un governante spietato che rifiutò di condizionare le sue scelte a esigenze morali o a considerazioni umanitarie – unificò la moneta, i pesi, le misure, la forma dei caratteri di scrittura, lo scartamento degli assi dei carri; rese omogenee le istituzioni di villaggio stabilendo confini tuttora validi. Nello stesso tempo, vennero abbattute le fortificazioni degli altri “regni combattenti”, duramente punite la loro classe dirigente e le scuole di pensatori, soprattutto se confuciani, distrutti tutti i libri al di fuori delle leggi dei Qin. Ai limiti dello spazio dell’economia e della società cinesi (da questo momento in poi il termine è pertinente) fu eretta una “lunga muraglia” per impedire l’ingresso ai nomadi e alle loro devastanti greggi; all’interno dell’impero furono tracciate strade e canali; al “centro del centro”, nella capitale, vennero eretti un palazzo splendido e una tomba guardata da migliaia di statue di guerrieri: tutto fu costruito con il lavoro forzato dei vinti e dei molti che per qualunque ragione erano caduti sotto i colpi delle dure leggi dello stato.

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6. Gli Han e l’effettiva unificazione dei cinesi

Dopo la morte del “primo imperatore” il suo regime autoritario fu travolto da una grande rivolta nella quale confluirono il malcontento delle masse dei lavoratori coatti e le spinte localiste e pluraliste troppo subitaneamente negate. L’unità dello stato era comunque un’idea ormai acquisita e ha costituito da allora il fattore dominante della storia cinese. Superate sanguinose tensioni tra i ribelli, nel 202 a.C. fu fondata la dinastia Han, destinata a durare, non senza crisi, fino al 220 della nostra era. Nel corso di questi cinque secoli, il potere unitario dello stato favorì uno straordinario sviluppo dell’economia e della cultura, estese lo spazio controllato dalla Cina dall’Asia centrale al Vietnam e alla Corea, diede forma permanente alle istituzioni centrali e locali ed elaborò una cultura politica che identificava i valori fondanti dello stato e della società. Al tempo stesso, e soprattutto, gli Han unificarono le genti che popolavano l’impero con una politica programmata di migrazioni e di assimilazione dei diversi, che acquisivano gradualmente le prerogative dei cinesi non perché appartenessero a una “razza” ma perché condividevano una cultura materiale e spirituale ed erano compartecipi dei suoi benefici, cioè di una superiore prosperità e di un duraturo ordine pacifico. Quelle genti unificate furono e sono conosciute come Han. La massa umana degli Han – 57 milioni all’inizio dell’era volgare – fu capace di attrarre e assimilare i “barbari” che in varie epoche entrarono nello spazio cinese acquisendo gradualmente le forme di vita sociale, le pratiche tecniche e produttive, le concezioni ideologiche e la stessa lingua degli Han. Soltanto le genti insediate in aree inadatte all’agricoltura intensiva al margine dello spazio cinese non furono assimilate ma si limitarono a stabilire vincoli di subalternità, fondati su rapporti di forza determinati dalla ricchezza della Cina più che dalla sua potenza militare. Fin dall’inizio la dinastia Han rinunciò all’arbitrio terroristico del “primo imperatore” e inaugurò una tradizione di “benevolenza” del potere, gestito da uomini colti utilizzati come amministratori. Di origine aristocratica e legata alle tradizioni locali, la classe dirigente centrale divenne gradualmente una burocrazia meritocratica libera da legami particolaristici e trovò nella tradizione confuciana il complesso di valori di riferimento sui quali fondare la gestione dello stato. L’eredità della scuola legista non fu tuttavia soppressa, ma si fuse con quella confuciana nell’elaborare gli strumenti di governo e le forme di intervento nell’economia da parte dello stato, che sotto gli Han monopolizzò la produzione di sale, ferro e laterizi. La terra rimase nelle mani dei privati. L’ideale della classe dirigente era quello di un popolo di coltivatori diretti autosufficienti, impegnati a presidiare militarmente il territorio e a prestare lavoro collettivo per il compimento delle opere pubbliche. Nella realtà, la proprietà della terra si concentrò presto nelle mani di grandi famiglie di proprietari-notabili non impegnati nel lavoro e dediti al commercio, alla produzione manifatturiera o alle attività amministrative, mentre un numero crescente di coltivatori doveva prendere in affitto la terra o ne era completamente espulso, accrescendo le masse dei poveri o degli operai asserviti ai notabili. Questa polarizzazione sociale determinò a più riprese grandi rivolte contadine di orientamento taoista e, poco dopo l’inizio della nostra era, l’insediamento di una breve dinastia che statizzò la terra e ogni attività economica. Le grandi famiglie dei proprietari-notabili, tuttavia, erano ormai divenute la forza sociale decisiva dell’impero e controllarono il potere centrale fino a che una serie di proteste sociali e di interventi dei militari pose fine all’unità imperiale nel 220.

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7. Dallo smembramento allo splendore dei Tang

Nei tre secoli e mezzo successivi la Cina si divise in numerose entità politiche. Le regioni del nord furono aperte a invasioni di molte popolazioni “barbare”, mentre l’identità originaria cinese fu mantenuta nelle regioni meridionali, dove la produzione agricola continuò a svilupparsi con un’ulteriore polarizzazione sociale a favore delle grandi famiglie. In questo periodo dilagò in Cina il buddhismo che, con il suo rifiuto dei valori mondani, dapprima accentuò la crisi della cultura politica tradizionale, delle strutture familiari e dell’economia, ma presto perse le sue caratteristiche originarie adattandosi alle esigenze di una società terrena, fondata sulla famiglia e l’agricoltura. La nuova religione favorì la sinizzazione dei “barbari” poiché legittimò i loro capi, ferventi buddhisti, agli occhi della più colta e sofisticata classe dirigente cinese. Il buddhismo, che in Cina diede luogo a scuole originali come quella Chan o Zen, rimase sempre, accanto al confucianesimo e al taoismo, una componente essenziale dell’identità dei cinesi che tendono ad affiancare e non a contrapporre contributi culturali e religiosi diversi. Il destino della Cina era comunque unitario. La breve e autoritaria dinastia Sui non solo ripristinò nel 581 un unico potere centrale ma creò le condizioni materiali per la riunificazione con la costruzione del “canale imperiale”, che mise in comunicazione le regioni meridionali, nelle quali si concentrava ormai la produzione, e quelle settentrionali, nelle quali doveva essere insediato per ragioni strategiche il potere politico. Dopo una nuova grande rivolta dei contadini e dei lavoratori coatti, che costituivano ormai un decimo della popolazione, nel 618 un capo turco sinizzato, Li Yuan, fondò la dinastia Tang che per quasi tre secoli rinnovò lo splendore del periodo Han e, accelerando il processo di fusione di componenti etniche e culturali diverse, confermò l’identità cinese di una popolazione tornata oltre i 50 milioni. L’eliminazione dei debiti, la riduzione delle tasse e la distribuzione di terra ai coltivatori, le scoperte scientifiche e l’introduzione di nuove tecnologie agricole e manifatturiere, la creazione di una rete di trasporti integrata furono il fondamento della nuova prosperità. Quella società inevitabilmente pluralista praticò una politica di apertura ai contatti internazionali non solo verso l’Asia centrale e il mondo iranico, ma anche verso la Corea e il Giappone. Questi paesi, a loro volta, elaborarono varianti originali della civiltà diffusa in tutta l’Asia orientale da una Cina che era il maggior centro culturale del mondo, con una produzione poetica e pittorica mai uguagliata nei secoli successivi. Alla metà dell’VIII secolo, i Tang conobbero una grave crisi politica legata a vicende interne alla corte: la classe dirigente dei cavalieri sinizzati e i grandi monasteri buddhisti dovettero cedere di fronte all’ascesa dei funzionari pubblici reclutati attraverso gli “esami imperiali” allora istituiti e destinati a divenire uno straordinario strumento di selezione meritocratica. Mentre il paese veniva travolto in una spirale di scontri militari, le condizioni economiche precipitavano e ondate successive di repressione assottigliavano le varie componenti della classe dirigente, le invasioni musulmane dall’Iran sottrassero l’Asia centrale all’influenza cinese. Al tempo stesso le continue scorrerie dei tibetani resero insicure molte province e privarono dei cavalli le forze armate. Gli eserciti vennero allora costituiti non più da soldati-contadini chiamati a un servizio temporaneo bensì da professionisti mercenari, mentre il sistema fiscale riduceva il rapporto tra potere politico e coltivatori con il trasferimento dell’imposizione dalle persone al patrimonio.

