Russia

Regione storica e geografica dell’Europa orientale. Essa ha costituito il nucleo culturale e politico dell’impero zarista fino al 1917, dell’Unione Sovietica dal 1917 al 1991 e quindi della Federazione russa.

  1. Le origini
  2. Lo stato nazionale russo da Ivan III a Pietro il Grande
  3. La riscossa della nobiltà e il regno di Caterina II
  4. Il trionfo contro Napoleone. Da Alessandro I a Nicola I
  5. Il crepuscolo dello zarismo. Da Alessandro II a Nicola l’“ultimo”
  6. La guerra mondiale, le rivoluzioni del 1917, la vittoria dei bolscevichi e la formazione dell’URSS
  7. Dal consolidamento dello stalinismo alla vittoria sovietica nella seconda guerra mondiale.
  8. La divisione del mondo e l’URSS come “superpotenza” mondiale. Da Kruscëv e dalla destalinizzazione al “socialismo reale” di Breznev
  9. Gorbacëv e il crollo del sistema sovietico
  10. La Federazione russa di Eltsin
  11. La Russia di Putin
1. Le origini

Nel periodo compreso fra il II e il I millennio a.C. il territorio dell’attuale Russia – occupato da ugrofinnici, balti e nordiranici, fra cui i cimmeri, gli sciti e i sarmati – si presentava fortemente frammentato dal punto di vista etnico, culturale e linguistico. Nel corso dei secoli IX e VIII a.C., dopo il periodico rinnovarsi di invasioni da parte di popolazioni provenienti dall’Asia centrale, un ruolo sempre più importante vennero ad assumere gli sciti, che formarono un vasto impero. A partire dal VII secolo a.C. le regioni meridionali videro in un primo tempo la costituzione di una rete commerciale a opera dei greci dell’Asia Minore e in un secondo tempo la formazione di colonie vere e proprie. Intorno al IV-III secolo a.C. la dominazione scita cedette a quella dei sarmati, che nel corso del II secolo a.C. consolidarono la loro conquista con spinte espansive verso Occidente, entrando infine in conflitto con Roma. Tra il III e il IV secolo d.C., le zone meridionali della Russia e l’Ucraina rimasero soggette ai goti, il cui regno però venne travolto dagli unni, a cui fecero seguito gli avari, i chazari e i bulgari. Intorno al IX secolo gli slavi orientali svilupparono una vasta opera di penetrazione e di consolidamento, con centro in Ucraina e nelle regioni vicine, da cui presero poi la loro fisionomia le popolazioni ucraine, bielorusse e russe. Si ritiene che le origini dello stato russo siano legate all’iniziativa di Rjurik, capo di un gruppo di commercianti e guerrieri scandinavi, i vareghi (o variaghi), il quale nell’862 diede inizio a una dinastia, con il proprio centro a Novgorod. Suo successore fu Oleg, che spostò la capitale a Kiev. Il regno, a maggioranza slava, adottò la lingua slava e sotto il principe Vladimir I il Grande abbracciò nel 988 il cristianesimo secondo il rito ortodosso. Verso la metà del secolo XI la Rus’ di Kiev andò incontro a un processo di divisione in vari principati. Nel 1237-40 essa fu travolta dai tartari, musulmani, che diedero vita al potente impero dell’Orda d’Oro, rendendo tributari i principi slavi. A questa condizione di soggezione finì per sottrarsi il ducato della Moscovia, che nel 1380, nella battaglia di Kulikovo Pole, conseguì un’importante vittoria contro i dominatori tartari.

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2. Lo stato nazionale russo da Ivan III a Pietro il Grande

