capitalismo

  1. Il concetto e le sue interpretazioni
  2. Le origini del capitalismo
  3. Il capitalismo nell’età industriale
  4. Il capitalismo contemporaneo
1. Il concetto e le sue interpretazioni

Il concetto di capitalismo è tuttora uno dei più controversi nelle scienze storiche e sociali, in quanto implica numerosi presupposti sociologici, economici e politici. In senso stretto, “capitale” significa ricchezza; ma i vari aggettivi che vi si associano (commerciale, industriale, finanziario) indicano che esso ha origini e conformazioni diverse. Secondo la definizione datane da Marx il capitale è una somma di valori che si realizza attraverso uno specifico rapporto di produzione. Mezzi di produzione, beni e denaro diventano capitale attraverso un rapporto sociale di produzione finalizzato al profitto e caratterizzato dalla contrapposizione tra la classe dei capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione, e quella dei salariati, costretti a vendere la propria forza-lavoro ai primi perché privi di un accesso diretto ai mezzi di produzione (proletariato). Questo rapporto sociale è la base del capitalismo, che non esiste in nessun luogo allo stato puro, poiché coinvolge nelle sue dinamiche altre classi e ceti già presenti in economie precapitalistiche (artigiani, commercianti, proprietari fondiari), ma sempre più dipendenti dall’ordinamento economico capitalistico. Tra le interpretazioni non marxiste va ricordata quella delineata, con sfumature diverse, da Sombart, Weber e Schumpeter. Essa si fonda sull’individuazione di una “mentalità” o “spirito” capitalistici tipici di un determinato gruppo sociale in una determinata epoca: una mentalità imprenditoriale che si esprime in primo luogo nell’aspirazione al profitto fondata sul calcolo razionale. In diversi punti l’interpretazione marxista coincide con questa e altre interpretazioni non marxiste: il ruolo attribuito alla borghesia come motore della trasformazione capitalistica, la funzione dell’aspirazione al profitto tipica dell’imprenditore. Il capitalismo è quindi un sistema economico fondato sull’accumulazione di capitale e sull’impiego di quest’ultimo come fattore produttivo; ma è anche una forma di economia di mercato generalizzata, in cui tutti gli elementi della vita economica diventano merce: terra, strumenti di lavoro, macchine, denaro e forza-lavoro. La generalizzazione della produzione e della circolazione di merci, che soppianta gradualmente l’economia feudale fondata sulla produzione per lo scambio o per il consumo locale, coincide con l’origine e lo sviluppo del capitalismo, che ha attraversato diverse fasi storiche.

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2. Le origini del capitalismo

Il risveglio del commercio in Occidente a partire dal XII secolo, lo sviluppo delle città, l’aumento degli scambi con l’Oriente in seguito alle crociate, l’espansione dell’economia monetaria, furono tra le maggiori cause della disgregazione dell’economia feudale. Accanto al capitale usurario (in mano a grandi mercanti e banchieri che finanziavano guerre e consumi di lusso di sovrani e nobili) sorse il capitale mercantile, che operò la prima razionalizzazione e istituzionalizzazione dell’organizzazione economica (credito, contabilità, società per azioni). Le grandi scoperte geografiche del XV e XVI secolo provocarono un’enorme espansione dei commerci e grandi trasformazioni materiali e mentali. L’afflusso di metalli preziosi dall’America determinò un aumento della disponibilità monetaria in Europa, che stimolò la ripresa economica ma anche l’inflazione, causando un grande aumento dei prezzi; la conseguenza fu la diminuzione della rendita fondiaria, che impoverì la nobiltà feudale, e dei salari reali dei lavoratori, che formarono una manodopera abbondante e a buon mercato; i beneficiari dell’inflazione furono mercanti e banchieri, protagonisti della fase del capitalismo commerciale che durò fino a metà del XVIII secolo. Causa ed effetto di questi mutamenti fu anche un nuovo atteggiamento nei confronti del denaro e del lusso, l’aspirazione alla rispettabilità sociale e al potere da parte delle classi borghesi emergenti; fondamentale fu anche il contributo del puritanesimo e del calvinismo alla nascita dello “spirito del capitalismo”. Una spinta decisiva venne poi dal mercantilismo, che segnò l’inizio del diretto intervento dello stato (facilitazione dello sviluppo delle comunicazioni, semplificazione delle operazioni finanziarie con il monopolio del conio della moneta, protezione del commercio con la limitazione della concorrenza straniera, creazione di grandi compagnie commerciali). Grazie alla disponibilità di materie prime a buon mercato e di mercati esteri e all’assenza di concorrenza esterna, il XVII e XVIII secolo videro il grande fiorire della manifattura, che caratterizzò la fase di transizione tra il capitalismo commerciale e quello industriale.