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8. La grande prosperità della Cina dei Song

Dopo un breve periodo di divisione, nel 960 uno dei comandanti rivali, Zhao Kuang Yin, riunificò lo stato e fondò la dinastia Song, la più ricca e splendida della storia cinese. Le istituzioni statali, fortemente centralizzate e liberate dall’ipoteca dei militari, presero a operare attraverso una razionale divisione di competenze e furono gestite da una burocrazia ristretta ma efficiente di intellettuali reclutati attraverso concorsi selettivi, che miravano ad accertare il possesso di conoscenze amministrative, giuridiche, economiche e sociologiche e il sicuro riferimento ai valori sui quali erano fondati lo stato e la società civile. Il potere reale era nelle mani di questi uomini che rappresentavano effettivamente i migliori elementi di una classe intellettuale in grande espansione, benestante, ma non dotata per nascita di schiaccianti privilegi economici e resa sempre più capace dalla straordinaria diffusione della cultura permessa dallo sviluppo della stampa, dalla produzione e dal commercio di ogni genere di libri. Il fiorire della scienza e della letteratura e un’enorme opera di sistemazione di tutto il sapere diedero una valida base di appoggio al contributo degli intellettuali alla gestione dello stato. L’imperatore svolgeva soltanto il compito di moderatore dei contrasti tra gli amministratori e di garante delle scelte razionalmente compiute. L’arricchimento della cultura e il conseguente consolidamento delle competenze amministrative erano il frutto dello straordinario sviluppo della produzione materiale. L’adozione di nuove tecniche per la risicoltura, la selezione delle sementi e l’irrigazione resero possibile l’aumento della produzione cerealicola fino a 300 milioni di quintali e favorirono il raddoppio della popolazione, passata in pochi decenni da 50 a 100 milioni di persone. L’aumentata produzione di seta, cotone, tè, verdure e frutta consentì di mantenere una vasta popolazione non addetta alla coltura della terra. Lo sviluppo della scienza e della tecnica permise ad artigiani e manifatture dei borghi e delle città del sud-est di produrre in quantità merci qualificate e diversificate (dagli acciai alle giunche d’alto mare, dagli esplosivi alle porcellane, dai medicinali alle vernici). Questa società urbanizzata era al centro di attività terziarie e finanziarie, che andavano dall’armamento navale alla costituzione di società a responsabilità limitata fino all’uso della carta moneta per far fronte alla grande massa di scambi gestiti da potenti mercanti. La Cina dei Song aveva quindi i tratti di una fervida società proto-capitalistica fondata sull’iniziativa dei privati e sostenuta da una valida amministrazione. Non mancavano gravi problemi sociali, come l’indebitamento che schiacciava i piccoli coltivatori diretti per la continua richiesta di investimenti o le condizioni di quasi servaggio dei minatori o il condizionamento esercitato sugli operai dalle gilde artigiane. Per porre rimedio a questa situazione e per dare salde basi alla finanza statale, il primo ministro Wang Anshi elaborò alla fine del secolo XI una serie di leggi di riforma che la classe dirigente, tuttavia, rifiutò a difesa dei propri interessi costituiti: il tentativo di adeguare il sistema istituzionale alle esigenze della nuova economia monetaria fu così sconfitto e non poté essere mai più ripreso. Il problema principale dei Song era però quello della difesa. Lo spazio territoriale cinese, già ristretto con la crisi dei Tang, fu ulteriormente ridotto dall’insediamento nella valle dello Huang He di invasori solo parzialmente e lentamente sinizzati, come i Liao o Kitan, gli Xia e i Jin. Le compagini statali “barbare” infliggevano continue sconfitte all’impero, privo ormai dei villaggi militarizzati dei contadini-soldati tradizionali e costretto a contare su esose strutture militari mercenarie, pur dotate di armi da fuoco e di navigli corazzati. La ricca società Song scelse quindi di “comprare la pace dai barbari”, impegnandosi a versare tributi di tonnellate d’argento e di tè e migliaia di rotoli di seta ogni anno. Un’enorme ricchezza venne così drenata verso il mondo delle steppe coinvolgendo sempre nuovi invasori. Attirati da questo ciclo economico-militare e stimolati anche dalle manovre dei politici cinesi, all’inizio del secolo XIII entrarono in gioco i mongoli, fino allora scevri da influenze cinesi. Il loro capo Temujin, noto con il titolo di Gengis Khan, travolse – con spaventosi massacri di contadini Han – i Jin nella valle dello Huang He attorno al 1215 per poi volgersi al mondo iranico e indiano. Ma i suoi successori ritennero l’assalto alla Cina troppo vantaggioso e, con una serie di sanguinose offensive, distrussero il potere dei Song tra il 1276 e il 1279.

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9. La catastrofe del dominio mongolo

Per novant’anni i mongoli inflissero alla Cina un duro dominio, estraneo ai meccanismi economici del grande impero. Gli Han furono sottoposti, soprattutto nel sud, a discriminazioni razziali e privati dell’uso degli strumenti in ferro. Ne derivò una profonda crisi economica, con continue catastrofi dovute all’abbandono del sistema idrico e gravi carestie, anche quando i mongoli cercarono di far proprio il sistema di governo e di produzione dei cinesi. L’uso dissennato della carta moneta contribuì a innestare una spirale inflazionistica a fronte di una produzione calante. Alla metà del XIV secolo erano quindi chiari i prodromi della grande rivolta degli Han che avrebbe unito, di fronte agli stranieri, la classe dirigente e le masse contadine. L’invasione mongola investì l’intera Asia orientale (ma anche le grandi società stanziali dell’Asia occidentale, dall’Iraq, all’Iran all’India): oltre alla Cina fu conquistata la Corea, mentre il Vietnam oppose una disperata resistenza, riuscita alla fine vittoriosa. Il Giappone si salvò per una provvida tempesta di “venti sacri” (kamikaze) che distrusse la flotta dei cavalieri della steppa. Ovunque la conquista e la dominazione mongola comportarono un catastrofico disinvestimento di ricchezza, del quale fu vittima soprattutto la Cina. Il merito, normalmente attribuito ai mongoli, di aver creato tra Europa e Asia orientale un importante canale di comunicazione per gli scambi scientifici e tecnologici, in effetti contribuì a impoverire la Cina perché attraverso quel canale fu esportata in Europa, ma a solo beneficio dei capi tribù mongoli, una quantità importante di beni d’alto valore intrinseco prodotti in Cina.

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10. Le contraddizioni della potente Cina dei Ming

Un coltivatore meridionale divenuto stratega, Zhu Yuanzhang, fu colui che, vittorioso, nel 1368 fondò la dinastia Ming. La nuova dinastia nacque con un congenito riflesso di paura tanto verso i “barbari”, quanto di fronte a ogni spinta alla trasformazione proveniente dai ceti produttivi, rurali o mercantili, e dalla stessa classe dirigente intellettuale. Le istituzioni non furono mutate, ma l’accresciuto peso dell’imperatore configurò un regime quasi autocratico, che ledeva le prerogative dei burocrati. I palazzi del potere furono popolati da eunuchi ignoranti, in teoria semplici servi della famiglia imperiale, che si arrogavano uno spazio politico decisivo umiliando e ricattando i funzionari più capaci. Fu creata una polizia segreta che soppiantò nel controllo dell’apparato statale i “censori”, funzionari di chiara fama preposti alla lotta alla corruzione. Un uso formalistico e repressivo della tradizione confuciana contribuì a togliere iniziativa e originalità alla classe dirigente burocratica che già, per il retaggio della cultura politica tradizionale, nutriva diffidenza verso i mercanti e i protagonisti della nuova economia mobile con i quali era solo disposta a contrarre relazioni di convenienza attraverso la corruzione e i collegamenti personali. L’agricoltura rimase il settore privilegiato dell’economia e conobbe all’inizio della dinastia uno straordinario impulso quantitativo e qualitativo a seguito di bonifiche, canalizzazioni e interventi sul territorio che migliorarono il tenore di vita di una popolazione passata, in due secoli, da 70 a 130 milioni di individui. Dal punto di vista sociale, tuttavia, non fu fatto nulla per impedire la concentrazione della terra nelle mani di pochi (l’imperatore ne controllava la metà e poteva assegnarne l’usufrutto ai suoi fedeli) e la continua espropriazione dei coltivatori. Ancor più grave fu comunque la decisione di fissare in modo ereditario i compiti dei vari gruppi sociali, rendendo obbligatoria la scelta professionale degli artigiani, dei minatori, degli operai addetti alle industrie, dei mercanti e anche dei soldati. Alcuni gruppi furono penalizzati, come gli artigiani costretti a lavorare sottocosto alla costruzione dei palazzi imperiali o i minatori e i produttori di sale, che non cessarono di ribellarsi a condizioni inumane. Il sistema fiscale, poi, colpì sempre più i ceti artigiani, mercantili e protocapitalistici, senza tutelare i coltivatori poveri. La Cina dei Ming fu quindi una società che produceva una ricchezza crescente a fronte di un impoverimento costante dei produttori. Da qui la vasta e violenta rivolta sociale che la travolse alla metà del secolo XVII. I rapporti di forza esistenti in Asia mutarono in modo decisivo durante la dinastia Ming. Ai suoi inizi, la Cina – già egemone nei “mari del sud” – aveva intrapreso una serie di missioni navali nell’arcipelago malese, in India, nel Golfo Persico e fino a Zanzibar. L’obiettivo era quello di mostrare la potenza commerciale, tecnologica, politica e anche militare dell’impero e di stabilire relazioni vantaggiose con l’Asia meridionale. Non appena le scelte politiche dei Ming penalizzarono l’economia mobile e aperta della Cina meridionale e spostarono l’attenzione ai confini del nord, queste iniziative furono abbandonate. Il ritiro dello stato cinese – ma non dei suoi mercanti e armatori – dai “mari del sud” lasciò il campo ai pirati giapponesi e all’espansione dapprima dei portoghesi e poi degli olandesi e degli inglesi. Il commercio con la Cina era uno degli obiettivi degli europei in Asia. L’esportazione di merci cinesi fu in effetti molto vivace, si concentrò a Canton e fu condotta da mercanti cinesi autorizzati dal governo centrale, che tuttavia sottovalutò il cambiamento epocale determinato dalla presenza europea nell’Asia sudorientale e meridionale.

