buddhismo

Il termine “buddhismo” è stato coniato in Occidente tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo per designare la religione fondata dal Buddha. Ancor oggi viene utilizzato in tale accezione (buddhismo come “religione di stato” in Sri Lanka e Thailandia), ma è più propriamente riferito ai diversi edifici dottrinali elaborati dalle scuole o “sette” che si rifanno al Buddha (in India i nikaya, in Cina gli tsung, in Giappone gli shu), i quali non sempre ricadono nell’ambito usuale della categoria di “religione”, negandosi in essi sia un Dio personale (Isvara) autore del mondo e salvatore dei suoi devoti, sia un “sé” (lo atman) che sopravviva alla morte. L’asceta indiano (sramana) che sta all’origine di tali scuole proveniva dalla repubblica aristocratica dei nobili Sakya (donde l’epiteto di Sakyamuni, “silenzioso degli Sakya”) ed è noto dalle fonti più antiche con un patronimico derivato dal clan brahmanico dei Gautama. Sono accrezioni tardive a una leggenda variamente elaborata nei secoli il nome Siddhartha, la nascita da Mayadevi, sposa del re Suddhodana, le nozze con la principessa Yasodhara. Dopo una lunga vita d’insegnamento errabondo, che lo vide in rapporto con importanti monarchi dell’India del nord, come Bimbisara re dei Magadha e il figlio di lui Ajatasatru, il maestro, ottuagenario, si spense presso Kusinagara nel territorio dei Malla, il suo Nirvana essendo datato tra il 543-44 a.C. (termine più alto della cronologia lunga, basata su fonti singalesi) e il 368-67 a.C. (termine più basso della cronologia corta, basata su fonti indiane e cinesi). Gautama è venerato con l’epiteto di Buddha, “che s’è accorto, che ha capito, che sa, che s’è desto” a seguito dell’esperienza salvifica attinta presso il villaggio di Uruvilva, la bodhi, di cui forma oggetto il dharma contenuto negli insegnamenti a lui ascritti, al tempo stesso “saldo fondamento” normativo della prassi ascetica e “dottrina” elucidante la gnosi salvifica nei suoi diversi aspetti. I suoi seguaci, detti Bauddha, formarono una comunità (il Sangha) di asceti itineranti che mendicavano il proprio cibo (i bhiksu) e adottavano procedimenti e regole delle assemblee aristocratiche dell’epoca. Tale comunità si scisse assai presto in una trentina di scuole concorrenti, ciascuna con un suo Canone di testi tradizionalmente ascritti al maestro. Tali testi concordano su alcune concezioni fondamentali: a) ogni esperire è segnato dalla triade di disagio esistenziale (duhkha), impermanenza (anityatva) e assenza di un “sé” ontologicamente consistente (anatmatva); b) in assenza di tale sé perdurante attraverso i mutamenti psicofisici e trasmigrante di vita in vita, l’essere vivente, e segnatamente l’uomo, è ridotto a cinque aggregati di fenomeni corporei e mentali (skandha), che si riproducono, in una serie talora discontinua che abbraccia una indefinita molteplicità d’esistenze, a seguito di un complesso processo articolato in più fasi (dodici nella versione più diffusa), il “con-sorgere in presenza di condizioni/cause” (pratityasamutpada); c) tra queste occupa una posizione centrale la “sete” (trsna), propensione cieca e incontrollabile variamente diretta all’esperire i piaceri, all’esistere e al non-esistere, ma alla radice di tutte sta la “nescienza” (avidya), che include una serie di vedute (drsti) erronee e/o parziali sull’uomo e sul mondo; solo una sapiente combinazione di prassi ascetico/meditativa e di gnosi può venire a capo di entrambe; d) l’arresto/contenimento (nirodha) dei dinamismi psichici e dell’input karmico ad essi conseguente (asrava), ottenuto con il sorgere della bodhi, arresta il processo con la morte del corpo presente: è questo lo “spegnersi” (Nirvana), stato ineffabile e paradossale, che non va interpretato né come proseguimento del sé, né come sua cessazione, dal momento che un sé in effetti non esiste. Un primo scisma, 137 anni dopo il Nirvana del Buddha, oppose il partito della “Grande Comunità” (Mahasangha), che accettava imperfezioni nel detentore della bodhi (arhat, lett. “degno”), a quello dei “decani” (Sthavira). Dal primo si sviluppò una serie di indirizzi professanti il Lokottaravada, valorizzante la figura “ultramondana” del Buddha, fino ad anticipare gli esiti del docetismo in Occidente. Dal secondo si scissero i sostenitori del Pudgalavada, che reintrodussero la nozione di un sé inteso come epifenomeno dei cinque aggregati, poi, con il Concilio di Pataliputra (sotto il re Asoka della dinastia dei Maurya, regnante dal 270 circa a.C.), esso si divise in due partiti: i conservatori Vibhajyavadin, destinati a fiorire a Ceylon e nell’India meridionale, e i Sarvastivadin, che si arroccarono nel Kashmir. I secondi erano destinati a una vivace fioritura intellettuale, culminante nella redazione della Mahavibhasa, il “Gran Commento” sotto la direzione di Vasumitra, forse contemporaneo del re dei Kusana Kaniska (tra il 78 e il 278 d.C.). Sostenendo tra l’altro la realtà di eventi passati e futuri accanto a quelli presenti, che sono dotati in più di un’esistenza attuale (bhava), i Vaibhasika (“del Commento”) teorizzarono l’universo come continuum di microeventi (ksana, “attimi”), ciascuno dotato di brevissima durata. Nel IV secolo d.C. si opposero a loro i Sautrantika (“dei Sutra”), che negavano tale durata e consideravano i microeventi assolutamente istantanei. Furono le sole scuole del buddhismo antico ad attirare l’attenzione dei sistemi di pensiero brahmanici, accanto a quelle del “Grande Veicolo” (Mahayana). Questo sorse da un’abbondante letteratura anonima diffusa a partire dal I-II secolo d.C. lungo le vie carovaniere tra il sud-est e il nord-ovest dell’India, svalutante l’ideale dell’attingimento del Nirvana, cui veniva contrapposto il voto dei Bodhisattva (Buddha in fieri), che rifiutavano di metter termine alle loro vite finché l’ultimo essere non avrà raggiunto la liberazione. Ciò si accompagnava a una certa valorizzazione del ruolo dei “laici”. Bodhisattva e Buddha interamente extramondani, formanti un colorito pantheon in concorrenza con quello dell’induismo nascente, si sovrapposero in questi testi alla figura storica dello Sakyamuni, avallando significative discrepanze dai vecchi insegnamenti, degradati a “Piccolo Veicolo” (Hinayana), adatto a pochi e bisognoso di essere integrato e corretto. Interpreti ed esegeti di questa letteratura furono i maestri dei due indirizzi che si formarono ben presto tra i suoi seguaci: la “Via mediana” (Madhyamika) tra affermazione e negazione del sottile dialettico Nagarjuna (II-III sec. d.C.), approdante alla Vacuità di tutti i fenomeni (Sunyata), e la “Dottrina della consapevolezza” (Vijnanavada) predicata da Maitreya e dai fratellastri Asanga e Vasubandhu (IV sec. d.C.) come unico orizzonte del conoscere, essendo il mondo esterno, inaccessibile ad esso, sostituito dal prodotto di una erronea esteriorizzazione di eventi puramente mentali. Dotato di notevole prestigio, ma di scarso seguito in patria, il Mahayana partecipò con crescente successo alla diffusione missionaria del dharma fuori dall’India, per via marittima verso l’Indocina e l’Indonesia, per via terrestre verso l’Asia Centrale e