Brasile

Stato attuale dell’America meridionale.

  1. L’età coloniale
  2. L’impero brasiliano
  3. La repubblica federale
1. L’età coloniale

Il possesso del Brasile, le cui coste vennero toccate da Pedro Alvares Cabral nel 1500 durante la sua spedizione verso l’India, fu rivendicato dal Portogallo in base al trattato di Tordesillas (1494). Al momento della scoperta, il suo territorio era abitato da tribù primitive dedite prevalentemente all’agricoltura. La colonizzazione vera e propria iniziò a partire dal 1530, allorché una spedizione guidata da Martin Alfonso de Souza, dopo aver esplorato le coste da Maranhão a Rio Grande do Sul, fondò la città di São Vicente (1532). Nel 1534 la colonia fu suddivisa in 12 capitanerie, date in concessione ad altrettanti donatarios, i quali in cambio dei diritti di sfruttamento loro accordati avrebbero dovuto provvedere alla sicurezza e alla colonizzazione del paese, senza spese per la Corona. I donatarios si rivelarono per lo più incapaci di assolvere il compito loro assegnato, riuscendo a malapena a difendere i coloni dagli attacchi delle tribù indigene e dei corsari. Il Brasile venne allora riorganizzato: nel 1549 la Corona portoghese assunse il controllo politico, amministrativo e giudiziario, procedendo alla nomina di un governatore generale nella persona di Tomé de Souza il quale, attraverso una rete di funzionari anch’essi di nomina regia e con il sostegno attivo dei gesuiti, avviò l’unificazione della colonia e pose le premesse per il suo sviluppo, basato essenzialmente sulla coltivazione della canna da zucchero mediante lo sfruttamento della manodopera indigena integrata da schiavi importati dall’Africa. Durante l’unificazione dei regni di Spagna e Portogallo (1580-1640), il Brasile passò sotto la Corona spagnola. Le grandi potenze europee – Inghilterra, Francia e Olanda – tentarono a più riprese di attrarre la colonia entro la propria sfera imperiale. Il tentativo più importante fu quello degli olandesi, che tra il 1630 e il 1654 amministrarono direttamente un’ampia fascia costiera compresa tra le foci dei fiumi San Francisco e Rio delle Amazzoni, nel nord-est del paese. La fine della dominazione spagnola e dell’occupazione olandese coincise con l’inizio di importanti trasformazioni nell’economia e nella struttura sociale brasiliana. Determinanti furono il declino delle grandi piantagioni di canna da zucchero (la cui redditività diminuì fortemente per la concorrenza internazionale già a partire dalla metà del XVII secolo); l’espansione territoriale verso l’interno, iniziata con le spedizioni dei bandeirantes in zone lontane e inesplorate, alla caccia di indigeni da impiegare come schiavi; la scoperta di importanti giacimenti d’oro (1694) e, successivamente, di diamanti (1729) nel sud del paese. Nel giro di un secolo il Brasile passò da un’economia basata essenzialmente sullo zucchero a una economia mineraria; crebbe sensibilmente la popolazione per effetto di una nuova ondata immigratoria e della intensificazione dell’importazione di schiavi africani; si spostò l’asse dello sviluppo dal nord-est alle regioni meridionali, sanzionato dal trasferimento della capitale da Bahia a Rio de Janeiro (1763); infine, la struttura sociale si diversificò notevolmente dando origine a nuovi conflitti. A questi mutamenti, la Corona portoghese rispose con una serie di riforme destinate a influenzare profondamente la struttura politica, amministrativa e religiosa del paese. Tra il 1750 e il 1777 il primo ministro, Sebastião José del Carvalho e Mello, marchese di Pombal, procedette a una riorganizzazione della colonia in senso centralistico, attuò importanti riforme economiche e sociali, incoraggiò l’immigrazione, concesse agli indios la parità dei diritti, combatté aspramente il potere dei gesuiti, i quali nel 1759 vennero espulsi dal Portogallo e dal Brasile. Il riformismo illuministico di Pombal, tuttavia, non valse ad alleviare le condizioni di vita dei contadini e dei minatori, aggravate dalla crisi economica che seguì la fine del ciclo dell’oro dopo il 1770. Non mancarono quindi movimenti di rivolta contro la dominazione portoghese, specie tra i mulatti e i meticci. Anche tra l’élite creola, apertasi all’influenza dell’Illuminismo e non ignara di quanto stava avvenendo in Europa e nel Nordamerica, si diffusero sentimenti autonomistici (una ribellione scoppiata nel 1789 fu prontamente repressa). Ma il passaggio dalla dominazione coloniale all’indipendenza avvenne infine in modo non traumatico e con modalità affatto diverse rispetto agli altri paesi dell’America Latina. Dopo l’occupazione del Portogallo a opera delle truppe napoleoniche (1807), infatti, la famiglia regnante portoghese si trasferì in Brasile, dove fissò la sede del governo. Ciò contribuì in misura determinante a modificare i rapporti tra la colonia e la madrepatria. Il principe reggente e futuro re Giovanni VI adottò una serie di misure, tra cui l’abolizione del monopolio commerciale portoghese, le quali, oltre a dare un forte impulso allo sviluppo del paese, alterarono radicalmente lo statuto della colonia che divenne nel 1816 parte integrante del Regno Unito di Portogallo, Brasile e Algarve. Richiamato in patria dai moti liberali del 1820, Giovanni VI lasciò il paese nel 1821, dopo aver nominato reggente il figlio Pietro (dom Pedro). Questi, con l’appoggio dell’élite creola timorosa di un’ondata restauratrice e contro il volere del padre e delle Cortes, che gli imponevano di tornare a Lisbona, il 7 settembre del 1822 dichiarò l’indipendenza del paese e il 1° dicembre fu incoronato imperatore del Brasile col nome di Pietro I.