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11. Il più grande impero del mondo

La rivolta sociale abbatté i Ming nel 1644, ma i rivoluzionari non poterono conservare il potere e attuare misure di perequazione sociale e di riforma economica e istituzionale. I proprietari terrieri e una parte della classe dirigente chiamarono infatti a difesa dell’ordine sociale i mancesi, che nei decenni precedenti avevano costituito nel nord-est una solida struttura statale e una formidabile macchina militare. I capi tribù mancesi divennero così imperatori della dinastia Qing e, rinunciando alla tentazione razzista che aveva minato il potere dei mongoli, mantennero sotto il proprio controllo la corte e l’apparato militare lasciando l’amministrazione nelle mani della burocrazia intellettuale che, conservando i suoi valori di riferimento, la sua cultura politica e anche i suoi interessi, avrebbe dovuto comunque mostrare lealtà totale ai sovrani “barbari”. Questi furono, almeno nel caso di Kangxi (1662-1722) e Qianglong (1736-96), tra i maggiori e più illuminati imperatori della Cina, autoritari e paternalisti, ma razionalmente impegnati ad assicurare al paese pace e prosperità. E ci riuscirono: l’apparato statale fu reso più efficiente e meno corrotto, furono intraprese opere che migliorarono in modo sostanziale la produttività agricola e consentirono di disporre di una quantità di beni – frutto della terra ma anche delle attività artigiane e manifatturiere – che fece indubitabilmente della Cina del Settecento il paese del mondo a più alta qualità di vita per la maggioranza dei suoi abitanti. Questi da 120 milioni nel 1680 divennero 143 nel 1740, 200 nel 1762, 264 nel 1775, 361 nel 1812 e avrebbero raggiunto i 421 nel 1846. Se si tien conto che i cinesi e i giapponesi lasciavano vivere “solo i bambini che si potevano mantenere”, questo incremento è di per sé misura della prosperità. Ma esso fu anche una delle cause della crisi economica e sociale successiva, perché innescò la “trappola dello sviluppo elevato”: un meccanismo economico nel quale la crescente ricchezza prodotta viene assorbita da crescenti consumi e dall’aumento del tenore di vita, senza lasciare spazio all’accumulazione necessaria per consentire il passaggio a nuove forme di produzione e a innovazioni tecnologiche capaci di rompere il ciclo. Contemporaneamente gli imperatori Qing intrapresero una politica di assoggettamento dei popoli delle steppe e degli altopiani finalizzata a mettere l’impero al sicuro da ogni minaccia. Stroncando senza pietà i vari aggregati “barbari”, essi assoggettarono alla fine del XVII secolo un territorio assai più vasto dell’attuale Xinjiang nell’Asia centrale, buona parte delle genti mongole oltre la Grande Muraglia, popolazioni siberiane al di là dell’Amur e dell’Ussuri e, nel secolo XVIII, il Tibet. In precedenza avevano acquisito il controllo delle terre subtropicali al confine con la Birmania. Poterono quindi permettersi di concludere, nel 1689 e nel 1727, trattati vantaggiosi per la Cina con la Russia zarista, in gara per il controllo delle aree della Siberia orientale. Questa politica portò all’interno dell’impero aree sostanzialmente disomogenee rispetto allo spazio economico cinese e genti che non sarebbero mai divenute Han, in quanto legate a un ambiente non adatto all’agricoltura stanziale intensiva: il grande impero fu così caratterizzato da una multietnicità non riducibile, destinata a generare profonde tensioni appena il potere centrale si fosse indebolito.

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12. Il commercio dell’oppio apre l’attacco straniero

Alla fine del secolo XVIII i mercanti inglesi erano decisi a superare i vincoli imposti a Canton al loro commercio e a cercare di vendere ai cinesi merci per bilanciare i crescenti acquisti degli europei. Nel 1793 fu inviata a Pechino un’ambasceria diretta da Lord Macartney, ricevuta con cortesia dall’imperatore Qianglong, che però respinse le richieste inglesi: i cinesi, per benevolenza, erano disposti a continuare a vendere le loro merci ma non vedevano la necessità di comprare prodotti stranieri, dato che disponevano già in abbondanza di “tutto ciò di cui avevano bisogno”. Per pareggiare i propri conti, la Compagnia delle Indie, che nel 1773 si era assicurata il monopolio del commercio dell’oppio, intensificò allora l’importazione della droga in Cina, che passò da 13 tonnellate nel 1729 a 250 nel 1820, 1300 nel 1830, 2500 nel 1838 (per arrivare a oltre 6000 nel 1870). La bilancia commerciale, che era stata a favore della Cina per 30 tonnellate d’argento tra il 1800 e il 1820, fu a sfavore della Cina per la stessa cifra nel biennio 1831-33: un rovesciamento di equilibrio che preoccupò il governo cinese. Ma ancor più preoccupante, in un periodo di iniziale crisi economica e sociale, fu lo sviluppo di una vasta mafia che nelle infide province del sud appoggiava il contrabbando britannico e, violando le leggi, costituiva un vero stato nello stato, appoggiato da funzionari corrotti. Nel 1839 le autorità centrali inviarono a Canton l’integerrimo Lin Zexu, che fece sequestrare ai contrabbandieri inglesi 1300 tonnellate di oppio subito bruciate nel porto. Ritenendo violati i diritti del commercio e della navigazione, gli inglesi mossero guerra alla Cina attaccando Canton e altri porti, tra cui Shanghai. Il governo centrale, temendo che una lunga guerra avrebbe aggravato i conflitti sociali, accettò nel 1842 il trattato di Nanchino, che impose la cessione dell’isola di Hong Kong, l’apertura di cinque porti del sud al commercio (cioè all’importazione di oppio), la concessione di tariffe favorevoli alle merci inglesi e il pagamento di un’indennità di 1000 tonnellate d’argento a compenso dell’oppio distrutto. L’anno dopo fu aggiunta la clausola della giurisdizione extraterritoriale, che sottraeva alla magistratura cinese la competenza in materia penale e civile. Le concessioni fatte agli inglesi furono estese agli altri paesi occidentali in base alla clausola della “nazione più favorita”, creando così un “sistema” di controllo delle potenze sulla Cina. La “guerra dell’oppio”, peraltro, fu soltanto l’inizio dell’assalto straniero. Una nuova impresa franco-britannica, accompagnata da gratuite devastazioni, fu compiuta tra il 1857 e il 1860 e si concluse con l’apertura di altri porti, il diritto per gli occidentali di circolare liberamente in Cina e di acquisirvi proprietà, l’esenzione dalla tassazione interna e il pagamento di indennità per un totale di quasi 900 tonnellate d’argento; i russi, solo per un intervento di mediazione, ottennero le terre a nord dell’Amur e a est dell’Ussuri e, poi, circa 500 tonnellate d’argento per restituire parte del Xinjiang. L’attacco straniero fu percepito allora e in seguito dai cinesi come una cocente umiliazione, per la logica razzista che accompagnò la presenza europea in Asia e come una violenza che non poteva essere accettata per ragioni morali, connessa com’era al commercio dell’oppio. Nel caso della Cina, gli stranieri operarono un’immensa rapina di ricchezza accumulata in secoli di commercio legittimo, per un totale comparabile all’argento estratto nelle Americhe e finito in Cina per pagare tè, seta e porcellane importate dagli europei. Quando la Cina nel 1894-95 fu sconfitta dal Giappone, oltre a cedere l’isola di Taiwan, dovette pagare più di 7 mila tonnellate d’argento, cui se ne aggiunsero altre mille quando il Giappone fu costretto dalle potenze europee a restituire la penisola del Liaodong. Dopo la rivolta degli Yihetuan (Boxers) contro il dominio straniero (1900-1901) l’indennità imposta fu di 17 mila tonnellate d’argento: un debito che le esauste casse dell’impero non erano più in grado di pagare e che diveniva così più fattore di ricatto politico che di trasferimento di valuta. Nel frattempo gli stranieri avevano sottratto all’impero anche una parte del controllo sul territorio trasformando gradualmente, con l’aiuto delle norme imposte nei trattati, i diritti privati acquisiti nei “porti aperti” in controllo politico e istituzionale. Queste posizioni di privilegio furono poi sancite con l’imposizione alla Cina di affittare queste aree alle varie potenze per 99 anni, sotto forma di “concessioni”. Alla fine dell’Ottocento, sull’onda della spartizione dell’Africa, le potenze discussero l’ipotesi di una divisione della Cina in zone da assegnarsi ai vari stati occidentali: il progetto fu però bloccato dagli Stati Uniti, potenti da un punto di vista finanziario ma privi di personale e forze militari per gestire una parte del paese. Essi ottennero per il momento che la Cina rimanesse “aperta” al commercio, al controllo finanziario e agli interessi di ogni potenza: una politica non concepita a vantaggio della Cina ma finalizzata a impedire alle singole nazioni occidentali una prevalenza egemonica nel paese.