la Cina. Si distinsero in quest’opera anche personaggi non indiani, che conosciamo da testimonianze cinesi: il principe arsacide An-shi-kao (in Cina dal 148 d.C.), lo scita Chih Lou-chia-ch’an (dal 167) e più tardi il figlio d’una principessa serindiana di Kucha, il gran traduttore Kumarajiva (344-413). L’attivo interessamento di patroni quali l’imperatore Wu della dinastia Liang (502-549) contribuì alla penetrazione in Cina, malgrado sporadiche persecuzioni come quella del 574-577 da parte di un altro imperatore Wu, dei Chou settentrionali. Questa fu l’epoca di massima fioritura dei diversi “buddhismi”. Nel sud dell’India il maestro Buddhaghosa (V sec.) con i numerosi commenti al Canone e il trattato noto come “Via alla completa purificazione” (Visuddhimagga) fondò l’ortodossia di quello che fu chiamato dal VII secolo Theravada (pali per Sthaviravada, “Dottrina dei Decani”), destinato a diffondersi da Ceylon in Birmania e poi in tutta l’Indocina. Le scuole mahayaniche si misurarono in tornei dialettici con gli esponenti dei sistemi di pensiero brahmanici, creando una loro logica duttile e raffinata con Dinnaga (VI sec.) e Dharmakirti (metà del VII sec.), mentre un flusso costante di pellegrini venne a procurarsi testi e ad apprendere di prima mano le ultime conquiste dottrinali, come Fa-hsien (in India nel 399-414), Hiuan-tsang (nel 629-45) e I-tsing (nel 671-95), preziosi per i loro ritratti della società indiana contemporanea. In Cina, accanto a esperienze fedeli al retaggio indiano come quelle Madhyamika dei “Tre trattati Antichi ” (San Lun) sorsero la “Meditazione” (Dhyana, trascritto in cinese Ch’an, che divenne in giapponese Zen), introdotta da una figura semi-leggendaria, l’indiano Bodhidharma (in Cina nel 526) e destinata ad una profonda sinizzazione sotto il suo sesto patriarca, Hui-neng (638-713), la scuola delle “tre epoche” (San-chieh-chiao, fondato da Hsin-hsing, 540-94), quella del monte T’ien-t’ai, fondata da Chih-i (538-597), quella basata sul solo Avatamsakasutra (Hua-yen, fondato da Fa-shun, 557-640) e quella della “Terra Pura” (Ching-t’u, fondata da Tao-ch’ao, 562-645). Intanto il dharma si assestò nella Corea dei Tre Regni e in Giappone, sotto la protezione del principe Shotoku Taishi. L’ultima stagione del Mahayana indiano conobbe l’affermarsi delle tecniche del ritualismo tantrico bengalese, con il “Veicolo di folgore/diamante” (Vajrayana), destinato a rapida diffusione nel Tibet (convertito con il concilio di Lhasa, 792-794), in Cina e in Giappone. Con la persecuzione dall’imperatore Wu-tsung (845), che annientò la maggior parte delle scuole cinesi, e la decadenza e la scomparsa delle scuole indiane, anche a seguito delle invasioni islamiche, i buddhismi sopravvissuti adottarono nuove vie. Assai interessante fu lo sviluppo del Ch’an/Zen, sempre più legato ad arti belle (calligrafia, pittura, disposizione dei fiori, cerimonia del the) e marziali. L’avvento della dominazione mongola nel XIII secolo favorì la diffusione della scuola tibetana dei Sa skya pa (cui appartiene la personalità più notevole del buddhismo contemporaneo, il Dalai-Lama Tenzin Gyatso, nato nel 1935 e in esilio dal 1959), mentre verso la stessa epoca il battagliero Nichiren (1222-1282) lanciò in Giappone l’esperienza fortemente etnocentrica dello Hokkeshu. Nei secoli più recenti l’imperialismo occidentale mise in crisi ovunque le scuole ancora esistenti, fino alla ripresa attuale, con la fondazione della World Fellowship of Buddhism e un forte proselitismo rivolto alle élite culturali statunitensi ed europee. [Mario Piantelli]