Stato della Chiesa

Lo Stato della Chiesa, detto anche comunemente “stato pontificio”, così come venne riconosciuto dal congresso di Vienna (1815) era formato dai territori del Lazio, dell’Umbria, delle Marche e delle Romagne; venne ad esso inoltre riconfermato il possesso di Benevento e Pontecorvo; perse invece Avignone e il Contado Venassino, che rimasero alla Francia. Lo Stato della Chiesa era andato lentamente formandosi, fin dal tempo delle invasioni barbariche, attorno alla città di Roma, estendendosi nel ducato romano bizantino (corrispondente all’incirca all’attuale Lazio), in cui il papato aveva acquisito una indiscutibile supremazia grazie alle numerosissime proprietà, ai diritti e ai privilegi di cui usufruiva almeno dal secolo VI, dopo la decadenza del potere bizantino in Italia. A permettere il progressivo dilatarsi del territorio appartenente al cosiddetto “Patrimonio di San Pietro” furono le successive elargizioni territoriali dei sovrani longobardi (in particolare nel 728 la donazione di Sutri a Gregorio II da parte del re Liutprando, che può essere considerata l’atto costitutivo del potere temporale della chiesa) e poi dei re franchi (specie il riconoscimento nel 756 del Patrimonio di San Pietro da parte di Pipino Il Breve, riconoscimento che probabilmente diede origine alla redazione della falsa “donazione di Costantino”). Successivamente il Patrimonio di San Pietro andò estendendosi soprattutto verso il nord, approfittando delle lotte intestine e delle deboli difese esterne di cui potevano usufruire le città delle Marche, dell’Umbria e delle Romagne, finché il papato giunse a impossessarsi anche di Parma e Piacenza, le quali tuttavia furono immediatamente concesse da Paolo III Farnese (1545) al figlio Pierluigi ed erette in ducato. Pochi decenni dopo il papato poté riannettersi anche Ferrara, che era stata temporaneamente conquistata da Venezia, e il ducato di Urbino, in seguito alla morte del duca Francesco Maria Della Rovere. Il possesso di così vasti territori da parte della massima autorità religiosa del mondo cattolico veniva giustificato con due argomenti: 1) la necessità di possedere terre che dessero adeguate rendite per il mantenimento della corte pontificia, senza bisogno del ricorso ai contributi di altri paesi; 2) la necessità per il papato di avere (grazie alla sua indipendenza territoriale) anche una indipendenza, la più completa possibile, nello svolgimento delle mansioni di guida della chiesa rispetto ai sovrani dei grandi stati che andarono formandosi in Europa già sul finire del medioevo e che poi si consolidarono nell’età moderna. Dal punto di vista amministrativo, con la progressiva soppressione dei privilegi locali di carattere feudale o comunale, lo stato pontificio andò configurandosi come uno stato centralizzato, suddiviso in “legazioni” rette da un vescovo o da un cardinale, a seconda della loro importanza, il quale esercitava, attraverso i suoi funzionari (per lo più anch’essi ecclesiastici) i compiti attribuiti su per giù oggi ai nostri prefetti, con ampi poteri discrezionali. Anche le corti di giustizia erano formate esclusivamente da ecclesiastici e sentenziavano essenzialmente in base alle norme del diritto ecclesiastico. Il ristabilimento dello stato pontificio, dopo la fine dell’epoca napoleonica, fu mal accettato sul piano europeo, specialmente negli ambienti protestanti. Fra le popolazioni locali furono soprattutto gli abitanti delle Romagne e delle Marche a essere malcontenti, ben conoscendo il sistema di corruzione e di malversazione che caratterizzava l’amministrazione ecclesiastica, amministrazione da cui erano riuscite in precedenza a emanciparsi, entrando a far parte del regno d’Italia napoleonico. Fiorirono perciò in quelle regioni società segrete miranti ad abbattere il potere temporale dei papi e a ottenere l’indipendenza. Nel 1831, dopo la morte