Burundi

Stato attuale dell’Africa centro-orientale. Le vicende del Burundi sono sostanzialmente parallele a quelle del vicino Ruanda e i rapporti fra i due paesi sono caratterizzati da drammatici problemi comuni legati al sottosviluppo e alle tensioni etniche. Abitato fin dalla preistoria dagli twa (pigmoidi di cui oggi restano piccoli gruppi) a cui si sovrapposero gli hutu (popolazioni bantu di agricoltori), il Burundi fu poi occupato intorno al XVI-XVII secolo da una popolazione camitica di allevatori provenienti dalla zona dell’alto corso del Nilo, i tutsi. Questi ultimi si imposero subito sugli hutu e, sotto la guida del sovrano Ntare Rushatsi, agli inizi del XVIII secolo diedero vita al regno del Burundi e a una dinastia formalmente sopravvissuta per tutta l’epoca coloniale, fino 1966. Alla fine del XIX secolo il suo territorio divenne zona di penetrazione tedesca, sino a entrare a far parte dell’Africa orientale tedesca nel 1898. Il Burundi rimase sotto il controllo tedesco sino al 1916, quando il Belgio sconfisse le truppe tedesche ivi stanziate. Nel 1919 insieme al Ruanda fu sottoposto al mandato del Belgio (come Ruanda-Urundi), riconfermato poi nel 1923 dalla Società delle Nazioni. Dopo la seconda guerra mondiale il Belgio mantenne la propria presenza nel paese con un’amministrazione fiduciaria che gli fu affidata dall’ONU nel 1946 e che rimase operante sino al 1959, quando il Burundi raggiunse l’autonomia. Le elezioni del 1961 attribuirono la maggioranza al Partito dell’unità e del progresso nazionale (UPRONA). L’indipendenza del paese venne infine concessa contemporaneamente al Ruanda, nel luglio 1962: per ragioni di prestigio il paese assunse allora il nome di “Burundi”, nell’intento di ricollegarsi idealmente alla tradizione dell’antico regno costituitosi sul suo territorio (la cui dinastia fu lasciata sul trono anche in epoca coloniale). Esplosero subito forti contrasti interetnici fra l’aristocrazia dei tutsi e la maggioranza degli hutu, che divennero poi l’elemento fondamentale della storia recente del Burundi. Le radici del conflitto etnico sono da ricercarsi nel fatto che la minoranza tutsi fu sempre politicamente prevalente rispetto alla maggioranza hutu e fu cementata al suo interno da forti legami clientelari. I colonizzatori tedeschi e belgi d’altra parte non fecero che radicalizzare questa situazione nell’intento di volgerla a proprio vantaggio: favorirono infatti la scelta di tutti i capi locali sottoposti al sovrano (mwami) fra l’etnia tutsi, anziché trarli almeno in parte dalla maggioranza hutu com’era in passato. Su questa base si innestarono poi negli anni Sessanta una serie di fattori interni ed esterni che contribuirono a far precipitare la situazione. Sul Burundi pesarono infatti le ripercussioni della “rivoluzione hutu” del 1961-62 in Ruanda, che comportò un grande afflusso di profughi tutsi esasperati nel paese. Dopo i brevi e fragili regni di Mwambutsa IV e di suo figlio Charles Ndizeye, divenuto re con il titolo di Ntare V, un complotto hutu nel 1965 provocò la fine della monarchia e portò al potere il capitano M. Micombero, primo ministro, che il 28 novembre 1966 proclamò la repubblica, autonominandosi presidente. Da allora il potere fu assunto da tutsi estremisti, espressione della regione meridionale del Bururi. La graduale trasformazione in una forma dittatoriale a partito unico sostenuta dall’UPRONA aprì una nuova stagione di complotti (con la morte dell’ex sovrano Ntare V) e di feroci lotte fra hutu e tutsi, sino al colpo di stato del 1° novembre 1976 quando la dittatura di Micombero fu abbattuta da un Consiglio supremo rivoluzionario guidato dal colonnello Jean-Baptiste Bagaza, allora eletto presidente della repubblica e rieletto nell’agosto 1984. Durante la sua presidenza i conflitti conobbero una fase di tregua apparente, sino al nuovo colpo di stato condotto nel novembre 1987 da un Comitato di salvezza nazionale guidato da militari e capeggiato dal maggiore Pierre Buyoya, dell’etnia tutsi. Questi sciolse l’UPRONA e l’assemblea nazionale e cercò di migliorare i rapporti con l’Occidente, fallendo tuttavia sul fronte interno, dove si ebbe una recrudescenza degli scontri interetnici con nuovi massacri nell’agosto 1988. Buyoya tentò allora di limitare il predominio dei tutsi creando una commissione di riconciliazione nazionale e affidando dal gennaio 1989 la carica di primo ministro ad Adrien Sibomana di origine hutu. Fu introdotto il multipartitismo e le elezioni presidenziali del 1993 portarono alla vittoria di un giovane hutu rientrato dall’esilio, Melchior Ndadaye, il cui partito ottenne anche la maggioranza assoluta alle elezioni legislative. Nell’ottobre di quell’anno Ndadaye venne assassinato e così nell’aprile del 1994 il suo successore hutu. Il successivo governo del presidente Ntibantunganya non fu un grado di affrontare i contrasti tra l’etnia hutu e quella tutsi, così che il paese precipitò in una sanguinosa guerra civile voltasi a favore dei tutsi, causando circa 200.000 morti e oltre 700.000 profughi a maggioranza hutu. Nel 1996 un colpo di stato messo in atto dai tutsi stabilì una dittatura militare, che riportò al potere Buyoya e scatenò dure reazioni internazionali. Nel 1998-99 il governo avviò trattative con gli hutu, senza però che avessero ancora fine gli scontri armati. Nel 1999 le forze armate del Burundi entrarono nella Rep. Democratica del Congo a sostegno dei ribelli contro il governo centrale, restando coinvolte nella guerra civile. Sul piano interno, il processo di pace non ebbe effetti significativi anche dopo l’inaugurazione nel 2001 di un nuovo governo di transizione, la cui guida fu assegnata per i primi diciotto mesi a Buyoya (tutsi) e poi, per altri diciotto mesi, a Domitien Ndayizeye (hutu), il quale, grazie a un accordo con i ribelli, nel 2003 pose fine alla guerra civile. Due anni dopo entrò in vigore una nuova costituzione e un hutu, Pierre Nkurunziza, divenne presidente. Quest’ultimo, fortemente impegnato nel rilancio economico del paese, giocò un ruolo di primo piano nella ricostituzione della Comunità Economica dei Paesi dei Grandi Laghi, cui nel 2007 aderirono, tra gli altri, la Repubblica Democratica del Congo e lo stesso Burundi. Negli anni successivi Nkurunziza adottò una linea politica sempre più autoritaria e nel 2010, a seguito del ritiro di tutti i suoi avversari, fu rieletto alla presidenza con una larghissima maggioranza (oltre il 90%).