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13. La crisi del secolare equilibrio sociale

La resa all’attacco straniero fu a un tempo effetto e causa di una grave crisi politica e sociale interna. Da tempo nelle campagne si aggravavano le condizioni dei poveri e la terra si concentrava nelle mani dei notabili, mentre le tensioni etniche e la latente resistenza del sud al potere mancese si combinavano con il contrabbando dell’oppio nel ridurre il potere dello stato. Le conseguenze economiche dei trattati – tra cui l’aumento del prezzo interno della moneta d’argento (necessaria per pagare le tasse) rispetto alla moneta di rame (ricevuta normalmente al mercato dai contadini) – impoverivano i coltivatori e aggravavano la polarizzazione sociale. Si inserì in questo quadro la grande rivolta dei Taiping, che dopo il 1850, sulla base di un’ideologia ugualitaria di vaga ispirazione cristiana, sotto la guida di Hong Xiuquan, un intellettuale emarginato, e di un gruppo dirigente eterogeneo ma dotato di straordinarie capacità militari, acquisì il controllo della valle dello Yangzi, tolse la terra ai proprietari e installò a Nanchino un governo alternativo a quello centrale. I Taiping non riuscirono tuttavia a gestire la distribuzione della terra ai contadini poveri, né a stabilire contatti con altri gruppi di ribelli o con le rivolte delle minoranze etniche, né a comprendere il pericolo costituito dalla scelta del governo centrale di mobilitare il conservatorismo dei proprietari e dei coltivatori diretti delle ricche terre del sud. Anche gli stranieri appoggiarono il governo dopo che questi accettò i gravosi trattati del 1858-60. In tal modo i ribelli, pur combattendo con eroismo e sagacia fino all’ultimo, soccombettero tra il 1864 e il 1866. L’uccisione di 20 milioni di contadini dopo la sconfitta di questa e altre rivolte ruppe il ciclo di aumento della popolazione, che rimase poi a livelli quasi immutati fino al 1949 per il combinarsi degli effetti della povertà e della morte dei giovani dovuta a repressioni e guerre. La rivolta contribuì a creare una nuova società nei porti aperti, dove cercarono rifugio gli appartenenti alle classi abbienti del sud: non solo proprietari terrieri, ma mercanti, finanzieri, usurai, contrabbandieri di oppio che si inserirono come preziosi intermediari nella rete degli interessi stranieri, anch’essi legati al commercio della droga. Gli imprenditori impegnati nelle tradizionali attività manifatturiere furono invece penalizzati dai meccanismi dei trattati – che esentavano da dazi e tasse le merci straniere – e dalla politica fiscale di un governo alla disperata ricerca di risorse per pagare i debiti. La crisi della società un tempo prospera del sud fece affluire verso i porti controllati dagli stranieri e verso l’emigrazione masse di contadini privati della terra e spesso cacciati dai villaggi. Le imprese straniere poterono così disporre di una manodopera indifesa e disposta a tutto. Su questo sfondo le misure di sostegno all’agricoltura introdotte dal governo dopo la fine delle rivolte non migliorarono le condizioni dei coltivatori poveri, ma solo quelle dei proprietari.

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14. I falliti tentativi di riforma

La classe dirigente burocratico-intellettuale si pose fin dall’inizio il problema di resistere all’attacco straniero, ma senza mettere in discussione l’ordine sociale, le istituzioni e i valori tradizionali. Il “segreto” della potenza occidentale fu piuttosto identificato negli armamenti moderni. Nel breve periodo di tregua delle minacce straniere tra il 1860 e il 1885 i governanti tentarono una politica di “autorafforzamento”, fondata sulla creazione di imprese a capitale pubblico per la produzione di armi, affidate alla gestione di burocrati che si rivelarono incompetenti e corrotti e quindi incapaci di presiedere a una vera modernizzazione. Dopo la sconfitta inflitta dal Giappone il dibattito all’interno della burocrazia si intensificò. I giovani intellettuali della Cina meridionale, che avevano avuto maggiori contatti con gli stranieri, proposero una politica generale di riforme, aperta a una visione della società e delle istituzioni che, nonostante limiti e ingenuità, era sostanzialmente nuova e comparabile a quella posta in atto in Giappone dai giovani samurai modernizzatori che avevano preso il potere nel 1868. Il tentativo di trasformare la Cina con interventi dall’alto e dal centro fu posto in atto nel 1898 da Kang Yuwei e da un gruppo di funzionari convinti della necessità di una radicale modernizzazione: essi ottennero l’appoggio del giovane imperatore Guangxu, costituirono un governo e per tre mesi introdussero leggi e norme che rompevano condizionamenti secolari. Furono intaccati anche molteplici interessi dell’aristocrazia e della corte mancese, dei notabili rurali tradizionalisti e della burocrazia non disposta alla modernizzazione. Queste forze si allearono contro i riformatori, che furono abbattuti da un colpo di stato militare. Quanti non trovarono rifugio nell’ambasciata giapponese furono giustiziati e lo stesso imperatore fu rimosso. La speranza di fare in Cina quanto era stato fatto in Giappone venne meno: non così, tuttavia, la turbolenza dei giovani intellettuali delle province meridionali e orientali, ormai in aperto conflitto con le autorità. La terribile sconfitta subita dalla Cina nel 1901 dopo la rivolta tradizionalista – che aveva affiancato la protesta antistraniera dei contadini del nord organizzati negli Yihetuan (Boxers) con le tendenze alla chiusura della corte dominata dall’imperatrice Ci Xi – trasformò il malcontento della gioventù intellettuale in un totale rifiuto delle istituzioni e della cultura ufficiali e in un’ansiosa ricerca di soluzioni per trasformare in profondità il paese.

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15. La scelta rivoluzionaria e modernizzatrice

Si venne così organizzando, soprattutto tra i giovani intellettuali delle province meridionali, un movimento rivoluzionario che rimase tuttavia diviso tra i monarchici costituzionali sopravvissuti all’esperienza del 1898, i sostenitori di un’azione militare ispirata all’esempio dei samurai che avevano abbattuto il bakufu, il ribellismo legato alla tradizione delle società segrete e l’elaborazione degli studenti sensibili alla penetrazione del pensiero politico occidentale, sempre più diffuso in traduzioni che erano spesso vere e proprie reinterpretazioni. Su tutti incombeva la repressione sanguinosa delle autorità e in tutti ferveva comunque un’ansia di impegno totale, di disponibilità al sacrificio e anche alla morte, di volontà di rovesciare un potere percepito ormai come anacronistico e complice dell’asservimento del paese. Su questo sfondo si inserì l’opera di Sun Wen (Sun Yat-sen), un cantonese sensibile al ribellismo popolare ma inserito nell’ondata di emigrazione oltremare: nelle Hawaii e a Hong Kong aveva ricevuto dai missionari inglesi una formazione medica che lo aveva portato a sostenere la necessità di una totale modernizzazione scientifica e culturale della Cina e l’adozione delle istituzioni repubblicane, secondo un modello influenzato da Mazzini e da Lincoln. Organizzando dal 1905 una Tongmenghui (Lega giurata) e suscitando contro le autorità continui colpi di mano e atti terroristici ispirati all’azione degli anarchici russi, egli riuscì a ottenere nel variegato mondo dei giovani ribelli un prestigio enorme. La crisi dell’antico ordine si consumò per il confluire di cause complesse: fu certo importante la ribellione dei giovani colti contro le autorità e la cultura che le legittimava; costituì un fattore non trascurabile la nascita nei porti del sud, e in particolare a Shanghai, di ceti borghesi tra loro differenziati ma ormai contraddistinti da interessi e comportamenti determinati dall’inserimento nel sistema coloniale; assai rilevante fu comunque il distacco dei notabili della Cina meridionale dal controllo di un governo centrale inefficiente e vessatorio. Pesava poi in tutto il paese la passività dei contadini dopo le terribili repressioni seguite alle rivolte di cinquant’anni prima. E ci furono anche circostanze casuali, che portarono il 10 ottobre 1911 un gruppo di militari, ribelli occasionali, a proclamare a Wuhan un governo provvisorio repubblicano, mentre altre insurrezioni scoppiavano in varie zone del sud. Dopo lunghe trattative tra forze eterogenee Sun, rientrato in Cina, riuscì a proclamare la repubblica il 1° gennaio 1912 e ad assumerne la presidenza.

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16. L’involuzione reazionaria e la rivoluzione intellettuale