di Pio VIII e durante il lungo conclave da cui uscì eletto Gregorio XVI, scoppiò una vasta insurrezione nelle Romagne; essa si estese poi rapidamente nelle Marche e nei vicini ducati padani. La situazione, tuttavia, fu in breve tempo ristabilita grazie all’intervento militare dell’Austria a cui i singoli sovrani (e lo stesso Gregorio XVI) avevano fatto ricorso. Nel 1832 le agitazioni ripresero e perciò il cardinal Albani, legato di Bologna, richiese nuovamente l’intervento austriaco, che fu prontamente concesso. La Francia di Luigi Filippo questa volta reagì alla nuova affermazione della preponderanza austriaca in Italia e fece occupare Ancona da alcuni suoi reparti da sbarco. Questa ambigua e incresciosa situazione si trascinò sino al 1839, mentre si scatenavano all’interno le fazioni rivali con un’interminabile sequela di violenze e di repressioni. La situazione andò ancor più peggiorando quando austriaci e francesi si ritirarono. Solo nel 1846, dopo l’elezione al soglio pontificio di Pio IX, la situazione si andò calmando grazie anche all’introduzione di alcuni importanti provvedimenti (amnistia, parziale laicizzazione delle cariche pubbliche ecc.). Egli tuttavia non avrebbe mai voluto giungere alla concessione di una carta costituzionale, ma vi fu costretto (14 marzo 1848) dopo che il re delle Due Sicilie, il re di Sardegna e il granduca di Toscana si decisero in questo senso. Quando ebbe inizio la prima guerra d’indipendenza, il papa venne a trovarsi in una situazione assai difficile. L’opinione pubblica liberale chiedeva a gran voce l’invio delle truppe pontificie in aiuto dei piemontesi; Pio IX invece capiva bene che, date le caratteristiche della carica da lui rivestita, avrebbe dovuto rimanere super partes, anche per evitare di entrare in aperto contrasto con l’Austria cattolica. Fu in base a queste considerazioni che egli giunse alla famosa allocuzione del 29 aprile 1848 nella quale dichiarava la sua rinuncia a ogni intervento militare. Quell’allocuzione segnò la fine del mito del papa liberale e filoitaliano. Dopo l’uccisione del suo primo ministro Pellegrino Rossi (15 novembre 1848), Pio IX fuggì da Roma e si rifugiò a Gaeta. A Roma venne perciò creata una repubblica, auspice il Mazzini, che fu però abbattuta nel giugno 1849 grazie all’intervento delle truppe inviate da Luigi Napoleone (il futuro Napoleone III), presidente della seconda repubblica francese. Rientrato nella capitale, Pio IX ristabilì un governo assoluto, che tuttavia poté reggersi in piedi solo grazie alla presenza dei francesi. Nel settembre 1860, questa volta con l’assenso di Luigi Napoleone, il quale fin dal 1852 era diventato imperatore, l’esercito piemontese occupò le Romagne, le Marche e l’Umbria. Ma Pio IX non desistette e l’8 dicembre 1864 emanò l’enciclica Quanta cura, a cui era allegato un Sillabo nel quale erano condannati, in 80 proposizioni, i principali “errori” dell’epoca, ivi compresi i principi basilari del liberalismo. Il dominio territoriale dei papi ebbe infine termine nel settembre 1870, quando i francesi dovettero ritornare in patria per partecipare alla guerra contro la Prussia. Alcuni reparti militari italiani entrarono allora nel territorio laziale e il 20 settembre penetrarono in Roma attraverso la breccia di Porta Pia. Nonostante le fulminanti scomuniche lanciate da Pio IX, il governo italiano cercò di instaurare un modus vivendi con il papato e di lasciare ad esso la massima libertà nell’espletamento della sua alta mansione religiosa per mezzo della cosiddetta “legge delle guarentigie” (maggio 1871). Il 1° luglio 1871 la capitale del regno d’Italia fu ufficialmente trasferita da Firenze a Roma. Si dovette però aspettare fino al 1929 per il ristabilimento di una “Conciliazione” fra il papato e lo stato italiano. Fu allora creato un piccolo stato pontificio autonomo, detto Città del Vaticano. [Narciso Nada]