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2. L’impero brasiliano

I primi anni dell’impero furono caratterizzati dall’emergere di profondi contrasti tra il sovrano e l’aristocrazia creola. L’assemblea costituente, convocata nel 1823, venne sciolta da Pietro I il quale, temendo l’affermazione di istanze federalistiche, affidò a un Consiglio di stato da lui nominato il compito di redigere una nuova costituzione (approvata nel 1824) ispirata a criteri centralistici e illiberali. Scoppiarono quindi frequenti rivolte autonomistiche, la più grave delle quali, quella della provincia Cisplatina (l’attuale Uruguay), causò una disastrosa guerra con l’Argentina (1825-28) che si concluse con la perdita della regione. Il crescente malcontento nel paese e gli attacchi sempre più frequenti del parlamento indussero Pietro I, che inutilmente aveva rinunciato alla corona portoghese alla morte del padre (1824), ad abdicare in favore del figlio Pietro II, di soli cinque anni, e a tornare in patria. Durante la reggenza (1831-41) il Brasile conobbe una fase di forte instabilità politica e sociale. Alle lotte di fazione tra conservatori e liberali, tra centralisti e federalisti, tra monarchici e repubblicani si aggiunsero sanguinose rivolte popolari, che scoppiarono un po’ dappertutto, e tentativi di secessione. Di fronte al rischio di disintegrazione dell’impero, l’oligarchia dominante finì per schierarsi dalla parte della monarchia. Il 23 luglio del 1840 il parlamento decretò la fine della reggenza e l’anno seguente Pietro II fu incoronato imperatore. Sotto il suo regno, durato circa un cinquantennio, il Brasile godette di un periodo di pace interna e di progresso economico e sociale. L’agricoltura, grazie anche all’introduzione della coltivazione su vasta scala del caffè, tornò ad essere la principale risorsa del paese; l’afflusso di capitali inglesi consentì lo sviluppo delle infrastrutture; riprese l’emigrazione dall’Europa e si aprì un’era di grande dinamismo anche sul piano culturale. L’importazione di schiavi africani per far fronte al bisogno di manodopera delle piantagioni in rapida espansione pose, infine, nella quasi assenza di pregiudizi razziali, le premesse per quella mescolanza di razze che costituì una caratteristica peculiare della società brasiliana. In politica estera, il Brasile combatté con successo i tentativi di ingerenza negli affari interni dell’Uruguay, che considerava sotto la propria sfera di influenza, da parte dell’Argentina di Rosas (1850-52) e, successivamente, del Paraguay (la cosiddetta guerra di López, del 1864-70). Pietro II fu rovesciato il 15 novembre del 1889 da un pronunciamento militare che pose fine alla monarchia. Tra i fattori che contribuirono alla sua caduta vi fu il progressivo venir meno dell’appoggio delle forze che ne avevano garantito la stabilità: il clero, da tempo in contrasto con l’imperatore per il controllo sui vescovi; l’esercito, che aspirava a una maggior quota di potere; l’aristocrazia terriera, incapace di accettare l’abolizione della schiavitù proclamata nel 1888; la borghesia liberale, resa più forte dalla introduzione del suffragio universale maschile (1880) e ormai largamente schierata su posizioni repubblicane.