La debolezza del nuovo regime apparve chiara fin dall’inizio. La sua già precaria autorità non si estendeva alle province del nord e le variegate truppe repubblicane non riuscivano a sconfiggere le resistenze conservatrici. I governi dell’Occidente democratico, presso i quali Sun si era recato a chiedere sostegno al nuovo potere che egli voleva modellare sul loro esempio, avevano mostrato fin dall’inizio la loro preferenza per un regime inefficiente e arretrato piuttosto che per un potere forte, dinamico e indipendente. Le trattative con Pechino si risolsero con l’abdicazione della dinastia mancese a favore della repubblica ma, al tempo stesso, con l’ascesa alla presidenza di Yuan Shikai, un militarista autoritario e retrivo che aveva già attuato il colpo antiriformista del 1898. La prospettata istituzione di un regime parlamentare si rivelò illusoria appena le elezioni, pur vinte dai seguaci di Sun, furono rese vane dall’assassinio del loro massimo dirigente, Song Jiaoren, che avrebbe dovuto guidare il governo. Il potere reale nelle province fu posto nelle mani di governatori militari che, nonostante il loro passato di militanti repubblicani, stabilirono subito uno stretto legame con i notabili locali per il mantenimento degli interessi più retrivi nelle campagne e la repressione di ogni spinta alla trasformazione anche semplicemente culturale. Gli intellettuali rinnovatori che, nonostante le loro riserve verso l’autoritarismo di Sun, si erano mobilitati per radicare nella società e soprattutto nell’istruzione i germi del cambiamento vennero frustrati e rimossi. Nella capitale, Yuan Shikai ottenne da quello che ormai si presentava anche formalmente come il “consorzio delle potenze” un prestito che, aggiungendosi ai debiti e rendendo ancor più difficile la situazione finanziaria del paese, indicava comunque come il militarista autoritario fosse gradito agli interessi stranieri. Del resto, dopo il fallimento di un tentativo di insurrezione, Sun e i suoi furono di nuovo vittime della repressione e dovettero rifugiarsi all’estero o nelle concessioni straniere. Nel 1916 Yuan tentò anche di proclamarsi imperatore, ma il tentativo fallì poco prima della sua morte, mentre l’istituzione parlamentare perdeva ogni significato e l’autorità reale passava nelle mani dei governatori militari delle province, spesso dominati dagli interessi stranieri localmente prevalenti, e noti come “signori della guerra”. I governi centrali divennero quindi espressione dell’equilibrio tra queste spinte localistiche autoritarie e repressive e le ipoteche straniere. La prima guerra mondiale allentò in parte le pressioni delle potenze europee ed eliminò dalla gara la Germania e poi la Russia. Il gioco finanziario statunitense conservò buone prospettive, ma ad avere mano libera fu l’egemonia giapponese, soprattutto dopo che nel 1915 il governo di Yuan ebbe accettato le “21 domande” con le quali il Giappone – dominante in Manciuria dal 1905, quando aveva espulso i russi – mirava a trasformare la Cina in un protettorato politico ed economico. In queste circostanze lo spazio che la borghesia cinese acquisì, in particolare a Shanghai durante gli anni della guerra, era destinato a restringersi all’indomani del conflitto. Nelle nuove circostanze gli intellettuali, ormai completamente privati della tradizionale funzione di amministratori dello stato e sostituiti da militaristi autoritari e notabili locali, divennero protagonisti dell’elaborazione di una cultura moderna e – a lungo termine – di una nuova prospettiva rivoluzionaria. Veicolo delle idee di rottura fu dal 1915 la rivista “Xingqingnian” (“Gioventù nuova”) e il centro del movimento, inevitabilmente elitario, l’università di Pechino. Uomini diversi e sensibili a influenze culturali differenti – francese per Chen Duxiu, americana per Hu Shi, giapponese e tedesca per Li Dazhao e russa per Lu Xun – fecero confluire le loro voci nella lotta contro il condizionamento conservatore del confucianesimo, la sopravvivenza della desueta “lingua dei dotti”, la passiva rassegnazione e l’immobilismo culturale. Al di fuori di ogni dogmatismo e di ogni sistema ideologico, il loro fu un vero e proprio “appello alle armi” per fare dei giovani intellettuali gli alfieri di una Cina nuova. Per il momento il terreno di combattimento rimase culturale e di costume: ma le esigenze politiche incalzavano e – di fronte alla crescente pressione giapponese – la scelta comune di studenti e docenti divenne quella di “salvare la patria”. Non si trattò di un nazionalismo di chiusura nei confronti della cultura degli stranieri: dalla migliore tradizione occidentale venivano mutuati infatti gli ideali della democrazia e della scienza quale strumento di liberazione dell’uomo dal pregiudizio. Ma veniva anche elaborata la distinzione tra l’ideale occidentale del progresso e l’azione predatoria e oppressiva delle potenze dominanti nel mondo. L’istanza di riportare una Cina che si voleva soprattutto “nuova” alla pienezza della sovranità divenne sempre più impellente a misura che il Giappone intaccava la residua indipendenza dei cinesi e faceva incombere il suo modello di modernizzazione autoritaria e di progresso tecnico senza liberazione del pensiero. In un mondo trasformato dall’appello alla rivoluzione mondiale dei bolscevichi vittoriosi e dall’ideale dell’emancipazione dei popoli lanciato da Wilson, il 4 maggio 1919 gli intellettuali rivoluzionari trasferirono la loro lotta dal piano culturale a quello politico quando appresero che la conferenza di Versailles stava per consegnare al Giappone i possedimenti germanici in Cina. Iniziò allora un vasto movimento che da Pechino mobilitò gli studenti di tutto il paese e coinvolse anche commercianti e artigiani danneggiati dalla concorrenza straniera e dalla connivenza dei corrotti governanti indigeni con i giapponesi. In breve la gioventù cinese colta e urbana conobbe un rapido processo di politicizzazione, nel quale si inserì la propaganda bolscevica contro l’imperialismo quale sistema mondiale di oppressione. Nell’estate 1921 un piccolo nucleo di militanti intellettuali fu protagonista della fondazione del Partito comunista cinese e iniziò un duro tirocinio per chiamare alla lotta una classe operaia che conosceva direttamente lo sfruttamento imperialistico nelle fabbriche possedute dagli stranieri. La lotta contro la dominazione straniera assunse una risonanza assai maggiore a partire dal 1920, quando Sun riprese a Canton l’azione per costituire una Cina moderna e sovrana.

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17. Dall’alleanza rivoluzionaria al decennio di Nanchino

Negli anni successivi, su consiglio dell’Internazionale comunista ma anche per il confluire di comuni istanze patriottiche, prese forma un’alleanza tra il movimento nazionale diretto da Sun e i comunisti. A Canton fu costituito un regime rivoluzionario contrapposto a quello di Pechino, dominato dai militaristi filogiapponesi, e ai centri di potere controllati dai “signori della guerra”. Nel 1924 Sun procedette a ristrutturare il Guomindang (Partito nazionalista) in un fronte nel quale entrò anche il Partito comunista. Nonostante la morte di Sun, nel 1925 una vasta mobilitazione operaia intervenuta a Shanghai dopo l’uccisione di un sindacalista da parte dei giapponesi aprì nella Cina urbana un biennio di militanza antimperialistica che sembrò modificare in senso nettamente rivoluzionario l’alleanza tra comunisti e nazionalisti. Nello stesso tempo fu organizzata da Canton una spedizione militare per creare una Cina unita e sovrana. All’inizio del 1927 il successo militare della spedizione nelle province della Cina centrale, sostenuto dal manifestarsi di una forte spinta eversiva dei contadini contro i proprietari e i notabili rurali, e poi i giganteschi scioperi organizzati dai comunisti a Shanghai facevano prevedere imminente la nascita di una nuova Cina contraddistinta da un forte nazionalismo antimperialista e anche da un mutato equilibrio sociale interno. Questa prospettiva portò a una rapida polarizzazione di forze all’interno del Guomindang e alla decisione del comandante militare Chiang Kai-shek (Jiang Jieshi) di procedere nell’aprile del 1927 a Shanghai al massacro di decine di migliaia di operai comunisti. A fronte delle esitazioni dei dirigenti politici nazionalisti, altri comandanti seguirono il suo esempio e nell’autunno del 1927 il Partito comunista cinese poteva sembrare stroncato dal generalizzarsi nelle città e nelle campagne di una repressione inutilmente contrastata da disperati tentativi insurrezionali. Nel volgere di pochi mesi Chiang riuscì ad accordarsi con i “signori della guerra” e con le potenze straniere e a installare a Nanchino un governo nazionalista controllato – sia pur con fasi alterne e duri giochi di potere – da lui e dagli uomini a lui legati. Il “decennio di Nanchino”, tra il 1927 e il 1937, fu contraddistinto da una costante politica di repressione anticomunista e da tentativi di modernizzare la società cinese urbana del sud-est su modelli autoritari che risentivano dell’esempio fascista. Base sociale della politica di modernizzazione fu un ceto medio urbano scolarizzato in forte espansione, mentre i notabili rurali e i proprietari terrieri mantennero, anche attraverso la rete dell’usura e dell’esazione delle imposte, decisive ipoteche conservatrici sul regime, che non poté mai contare su risorse di bilancio adeguate. In breve volger di anni la vera sede del potere si identificò comunque nelle forze armate – con il connesso apparato della polizia segreta e delle milizie del Guomindang – sotto il diretto controllo di Chiang. La militarizzazione fu il risultato diretto dei due fenomeni che minarono il regime di Nanchino e il suo tentativo di modernizzazione autoritaria: la scelta di condurre un’ininterrotta repressione militare contro la resistenza armata dei contadini e l’accentuarsi delle pressioni dei giapponesi.