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3. Il capitalismo nell’età industriale

Il passaggio al capitalismo industriale del XIX secolo – caratterizzato dalla concentrazione della produzione nelle fabbriche, da un saggio di accumulazione più elevato e da una maggiore rapidità dell’urbanizzazione e del progresso tecnico – si dovette allo sviluppo di una serie di fattori che originarono la grande trasformazione nota come rivoluzione industriale: l’esistenza di forza-lavoro in sovrappiù, in seguito al compimento del processo di proletarizzazione e all’impiego su vasta scala di macchine, che a sua volta determinò il superamento della produzione individuale-artigianale e la concentrazione della produzione nelle fabbriche; la modernizzazione dell’agricoltura, che permise l’incremento della produzione alimentare per la crescente popolazione urbana; lo sviluppo del sistema bancario e creditizio, grazie al quale i piccoli imprenditori poterono ampliare le proprie aziende; l’espansione dei mercati, interni ed esteri. Tutti questi fattori si manifestarono per la prima volta verso la fine del XVIII secolo in Inghilterra, che assurse così a guida e modello della rivoluzione industriale. Il primato dell’Inghilterra si dovette a una concomitanza, unica nella storia, di diversi elementi: il fatto che l’aristocrazia inglese si dedicasse presto ad attività mercantili e industriali; la supremazia marittima inglese; un grande aumento demografico che nel XVIII secolo, insieme alla destrutturazione dell’economia contadina operata dalle recinzioni delle terre comuni (enclosure), causò l’esodo dalle campagne liberando una grande disponibilità di manodopera; le prime grandi innovazioni tecnologiche nel settore tessile. Importante fu anche la revisione delle dottrine protezioniste e dirigiste del mercantilismo, la totale libertà di iniziativa economica sostenuta da Adam Smith e, nell’agricoltura, dalla fisiocrazia. Nella prima metà dell’Ottocento il libero scambio e la libera concorrenza predominanti diedero un grande impulso alla produzione (soprattutto tessile e meccanica) e al commercio, ma con enormi costi sociali (miseria del nascente proletariato). La seconda metà del secolo fu un periodo di decisive trasformazioni, tecnologiche (la “seconda rivoluzione industriale”: industria siderurgica, elettrica, chimica) e strutturali: l’emergere del capitalismo finanziario, nel quale agli imprenditori che avevano dominato la prima fase liberale del capitalismo subentravano le banche, permettendo la creazione di monopoli; e la diffusione delle società per azioni, che permettevano l’impiego dei capitali non più di un singolo imprenditore ma di moltissimi risparmiatori. Questi mutamenti, insieme al protezionismo tornato in auge dopo il 1870 e all’esigenza di limitare la concorrenza sistematica che riduceva eccessivamente i prezzi, avviarono grandi processi di concentrazione industriale che assunsero forme diverse (cartello, trust), e contribuirono all’emergere di nuove potenze industriali come gli Stati Uniti e la Germania. La concorrenza tra i paesi capitalistici nella ricerca di nuove fonti di materie prime e nuovi mercati, indispensabili per la sopravvivenza del sistema, approfondì i contrasti politici ed economici (imperialismo). Con la prima guerra mondiale il capitalismo europeo perse la propria posizione egemonica a favore di quello statunitense. La crisi del 1929 favorì l’adozione in molti paesi di politiche di intervento statale (nazionalizzazione, New Deal), ma negli anni Trenta l’uscita definitiva dalla crisi si ebbe con l’adozione, nei principali paesi industriali, di economie di guerra.

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4. Il capitalismo contemporaneo

Dopo la seconda guerra mondiale il capitalismo ha smentito le previsioni di una sua prossima crisi, accentuando alcune tendenze di sviluppo, rafforzandosi e diffondendosi al di fuori dei suoi luoghi storici (in Giappone e altri paesi asiatici). Il progresso tecnico ed economico ha portato alla formazione di unità industriali e finanziarie giganti (anche multinazionali), altamente burocratizzate, gestite da funzionari e manager salariati; le piccole e medie imprese non sono scomparse, ma la loro natura e le loro funzioni sono notevolmente mutate, e il ruolo del tradizionale imprenditore si è drasticamente ridimensionato. La produzione di massa, la nascita della società dei consumi e la diffusione del benessere hanno attenuato l’ostilità delle masse nei confronti del capitalismo, anche se sussistono forti disuguaglianze sociali e aumenta il divario tra l’Occidente capitalistico e il Terzo Mondo. Tipici del capitalismo degli ultimi decenni sono l’esistenza di un vasto settore di imprese pubbliche, e l’intervento regolatore dello stato nelle leggi del mercato (sul movimento di prezzi e salari, sugli investimenti con la politica monetaria, sulla domanda con la politica fiscale). Negli ultimi anni si registra in vari paesi la tendenza a ridurre il settore pubblico, aumentando le privatizzazioni; mentre il crollo dei sistemi socialisti ha aperto al capitalismo nuovi spazi vergini, nei quali esso sembra ripresentare le caratteristiche “selvagge” delle sue origini sette-ottocentesche. Nello stesso tempo le economie capitalistiche hanno assunto una dimensione globale (globalizzazione), mettendo in crisi il tradizionale rapporto tra economia e politica nel quadro degli stati nazionali consolidatisi nel XIX e XX secolo. Caratterizzato da imponenti processi di «finanziarizzazione» e «delocalizzazione» che incidono pesantemente sulla struttura delle economie «reali», il capitalismo contemporaneo è considerato oggi da molti studiosi della globalizzazione come la vera e grande «forza politica» del nostro tempo: una forza in grado di condizionare sempre più fortemente la politica degli Stati e, per certi versi, di sostituirsi ad essa in virtù del cosiddetto «gradimento dei mercati». Lo dimostrano in modo evidente i profondi effetti che la crisi economica mondiale iniziata nel 2008 ha esercitato in Europa e negli stessi Stati Uniti. [Lorenzo Riberi]

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