Giolitti, Giovanni

(Mondovì 1842, † Cavour 1928). Uomo politico italiano. Laureato in giurisprudenza, intraprese nel 1862 la carriera burocratica ricoprendo varie cariche presso il ministero delle Finanze e collaborando con Q. Sella, M. Minghetti e A. Depretis. Eletto deputato nel 1882, fu ostile al trasformismo e alle scelte finanziarie del governo Depretis, da cui prese le distanze nel 1886. Ministro del Tesoro nel governo Crispi (1889-90), fu fautore di una politica di contenimento della spesa pubblica che non poteva tuttavia conciliarsi con gli ““eccessi” militaristici e coloniali di Crispi. Lasciati i due incarichi ministeriali nel dicembre 1890, fu presidente del Consiglio tra il 1892 e il 1893 (I governo) ed elaborò un avanzato programma di riforme sociali e fiscali, manifestando posizioni avanzate in materia di conflitti tra capitale e lavoro. Di fronte alle violente agitazioni scoppiate in quegli anni in Sicilia – organizzate nel movimento dei Fasci siciliani – non volle fare ricorso a strumenti repressivi, alienandosi così l’appoggio del re e dei proprietari terrieri. Coinvolto al tempo stesso nello scandalo della Banca romana, fu costretto a dimettersi (novembre 1893) e a fuggire all’estero per evitare il carcere. Vicino al gruppo di Zanardelli durante i successivi governi Crispi, tra il 1898 e il 1900 si oppose alla svolta autoritaria promossa dai governi Di Rudinì e Pelloux. Come ministro degli Interni nel governo Zanardelli tra il 1901 e il 1903, contribuì in modo decisivo a liquidare l’eredità della cosiddetta “crisi di fine secolo” e ad avviare un nuovo corso liberale. Dopo le dimissioni di Zanardelli (ottobre 1903) resse le sorti del paese, con alcune brevi interruzioni, fino alla vigilia della prima guerra mondiale, in quella che fu poi definita l’“età giolittiana”, sforzandosi di favorire lo sviluppo economico, di rendere più moderna la macchina amministrativa, di attribuire allo stato un nuovo ruolo di mediazione sociale e di promuovere una sistematica collaborazione tra i settori più aperti della borghesia e i gruppi riformisti del movimento operaio organizzato. Stretto fra l’opposizione dei liberali conservatori (soprattutto S. Sonnino), della destra nazionalista e della sinistra rivoluzionaria, dovette tuttavia fare affidamento su una maggioranza parlamentare costruita di volta in volta con sofisticate tecniche trasformistiche, con pressioni clientelari e, soprattutto al sud, con un’aperta opera di corruzione. Presidente del Consiglio tra il novembre 1903 e il marzo 1905 (II governo), dopo aver tentato di coinvolgere F. Turati in responsabilità ministeriali, affrontò il primo sciopero generale della storia italiana (settembre 1904) senza cedere ai conservatori che chiedevano una violenta repressione. Sfruttando la paura della borghesia, indisse le elezioni ottenendo, grazie anche all’appoggio dei cattolici, un indebolimento del partito socialista e un successo personale. Nello stesso periodo avviò la statalizzazione del sistema ferroviario italiano, che fu portata a termine dal governo del suo “luogotenente” A. Fortis (marzo 1905 – febbraio 1906). Dopo la breve parentesi di un ministero Sonnino, formò il suo III governo (maggio 1906 – dicembre 1909) che introdusse, accanto ad alcune importanti innovazioni in materia di legislazione sociale, decisive misure finanziarie quali la conversione della rendita dal 5% al 3,75% e la riorganizzazione della Banca d’Italia. Caduto sul problema della riforma tributaria e delle convenzioni marittime, dopo i ministeri Sonnino (1909-1910) e Luzzatti (1910-1911) formò il suo IV governo (marzo 1911 – marzo 1914), che fu segnato da un acceso dibattito sul monopolio statale delle assicurazioni sulla vita (culminato nella creazione dell’INA), dall’introduzione del suffragio “quasi universale maschile” (25 maggio 1912), con cui si concedeva il diritto di voto anche agli analfabeti che avessero compiuto il trentesimo anno di età, e dalla guerra di Libia (1911-12). Uscito indebolito dalle prime elezioni indette dopo la riforma elettorale (ottobre 1913), che videro un massiccio intervento dei cattolici in funzione antisocialista in virtù del patto Gentiloni, di fronte al radicalizzarsi dei socialisti e della destra nazionalista e all’inizio di una congiuntura internazionale sfavorevole, diede le dimissioni indicando come proprio successore A. Salandra. Contrario all’intervento dell’Italia nel primo conflitto mondiale (1915-18), formò il suo V governo tra il giugno del 1920 e il luglio del 1921 in una situazione profondamente mutata. In politica estera riuscì a liquidare alcuni pericolosi focolai di tensione, rinunciando al mandato italiano sull’Albania (agosto 1920), firmando con la Iugoslavia il trattato di Rapallo (novembre 1920) e facendo sgombrare Fiume occupata da Gabriele d’Annunzio (gennaio 1921). In politica interna affrontò con successo l’occupazione delle fabbriche (settembre 1920) e le profonde tensioni sociali prodotte dalla crisi del dopoguerra. Di fronte a un partito socialista su posizioni sempre più radicali, alla nascita del Partito comunista (gennaio 1921), ai cattolici organizzati nel Partito popolare di L. Sturzo, ai vecchi nazionalisti e al neonato movimento fascista (di cui pensò peraltro di potersi servire contro l’estrema sinistra), non riuscì tuttavia a trovare una maggioranza su cui poter fare affidamento. Dopo le elezioni del maggio 1921 – che videro l’ingresso dei fascisti nei “blocchi nazionali” col suo favore – perse definitivamente il ruolo di protagonista della vita politica nazionale. La sua uscita di scena fu il segno della crisi ormai irreversibile del sistema politico dell’Italia liberale, che di lì a poco, tra il 1922 e il 1925, sarebbe stato radicalmente trasformato e poi del tutto liquidato dall’ascesa al potere di Benito Mussolini e dall’instaurazione del regime fascista.