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18. Mao Zedong e la lotta di classe armata nelle campagne

Alle repressioni del 1927 sopravvisse solo una minoranza dei dirigenti e dei militanti comunisti: una parte di essi trovò rifugio e prospettive di lotta nelle regioni rurali del centro, dove la polarizzazione sociale aveva creato una tensione sociale altissima. Ancor prima degli eventi del 1927, Mao Zedong aveva identificato nella rivolta dei contadini poveri il fattore decisivo della lotta di classe contro l’ordine costituito. Nel 1927 egli costituì al confine tra Hunan e Jiangxi una prima “base rossa” nella quale una forza armata rivoluzionaria doveva coprire dalla repressione i contadini che stavano creando una società di tipo nuovo con il rovesciamento del potere politico ed economico dei notabili, in un processo “di lunga durata”. L’eredità delle tradizionali rivolte contadine confluiva nella sua strategia con la visione marxista della lotta di classe, in base al convincimento che l’ordine sociale rurale fosse la caratteristica principale della società cinese, nella quale le ipoteche straniere sulle aree moderne si combinavano nelle campagne con i meccanismi di potere retrivi di antiche classi parassitarie. La strategia di Mao riuscì ad aver ragione di una serie di operazioni militari condotte con sempre maggiore potenza dal regime di Nanchino. Questi successi modificarono gradualmente la linea ufficiale del Partito comunista, fino al 1930 ancorato alla speranza di lotte operaie a Shanghai. Per decisione sostenuta da Stalin, dal 1931 le “basi rosse” furono considerate il terreno principale della lotta in Cina tanto che l’apparato del partito e i consiglieri dell’Internazionale comunista vi furono trasferiti, mentre il potere di Mao e dei suoi comandanti militari veniva ridimensionato. La sempre più forte pressione militare del Guomindang, il peso che la guerra faceva gravare sui coltivatori diretti e gli errori strategici degli uomini subentrati ai dirigenti della guerriglia si combinarono, nel 1934, nel creare le condizioni per la sconfitta delle forze rivoluzionarie. Lasciando il sud queste forze dovettero cercare rifugio nel nord attraverso una “lunga marcia” di 10.000 chilometri alla quale sopravvisse solo un quinto dei militanti e dei guerriglieri, ma la quasi totalità dei dirigenti. Nel corso della marcia, in una remota località del sud-ovest – “il posto al mondo più lontano da Mosca” – una riunione di emergenza dei comandanti politici e militari consentì a Mao di prendere il controllo delle forze militari e del partito e di acquisire alla sua linea il sostegno di molti dirigenti in precedenza schierati sulla strategia suggerita dai sovietici. Negli anni successivi – dopo che i comunisti ebbero trovato una nuova base nel nord-ovest, a Yanan – Mao operò sistematicamente e con successo per consolidare il primato raggiunto in quella fase drammatica.

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19. L’invasione giapponese e la resistenza

Alle vicende dello scontro sociale nelle campagne si combinò la politica del Giappone, deciso a ottenere in Cina un’egemonia esclusiva. Nel 1931 i militari giapponesi trasformarono con la forza il controllo dell’economia manciuriana in potere politico diretto sul “protettorato” del Manzhuguo e negli anni successivi stabilirono un dominio di fatto su vaste regioni del nord. L’aggressione giapponese aprì uno scontro politico tra il regime del Guomindang, che preponeva la repressione anticomunista alla resistenza al Giappone, e vasti gruppi di giovani e di intellettuali che chiedevano una mobilitazione totale del paese contro i pericoli dell’invasione. Il partito comunista e il regime delle basi rosse – dichiarando guerra al Giappone – assunsero un ruolo di avanguardia nel chiamare alla lotta contro l’aggressione e da allora furono visti come i difensori dell’identità nazionale cinese contro la minaccia dell’invasione. Negli anni Trenta le città cinesi conobbero una mobilitazione antifascista comparabile a quella in corso in Europa e i comunisti cinesi furono protagonisti di una campagna politica che li legittimò quale forza nazionale e portò al loro interno le esigenze di forze legate all’ideale della democrazia moderna. L’invasione giapponese dell’intera Cina, iniziata nell’estate 1937, aprì nel paese un’epoca tragica, che costò oltre 10 milioni di morti. Il Guomindang aveva alfine deciso di resistere ai giapponesi e una parte delle sue forze lo fece, sia pure con perdite umane gravissime e con operazioni disastrose come la distruzione degli argini dello Huang He. La strategia di Chiang di “vendere spazio per guadagnare tempo” in modo da far agire contro il Giappone fattori internazionali, abbandonò tuttavia agli invasori le terre più ricche della Cina, abitate da oltre metà della popolazione. Di fronte alle confische di raccolti e al reclutamento di lavoratori forzati, i comunisti riuscirono a organizzare vaste masse di contadini nella resistenza contro i giapponesi e contro i cinesi collaborazionisti, mentre il regime di Chiang trovava rifugio nel remoto Sichuan, lontano dalla sua base nelle aree urbanizzate del sud-est. Dopo il dicembre del 1941 la lotta in Cina divenne parte di uno scontro mondiale: gli Stati Uniti, pur apprezzando il contributo prioritario dei comunisti cinesi alla resistenza, continuarono a sostenere Chiang e riconobbero alla Cina un posto tra i cinque grandi; anche Stalin continuò a vedere nel Guomindang il proprio interlocutore principale in Cina. Al momento del crollo del Giappone i comunisti – avendo attuato contro i giapponesi una strategia della quale Mao era stato l’ideatore e il dirigente – controllavano le zone rurali dell’antica e povera Cina del nord e del centro, mentre gli Stati Uniti aiutarono il Guomindang a riprendere il controllo delle aree urbane. L’URSS, entrata in guerra contro il Giappone, nell’agosto del 1945 acquisì il controllo temporaneo della Manciuria.

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20. Il rapido crollo del Guomindang

Tra comunisti e Guomindang si svolsero fino all’estate del 1946 trattative, che fallirono per l’inconciliabilità della politica sociale e rurale delle due parti. Il Guomindang si riteneva sicuro di una rapida vittoria, ma la resistenza frapposta dalla maggioranza dei contadini del nord – mobilitati dai comunisti con una politica agraria che spossessava i proprietari non coltivatori – unita a brillanti operazioni per sostituire le forze sovietiche in Manciuria fecero pendere le sorti del conflitto a favore dei comunisti già alla fine del 1947, nonostante il crescente impegno militare statunitense a favore di Chiang. A travolgere il regime di Nanchino contribuirono da un lato il crollo del consenso del ceto medio urbano – determinato dall’inadeguata politica nazionalista nella difesa delle aree moderne dall’invasione giapponese e dalla sistematica ripresa di misure sociali repressive e di pratiche illiberali – e dall’altro la catastrofica inflazione e la diffusa corruzione che tolsero a Chiang l’appoggio dell’imprenditoria di Shanghai. Più che a motivi militari si dovette quindi a circostanze sociali e politiche la catastrofe che tra l’autunno del 1948 e la primavera del 1949 travolse il regime del Guomindang nelle varie regioni cinesi e lo costrinse a rifugiarsi nell’isola di Taiwan, presto protetta dagli Stati Uniti.

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21. La Cina di Mao e le sue basi sociali