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3. La repubblica federale

La costituzione repubblicana, modellata su quella degli Stati Uniti, entrò in vigore il 24 febbraio del 1891. Il primo decennio fu contrassegnato dalla lotta per il potere tra militari e civili. A partire dal 1894, il governo passò in mano a questi ultimi, i quali assicurarono al paese un periodo di prosperità nel rispetto della legalità. Di fatto, la vita politica fu dominata dalle potenti oligarchie di San Paolo e di Minas Gerais, dalle cui file provennero i presidenti della prima repubblica. Durante la prima guerra mondiale il Brasile si schierò a fianco dell’Intesa. La crisi economica del 1929, con la conseguente caduta dei prezzi dei principali prodotti di esportazione (soprattutto caffè e caucciù), agì quale catalizzatore del malcontento del nascente movimento operaio e dei ceti medi urbani contro l’oligarchia dominante. L’opposizione trovò la sua espressione nei quadri intermedi dell’esercito i quali, nel 1930, rovesciarono il presidente in carica e portarono al potere il leader del Partito dell’alleanza liberale Getúlio Vargas che vi rimase ininterrottamente dal 1930 al 1945 e poi dal 1951 al 1954. Il regime di Vargas (getulismo), abbandonati gli iniziali propositi riformatori che gli avevano assicurato, tra gli altri, anche l’appoggio del Partito comunista (messo fuori legge nel 1935), assunse ben presto connotazioni fascistico-populistiche. Nel 1937 Vargas sciolse il Congresso e con una nuova costituzione, che accentuava i poteri presidenziali e limitava le autonomie regionali, proclamò l’Estado Novo, uno stato cioè di stampo corporativo che in nome dei superiori interessi nazionali finì col subordinare agli interessi dominanti le stesse organizzazioni sindacali, in cambio di una legislazione sociale. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, il Brasile mantenne una posizione prudente. Inizialmente favorevole alle potenze dell’Asse, esso si schierò in seguito a fianco degli Stati Uniti, entrando in guerra nel 1942. La conclusione del conflitto e la spinta crescente verso il ritorno a un sistema costituzionale segnarono la fine del regime di Vargas, che fu deposto da un colpo di stato militare nell’ottobre del 1945. Vargas tornò al potere con le elezioni del 1950, dopo una breve presidenza del generale Eurico Gaspar Dutre, sulla base di un vasto consenso popolare. Egli cercò di consolidare la propria posizione rilanciando l’industrializzazione e facendo importanti concessioni salariali alla classe operaia. Attaccato violentemente dalle destre e sotto la minaccia di un nuovo colpo di stato, lasciò la presidenza e si uccise il 24 agosto del 1954. Il suo successore, il socialdemocratico Juscelino Kubitschek, elaborò un piano di sviluppo economico fondato sull’industrializzazione, sul miglioramento delle infrastrutture e sull’incremento della produttività agricola. Sotto il suo governo fu intrapresa la costruzione della nuova capitale nel cuore del Goias, Brasilia (inaugurata nel 1960), simbolo del nuovo Brasile. L’azione di Kubitschek conseguì risultati sensibili: si ebbe un periodo di rapida espansione al prezzo, però, di una forte spinta inflazionistica, con conseguente riduzione del potere d’acquisto dei salari reali e con l’acuirsi delle tensioni sociali. Alle elezioni del 1960, vinse il candidato dell’opposizione conservatrice Janio Quadros, che iniziò una politica di lotta all’inflazione attraverso la compressione dei consumi. Quadros si dimise dopo pochi mesi e gli succedette il vicepresidente João Goulart, leader del Partito brasiliano del lavoro (PTB), il quale cercò l’appoggio della classe operaia, concedendo aumenti salariali, e dei contadini, ai quali promise la riforma agraria. Ciò suscitò la reazione delle forze conservatrici, le quali riuscirono nel 1962 a far approvare dal parlamento una riforma costituzionale che trasformò la repubblica presidenziale in repubblica parlamentare, esautorando di fatto Goulart. La stessa riforma, sottoposta a referendum popolare, fu abrogata nel 1963, ma nel 1964 un colpo di stato attuato dalle alte gerarchie militari, con l’appoggio delle destre e degli Stati Uniti, abbatté Goulart e portò al potere il generale Humberto Castelo Branco. Per la prima volta nella sua storia il Brasile conobbe una brutale dittatura militare, nel corso della quale furono sciolti i partiti politici – a eccezione dei due grandi raggruppamenti dell’ARENA (Alleanza per il rinnovamento nazionale), governativo, e del PMDB (Movimento democratico brasiliano), di opposizione, i soli graditi al regime – e perseguitati gli esponenti dell’opposizione, che sopravvisse nelle forme estremistiche della guerriglia e del terrorismo. Sotto il profilo economico, il regime conseguì importanti successi. Il ristabilimento dell’ordine interno, il contenimento dei salari, una politica economica liberistica consentirono il progressivo rientro dell’inflazione e un tasso di crescita straordinariamente elevato, ottenuto soprattutto grazie ai massicci investimenti esteri. Il cosiddetto “miracolo brasiliano”, i cui effetti