Il 1° ottobre 1949 Mao Zedong proclamò a Pechino la nascita della “Repubblica popolare cinese”, subito investita dalle ripercussioni della guerra fredda e da un assedio internazionale superato solo dopo il 1980. Totale e coronato da successo fu l’impegno dei dirigenti comunisti – soprattutto dell’abile primo ministro Zhou Enlai – per riacquistare e riaffermare, pur in circostanze estremamente difficili, la piena sovranità e indipendenza del paese. Costretto a confrontarsi militarmente in Corea con gli Stati Uniti che non lo riconobbero e che ne imposero l’esclusione dalle Nazioni Unite per oltre vent’anni, il nuovo stato cinese stabilì un’alleanza con l’URSS, che cercò per parte sua di costringere i comunisti cinesi a un rapporto di subalternità. Questi dal 1956 contestarono il “ruolo di guida” dell’URSS nel sistema comunista provocando, tra il 1960 e il 1980 crescenti pressioni politiche e militari sovietiche, che determinarono nel 1969 anche scontri armati. In questa situazione la Cina cercò di stabilire un rapporto con i paesi usciti dall’esperienza coloniale e con le forze rivoluzionarie in lotta in Asia, in Africa e in America latina per ottenere un’indipendenza effettiva. Dal punto di vista sociale, pilastro fondante del nuovo regime fu il controllo acquisito dai comunisti sulle campagne del nord nella resistenza antigiapponese e poi con la trasformazione agraria attuata in queste regioni nel corso della lotta armata contro il Guomindang; dopo il 1950 la legge di riforma agraria estese il rovesciamento dell’ordine rurale al centro e al sud con una sistematica mobilitazione di massa. Con una sanguinosa resa di conti tutta la terra non coltivata direttamente fu confiscata e distribuita ai contadini poveri o senza terra. Così la rivoluzione sociale radicò nelle campagne il potere dei militanti comunisti che provenivano in maggioranza dai ranghi dei contadini poveri, si erano formati nella lotta armata o nel servizio nell’esercito popolare. Questo, reclutato tra i contadini “di buone origini di classe”, divenne la struttura essenziale per la modernizzazione delle campagne, per l’ascesa degli elementi rurali politicamente fidati e per la gestione di istituzioni radicate nelle campagne. I “quadri rurali-militari” furono il sostegno della politica di Mao sia al momento della collettivizzazione della terra nel 1955, sia nella creazione, nel 1958, delle comuni che erano vere e proprie cellule di base della società rurale, sia nel periodo di carestia tra il 1959 e il 1962. Divenuti la componente maggioritaria del partito al potere, questi uomini, che dovevano tutto alla rivoluzione, assicurarono un controllo sociale totale del nuovo regime sulle campagne e a Mao personalmente il consenso della società rurale. Dotati nel periodo maoista più di strumenti di potere che di privilegi materiali, essi portarono all’interno del regime istanze autoritarie, tradizionaliste e ugualitarie che determinarono molte delle scelte politiche di Mao. Dopo la sua morte, si trovarono in posizione di vantaggio per trasformare il proprio potere politico in occasione di privilegio economico, quando la politica di smantellamento delle strutture collettive e di sostanziale privatizzazione della terra attuata da Deng Xiaoping permise ad “alcuni contadini di divenire ricchi prima degli altri”. Essi furono così ancora una volta essenziale strumento del consenso delle campagne, in particolare nelle prospere regioni del sud-est e dell’estremo sud, dove il collettivismo aveva finito col penalizzare il potenziale produttivo e la privatizzazione ha permesso ritmi altissimi di sviluppo. Questi figli e nipoti della rivoluzione agraria sono ora i nuovi notabili di regioni protagoniste di un vero e proprio miracolo economico e detengono un potere segnato da connotati mafiosi e comunque da pericolose spinte localiste. Più problematico fu per i comunisti il controllo delle aree urbane, nelle quali il potere del partito non era fondato su un’eredità immediata di lotta. Fattore decisivo di successo furono comunque l’arresto dell’inflazione, ottenuto con la distribuzione attraverso un circuito extra-monetario di beni e servizi per assicurare una sussistenza elementare a tutti coloro che svolgessero lavoro dipendente; e la rapida creazione di posti nell’industria, in modo da assorbire i numerosi disoccupati ed emarginati urbani. Il proletariato nato dalla politica di industrializzazione pianificata, intrapresa secondo il modello sovietico con il varo nel 1953 del primo piano quinquennale, godette di sostanziali benché povere garanzie e del posto di lavoro sicuro, divenendo nelle città un’importante base di consenso, fino a che poté essere mantenuta una politica di pieno impiego. Quando questa venne meno dopo il 1960-62, tra i giovani di città si profilarono tensioni che costituirono lo sfondo dei più gravi scontri della “rivoluzione culturale”. Estremamente difficili furono i rapporti dei comunisti con gli intellettuali, portatori di radicate benché confuse istanze democratiche fin dalla lotta antifascista degli anni Trenta. Disposti a sostenere il nuovo regime per motivi patriottici, questi uomini furono usati strumentalmente, ma rimasero esclusi dalla partecipazione alle decisioni politiche da parte di un potere autoritario, che non volle combattere l’ostilità dei quadri contadini verso coloro che “nei secoli avevano governato in quanto possessori della cultura”. Gli intellettuali delle vecchie generazioni – anche coloro che avevano partecipato con grandi sacrifici alla lotta rivoluzionaria – furono vittime di diffidenze e di accuse infondate nel corso di campagne di massa iniziate nel 1957 e durate vent’anni, mentre sui loro figli, avvantaggiati sul piano culturale, si scatenò per l’accesso alle università e alla qualificazione superiore l’ostilità dei giovani coperti da protezioni politiche o da buone “credenziali sociali”. Poiché la produzione agricola non appariva soddisfacente, nel 1958 Mao lanciò la linea del “grande balzo in avanti” indicando l’obiettivo sia di aumentare la produzione sia di passare dalla fase delle cooperative a quella delle “comuni”, fondate sull’autonomia produttiva industriale e agricola e su incentivi non già individuali ma collettivi e fortemente egualitari al fine di sviluppare lo spirito comunista. Se non che i risultati furono disastrosi, provocando una gravissima carestia con molti milioni di morti. Dopo che già nel 1960 era stato posto il freno alla linea del “grande balzo”, questa venne liquidata nel 1962. Il nuovo corso voluto da Mao ebbe il duplice effetto di inasprire fino alla rottura i rapporti con l’URSS e di determinare una grave crisi nei rapporti interni al gruppo dirigente cinese tra radicali e moderati. Nel 1960 i sovietici bollarono come “avventurismo” la politica maoista, ritirando i loro consiglieri e bloccando i loro finanziamenti. Fu la rottura tra Cina e URSS. Ad essa contribuirono in maniera essenziale il fatto che i cinesi non si erano sentiti sostenuti dai sovietici in relazione al conflitto con l’India per il Tibet e alle loro rivendicazioni su Formosa nel contesto di un pesante peggioramento delle relazioni con gli USA. Altro fattore essenziale della rottura fu il rifiuto sovietico di mantenere l’impegno preso di fornire ai cinesi i piani per costruire la bomba atomica, che in seguito la Cina avrebbe costruito e fatto scoppiare nel 1964. La frattura si trasformò in conflitto aperto in tutti i campi. Nel 1962 la Cina assunse la tutela dell’Albania uscita dal blocco sovietico. I contrasti all’interno del gruppo dirigente cinese trovarono la loro manifestazione da un lato nell’abbandono da parte di Mao nel 1959 della presidenza della repubblica, affidata a Liu Shaoqi, un maoista di tendenze relativamente moderate, dall’altro nella nomina di un fedelissimo di Mao, Lin Biao, a ministro della difesa. Si trattava di equilibri quanto mai incerti, venuti meno quando nel 1965 Mao denunciò apertamente il pericolo di restaurazione che proveniva da coloro che nel gruppo dirigente erano fautori della via capitalistica e sostenitori del revisionismo dei capi sovietici traditori della causa socialista. Nel 1966 Mao lanciò contro i suoi oppositori la “rivoluzione culturale”, così detta perché volta a sradicare i comportamenti pratici condizionati da una falsa ideologia, che avrebbe sconvolto la Cina fino all’inizio degli anni Settanta. Non a caso essa portò ad attaccare, oltre a dirigenti politici e quadri di partito, anche numerosi intellettuali. Primi artefici della rivoluzione furono gli studenti maoisti, le “guardie rosse”, che investirono le istituzioni culturali, le scuole e le università, guidati dal “libretto rosso” delle citazioni di Mao, divenuto oggetto da parte dei suoi seguaci di una vera e propria divinizzazione. Obiettivo della mobilitazione dei giovani contro le ingiustizie esistenti nella società avrebbero dovuto essere i privilegi di ogni genere. Le autorità centrali e soprattutto locali riuscirono tuttavia, con manovre sottili e spietate, a deviare contro gli intellettuali e i pochi sopravvissuti della vecchia borghesia la spinta eversiva delle nuove generazioni, tenendo invece al riparo l’assetto sociale e politico del potere fondato sul monopolio del partito. Degli scontri violenti intervenuti nel 1966-67 e della successiva repressione contro iniziative di rottura sfuggite al controllo politico furono vittime soprattutto i gruppi giovanili che avevano creduto all’appello egualitario di Mao e vennero poi emarginati. L’immagine corrente della “rivoluzione culturale” fu tuttavia quella accreditata dagli intellettuali, che certo subirono ingiusti e spesso atroci insulti e persecuzioni, ma ritrovarono la loro collocazione sociale dopo la morte di Mao. Nel dirigere la rivoluzione nella fase iniziale un ruolo preminente ebbe Lin Biao, divenuto il delfino di Mao. Alla fine del 1966 Liu Shaoqi venne messo sotto accusa in quanto fautore della via capitalistica e sostenitore della burocrazia. Nel 1968 i disordini erano ormai così aspri e il pericolo di collasso del paese così grave che l’esercito dovette intervenire in forza. A un’ala più moderata rappresentata da Zhou Enlai si contrapponeva un’ala di ultrasinistra, poi condannata come “anarchica”, decisa a rifondare dalle fondamenta il paese. Nel 1968-69 Mao stesso procedette ad avviare un processo di normalizzazione, posto sotto il segno della vittoria del “pensiero di Mao”. Nel 1971 Lin Biao morì in un incidente aereo, mentre si dirigeva verso l’URSS; e Zhou Enlai lo denunciò come traditore e artefice di un fallito colpo di stato diretto contro Mao. Fu il segno del sopravvento della linea di Zhou, deciso a porre fine alla rivoluzione. Nel 1971 la Cina entrò all’ONU e nel 1972 Nixon visitò il paese: un’apertura che avrebbe portato nel 1979 gli USA a riconoscere la Cina. Tra il 1973 e il 1976 la corrente di Zhou si scontrò con gli estremisti del “gruppo di Shangai” detto anche “banda dei quattro” (cui apparteneva anche la moglie di Mao). Nel 1976 morirono prima Zhou e poi Mao. La morte di quest’ultimo favorì la disfatta della “banda dei quattro” mentre era a capo del governo Hua Guofeng. Il periodo maoista fu contraddistinto da tratti originali rispetto all’esperienza sovietica: l’economia del paese – salvo che nella carestia del 1959-61 – conobbe una grande espansione, con il raggiungimento dell’autosufficienza alimentare e forti incrementi assoluti nella produzione delle principali derrate; a ciò si deve aggiungere un rapido sviluppo industriale, che negli anni Settanta portò la Cina tra le prime dieci potenze industriali, soprattutto nella produzione pesante. Questo indubitabile successo nella produzione assoluta fu tuttavia ridimensionato dal forte aumento della popolazione, passata da circa 540 milioni nel 1949 a oltre 900 nel 1976. Tanto nell’agricoltura quanto nell’industria il quadro esistente alla morte di Mao nel 1976 era positivo, se rapportato all’esigenza – tipica della strategia maoista – di garantire la copertura dei bisogni fondamentali della maggioranza dei cinesi in un’economia a circuito interno che mantenesse il tradizionale equilibrio tra città e campagna e contenesse il differenziale tra le aree privilegiate e quelle povere.

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22. Dalle riforme di Deng Xiaoping all'inizio degli anni Duemila

La strategia proposta da Deng Xiaoping, un allievo politico di Zhou epurato durante la rivoluzione culturale, emerso vittorioso dalla lotta per il potere nel 1978, mirò invece a ridurre la distanza della Cina dai paesi ricchi e sviluppati. Tale strategia – da Deng definita delle “quattro modernizzazioni” (dell’agricoltura, dell’industria, della scienza e tecnologia e delle forze armate) – liquidò l’eredità della rivoluzione culturale, riorganizzò il partito, aprì le porte della Cina all’estero, favorì lo sviluppo di un “mercato socialista”, promuovendo l’iniziativa e gli incentivi individuali. Essa contò, in una prima fase, sul potenziale produttivo emerso nelle campagne prospere in concomitanza con l’eliminazione delle strutture collettive e manifestatosi in un vertiginoso aumento della produzione agricola vendibile e in uno sviluppo esponenziale delle piccole e medie industrie create nelle zone rurali costiere da investimenti di capitale locale o di emigranti cinesi. Successivamente, e in parallelo, fu programmata la trasformazione della struttura produttiva urbana e industriale: venne ridotto il margine delle garanzie economiche offerte dallo stato alla popolazione urbana (con la fornitura di beni e servizi a prezzo politico e il mantenimento a vita del posto di lavoro) e alle aziende con l’introduzione di criteri di redditività e concorrenzialità. Anche nel settore industriale la produzione conobbe aumenti che portarono complessivamente la Cina tra le prime tre o quattro economie del mondo per livelli assoluti di produzione. Si manifestarono peraltro anche molteplici fenomeni negativi quali il forte aumento del differenziale tra regioni ricche e povere, famiglie prospere e famiglie emarginate, il massiccio spostamento di giovani uomini dalle campagne alle città (mentre la manodopera femminile veniva impiegata fin dall’adolescenza nelle piccole aziende locali al di fuori di ogni tutela), l’abbandono dell’attività agricola nelle zone marginali, il costante deficit delle aziende statali operanti in settori fondamentali e che occupano la maggioranza dei lavoratori dipendenti garantiti, la sistematica evasione fiscale delle nuove aziende e dei gruppi sociali arricchitisi in maniera incontrollata, i forti ritmi inflazionistici sconosciuti nella Cina maoista, le spinte separatiste delle autorità locali nelle aree più ricche e anche fenomeni di criminalità organizzata a netta caratterizzazione mafiosa. Si tratta di fenomeni che possono essere effetto del trapasso rapido di un paese rimasto fino al 1978 legato a canoni tradizionali specificamente cinesi a una società moderna retta da leggi economiche fondate sul mercato e sul profitto. È però difficile prevedere in che misura essi possano essere governati e controllati da un potere politico che resta contraddistinto dal totale monopolio di un partito nato nel 1921 dalle istanze nazionali degli intellettuali patriottici, giunto alla vittoria nel 1949 sulla spinta di una rivoluzione contadina armata e divenuto nel tempo una struttura capillarmente insediata a ogni livello di autorità, lecita e illecita, nel campo dell’economia, della cultura, delle istituzioni. La grande ondata di protesta della gioventù urbana, influenzata dalle vicende sovietiche e scatenatasi, dopo una visita di Gorbacëv in Cina, nel 1989 a Tienanmen a Pechino e poi duramente repressa sotto la direzione del segretario del partito Jiang Zemin, ebbe motivazioni culturali e ideologiche legate al momento internazionale, ma nel quadro di una società in rapido movimento. Altre tensioni si manifestarono nelle campagne e nelle città, mentre contraddizioni regionali ed etniche, sfide economiche internazionali e scelte tecnologiche nuove mostrarono di richiedere l’attenzione di un governo forte e dotato di consenso, libero dalle ipoteche di problemi personali di successione o di pregiudizi ideologici. La repressione messa in atto nel 1989 portò temporaneamente gli Stati Uniti e altri paesi a introdurre sanzioni contro la Cina, che furono però presto ritirate. Nel 1999 la costituzione riconobbe formalmente il diritto alla proprietà privata. In politica estera gli avvenimenti più significativi dell’era postmaoista furono un breve ma aspro conflitto armato scoppiato nel 1979 con il Vietnam dopo che questo aveva invaso la Cambogia nel 1978, le trattative con la Gran Bretagna e con il Portogallo che riportarono rispettivamente nel 1997 Hong Kong e nel 1999 Macao sotto la sovranità cinese e il permanere delle tensioni, acutizzatesi nel 1999, con Taiwan, sulla quale la Repubblica popolare rivendica tuttora la sovranità. La morte di Deng nel 1997 portò senza lacerazioni Jiang Zemin ad assumerne la successione. Una visita del presidente americano Clinton a Pechino nel 1998 mise in evidenza le buone relazioni con gli USA, nonostante le reiterate critiche che questi ultimi rivolsero al governo cinese per il suo disconoscimento dei diritti umani. Queste relazioni furono però incrinate dalla guerra condotta dalla NATO contro la Iugoslavia nel 1999, che portò al grave incidente del bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado. Gli straordinari progressi economici conseguiti a partire dalla metà degli anni Ottanta resero nei decenni successivi la Cina una delle maggiori potenze economiche mondiali. Nel 2001 la Cina entrò a far parte della WTO. Tra 2002 e 2004 Jiang Zemin cedette gradualmente il potere al suo successore Hu Jintao, il quale prima fu nominato segretario generale del partito (2002), poi fu eletto alla presidenza (2003) e infine fu posto a capo dell’esercito (2004). In generale, nonostante le eccezionali performances economiche, che nel 2010 permisero alla Cina di superare il Giappone e di divenire così il secondo paese più industrializzato del mondo dopo gli Stati Uniti, il controllo del partito sul paese restò immuatato anche negli anni Duemila, come peraltro dimostrarono i numerosi casi di repressione nei confronti degli oppositori politici, il più noto dei quali è il Premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo. Sul piano internazionale, la Cina continuò a sviluppare la cooperazione economica con la maggioranza degli stati occidentali e a svolgere un ruolo politico di primo piano in qualità di mediatore tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti. Le relazioni con Taiwan, molto tese durante la presidenza di Chen Shui-bian, si distesero solo all’indomani del ritorno al potere del Guomindang e giunsero a un importante momento di svolta nel 2010, quando tra i due paesi fu siglato un importante accordo commerciale.


[Enrica Collotti Pischel].



Sul finire del 2012 Hu Jintao si dimise dalla segreteria generale del partito e fu sostituito da Xi Jinping, il quale, dopo essere stato eletto a capo della Commissione militare centrale, assunse nel marzo 2013 l’incarico di presidente della Repubblica. Nello stesso anno il premier Wen Jiabao fu sostituito da Li Keqiang.

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100. TABELLA: Dinastie e imperatori cinesi (1127-1911)

Dinastia Song 1127-1279
Kao Tsung (S. Song) 1127-1162
Hsiao Tsung 1162-1189
Kuang Tsung 1189-1194
Ning Zong 1194-1224
Li Tsung 1224-1264
Tu Tsung 1264-1274
Kung Ti 1274-1276
Tuang Tsung 1276-1278
Ti Ping 1278-1279
Dinastia Mogol (Yuan) 1206-1368
(titolo imperiale dal 1279)
T’ai Tsung (Gengis Khan) 1206-1227
T’ai Tsung (Ogodai Khan) 1229-1241
Ting Tsung (Kuyak Khan) 1246-1251
Hsien Tsung (Mangu Khan) 1251-1260
Shih Tsu (Qubilay Khan) 1259-1294
Ch’eng Tsung 1294-1307
Wu Tsung 1307-1311
Jen Tsung 1311-1320
Ying Tsung 1320-1323
T’ai Ting Ti 1323-1328
Yu Chu 1328
Ming Tsung 1328-1329
Wen Tsung 1329-1332
Ning Tsung 1332-1333
Shun Ti 1333-1368
Dinastia Ming 1368-1644
T’ai Tsu (Zhu Yuanzhang) 1368-1398
Hui Ti 1398-1402
Ch’eng Tsu 1402-1424
Jen Tsung 1424-1425
Hsuan Tsung 1424-1425
Ying Tsung 1457-1464
Hsien Tsung 1464-1487
Hsiao Tsung 1487-1505
Wu Tsung 1505-1521
Shih Tsung 1521-1566
Mu Tsung 1566-1572
Shen Tsung 1572-1620
Kuang Tsung 1620
Hsi Tsung 1620-1627
Ssu Tsung 1627-1644
Dinastia Manciù (Qing) 1644-1911
Shih Tsu 1644-1661
Kang Xi 1662-1722
Yung Cheng 1723-1735
Qianglong 1736-1796
Jen Tsung 1795-1820
Hsuan Tsung 1820-1850
Wen Tsung 1850-1861
Mu Tsung 1861-1875
Guangxu 1875-1908
Pu Yi 1908-1911

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101. TABELLA: Capi di Stato (1949-2011)

Mao Zedong 1949-1959
Liu Shaoqi 1959-1968
Dong Biwu 1968-1975
Zhu De 1975-1976*
Ye Jianying 1978-1983
Li Xiannian 1983-1988
Yang Shangkun 1988-1993
Jiang Zemin 1993-2003
Hu Jintao 2003-
* Tra il 1976 ed il 1978 la posizione rimase vacante
Primi ministri
Zhou Enlai 1949-1976
Hua Guofeng 1976-1980
Zhao Ziyang 1980-1987
Li Peng 1987-1998
Zhu Rongji 1998-2003
Wen Jiabao 2003-
Capi del Partito comunista cinese
Presidenti
Mao Zedong 1949-1976
Hua Guofeng 1976-1981
Hu Yaobang 1981-1982
Segretari generali*
Hu Yaobang 1980-1987
Zhao Ziyang 1987-1989
Jiang Zemin 1989-2002

Hu Jintao 2003-2013

Xi Jinping 2013-

* La Segreteria generale del Comitato Centrale costituisce la posizione di vertice del Partito dal 1982, quando la Presidenza venne abolita.

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