andarono peraltro quasi esclusivamente a vantaggio della classe dominante e del capitale straniero, non resse tuttavia ai contraccolpi della crisi petrolifera mondiale del 1973. Il rallentamento della crescita e le misure di austerità imposte dall’esigenza di far fronte al fabbisogno energetico colpirono anche la classe media, che aveva fino ad allora appoggiato i militari, diedero fiato alle opposizioni e indussero il regime a una graduale liberalizzazione. Sotto la presidenza del generale Ernesto Geisel (1974-79) fu abolita la censura sulla stampa e furono mitigati gli aspetti più odiosamente repressivi del regime. Il generale João Baptista de Figueiredo (1979-85) concesse nel 1979 l’amnistia per i prigionieri politici e permise la ricostituzione dei partiti a eccezione di quello comunista e delle formazioni di estrema sinistra. Gli anni Ottanta furono però segnati dall’aggravarsi della crisi economica e dall’acuirsi delle tensioni politiche e sociali. Prese quindi corpo nel paese un vasto fronte favorevole a un ritorno dei civili al governo che ottenne la maggioranza alle elezioni presidenziali del 1985 per il proprio candidato, il moderato Tancredo Neves, appoggiato anche da esponenti della vecchia maggioranza. Neves morì prima ancora del suo insediamento e gli succedette il vicepresidente José Sarney, già leader del partito governativo (prima ARENA, poi Partito democratico sociale). Sarney varò nuove misure per fronteggiare l’inflazione e il debito pubblico provocando un’ondata di disordini senza precedenti (1987), duramente repressi dall’esercito. Nel 1988, dopo infiniti patteggiamenti, fu adottata una nuova costituzione che diminuì i poteri presidenziali, ampliò la legislazione sociale, sancì alcuni diritti fondamentali a tutela dei lavoratori e delle minoranze indie, stabilì dei limiti alla penetrazione del capitale straniero. L’assassinio nel 1989 del leader del movimento ecologista Chico Mendes attirò l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sulla distruzione sistematica della foresta amazzonica a opera dei grandi interessi minerari, con la complicità del governo brasiliano. Sempre nel 1989 si tennero le prime elezioni presidenziali dirette dopo ventinove anni. Queste portarono al potere Fernando Collor de Mello, un uomo di centro appoggiato dal neonato Partito della ricostruzione nazionale (PRN), che batté nel ballottaggio il candidato socialista Luís Ignácio da Silva. De Mello avviò un drastico programma di risanamento dell’economia (I e II Piano Collor). La sua politica economica provocò una dura recessione e incontrò l’opposizione di un vasto arco di forze politiche e sociali. Inoltre, egli si trovò al centro di una serie di scandali in cui furono coinvolti membri della sua famiglia. Nel novembre del 1991, nonostante la protesta degli interessi minerari, Collor annunciò la creazione di una vasta riserva nella foresta amazzonica (94.000 km²) per gli indiani yanomamö, una tribù primitiva non ancora toccata dalla civiltà occidentale. L’emergere di una serie di gravissimi episodi di corruzione indusse Collor nel 1992 a dimettersi. Egli fu sostituito da Itamar Franco, il cui ministro delle Finanze, il socialdemocratico Fernando Henrique Cardoso, mise mano a misure volte a combattere la seria crisi economica. Cardoso, divenuto presidente nel 1995, proseguì nella politica di risanamento, puntando sulla stabilizzazione monetaria mediante l’aggancio forzoso al dollaro statunitense, sul controllo federale delle banche statali e sull’estensione della riforma agraria. Rieletto nel 1998 e iniziato il suo nuovo mandato nel 1999, Cardoso dovette procedere a una forte svalutazione del real, potendo però contare su consistenti aiuti da parte del Fondo Monetario Internazionale. Questo portò a un aggravarsi del servizio del debito e, nel quadro della crisi mondiale, a un rallentamento dell’economia con pesanti effetti su una già precaria situazione sociale. In questo quadro crebbe la forza dei movimenti sociali – in particolare del Movimento dei senza terra – catalizzati dal Partito dei lavoratori (PT), che aumentò la sua influenza affermandosi in molte elezioni amministrative, e lanciando con forza la candidatura alle presidenziali del suo leader Luis Inacio Lula Da Silva, eletto nel 2002. Primo presidente brasiliano di sinistra, Lula adottò misure d’austerità economica per tenere sotto controllo l’inflazione e favorire la ripresa dell’occupazione. Nonostante i numerosi scandali di corruzione che videro il coinvolgimento diretto di molti esponenti del suo partito, nel 2006 Lula fu riconfermato alla presidenza. Il suo secondo mandato fu segnato da un vistoso rilancio economico del paese, che si accompagnò a un netto incremento degli investimenti stranieri. Nell’impossibilità di ricandidarsi per un terzo mandato, nelle successive elezioni presidenziali del 2010 Lula sostenne la candidatura della sua compagna di partito Dilma Roussef. Impostasi al secondo turno sul socialdemocratico José Serra, divenne la prima donna brasiliana ad assumere la carica di presidente.

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