Fu Ivan III (1462-1505) a fondare in senso proprio lo stato nazionale russo. Egli liberò la Moscovia dai tartari, sottomise la nobiltà al controllo della corona, stabilì l’unione del potere religioso e di quello politico nelle mani del sovrano. Mosca venne da lui proclamata “Terza Roma”. Geograficamente nei primi decenni del ’500 la Russia si estendeva dal mar Baltico al mar Caspio, dalle terre soggette alla sovranità polacca agli inizi della Siberia. Il paese era l’incrocio delle influenze dell’Europa e del mondo asiatico. Non disponeva, salvo Arcangelo, bloccato dai ghiacci per la maggior parte dell’anno, di porti che lo collegassero con l’Europa. La chiesa ortodossa era una chiesa di stato. Al vertice stava il sovrano, in mezzo la nobiltà dei boiari, in basso le masse contadine asservite. Il commercio era nelle mani degli stranieri, e il paese era poverissimo di strati intermedi produttivi e commerciali. La struttura del potere – e questa fu una caratteristica destinata a durare fino al ’700 – era condizionata dalle oscillazioni prodotte da un lato dagli sforzi del sovrano di accentrare in sé tutti i poteri e dall’altro da quelli della nobiltà di contrastare un simile accentramento. Nella seconda metà del ’500 Ivan IV (1533-84), che fu il primo, nel 1547, a insignirsi del titolo di “zar”, aveva fortemente consolidato il potere nelle proprie mani, stroncando spietatamente le opposizioni dei boiari (per cui fu detto “il Terribile”). Egli sottomise i cosacchi, respinse i tartari, aprì le porte a olandesi e inglesi. Poco dopo la sua morte ebbe inizio l’epoca detta dei “torbidi”, durante la quale il potere centrale subì un’eclissi. Fra il 1598 e il 1605 regnò l’usurpatore Boris Fëdorovic Godunov. Seguì un periodo di anarchia, che favorì le mire espansionistiche dei polacchi e degli svedesi. I “torbidi” ebbero fine con l’elezione al trono nel 1613 da parte di un’Assemblea nazionale di Michele III (1613-45), che inaugurò la dinastia dei Romanov, destinata a restare sul trono fino al 1917, anno della caduta dello zarismo. Lo zar Alessio I (1645-76) accentuò le tendenze assolutistiche, mettendo in atto un’opera espansionistica in direzione dell’Ucraina, della Lituania e della Siberia. Il regno, che contava allora circa 8 milioni di abitanti, restava caratterizzato da un dominante isolazionismo antioccidentalista, che trovava il suo baluardo nella chiesa ortodossa. La condizione dei contadini era segnata da uno spietato servaggio (servitù della gleba), che favorì la grande rivolta guidata da Stenka Razin (1667-71). La volontà dello zar di asservire completamente la chiesa allo stato provocò una scissione e la costituzione della chiesa dei “vecchi credenti”. Morto Alessio, dopo un periodo di instabilità politica, contraddistinta dalle ambizioni della figlia Sofia, reggente dal 1682, il potere venne saldamente assunto nel 1689 dal fratellastro di questa Pietro I, poi detto, per le sue straordinarie imprese, “il Grande”. Egli si pose come scopi primari la modernizzazione, anzitutto in campo militare, della Russia arretrata, quindi l’utilizzazione a questo scopo della scienza e della tecnologia occidentali e il consolidamento del sistema assolutistico. Nel 1696 strappò Azov ai turchi, fra il 1697 e il 1698 organizzò una “grande ambasceria” in Occidente per formare nuovi quadri in grado di impiantare in Russia le tecniche europee. Del pari, condusse un attacco implacabile alle tradizioni russe, anche religiose, giudicate responsabili dell’arretratezza, giungendo fino a mettere a morte il proprio figlio Alessio, divenuto il punto di riferimento delle resistenze alla sua politica (1718). Al fine di acquistare il controllo del Baltico, vitale per i rapporti commerciali con l’Occidente, attaccò la Svezia. Grazie alla formazione di una flotta militare e all’ammodernamento dell’esercito, riportata su Carlo XII la grande vittoria nella battaglia di Poltava nel 1709, con la pace di Nystad (1721) Pietro ottenne il suo scopo. Nello stesso anno prese il titolo di imperatore di Russia. Nel 1703 fu fondata Pietroburgo, simbolo della proiezione della nuova Russia verso l’Occidente. Dopo la vittoria sulla Svezia, lo zar diede inizio a una serie di riforme volte a coronare il sistema assolutistico. Al Senato furono riconosciuti solo poteri consultivi. Una “tabella dei ranghi” (1722) fissò le gerarchie. Alla nobiltà fu imposto di servire lo stato. La chiesa fu completamente piegata al potere assolutistico, suscitando grandi reazioni anche popolari. Agli operai fu imposto il lavoro forzato e i contadini, gravati dal fiscalismo e dallo sfruttamento, videro peggiorare la loro condizione. Per far progredire il sapere furono introdotte riforme nel campo dell’istruzione e venne fondata l’Accademia delle Scienze. Grazie all’opera di Pietro, che morì nel 1725, la Russia diventò una grande potenza europea, ma lo sforzo di modernizzazione, diretto essenzialmente a scopi militari, non investì l’insieme dei rapporti economico-sociali.

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3. La riscossa della nobiltà e il regno di Caterina II

Nel corso del ’700 la Russia prese parte alle maggiori guerre europee e diresse in particolare le sue mire contro la Polonia. Un’altra direttrice della politica espansionistica fu il confronto con la Turchia. Nel quarantennio seguente la morte di Pietro si ebbe una forte ripresa dei poteri della nobiltà, che si era legata ai costumi e alla cultura europea, specie francese. Dopo che la zarina Anna Ivanovna (1730-40) ebbe sottoposto la corte all’influenza di elementi tedeschi, il regno di Elisabetta (1741-62) diede luogo a una reazione nazionalistica. In questo periodo si ebbe la formazione di un originale ceto intellettuale russo e la fondazione nel 1755 dell’Università di Mosca. Con Pietro III (1762) la riscossa della nobiltà e il movimento antipietrino toccarono il culmine. Nel 1762, in seguito all’assassinio di Pietro III, salì al trono la moglie, una principessa tedesca, con il nome di Caterina II (1762-96). La nuova zarina, nel clima del dispotismo illuminato, per un verso procedette a rinsaldare il potere del sovrano, per l’altro stabilì una forte alleanza sociale con la nobiltà, di cui rafforzò ulteriormente il dominio sui contadini in condizione di servaggio. Nel 1765 Caterina procedette a secolarizzare i beni della chiesa. Quindi nel 1767 convocò una Commissione legislativa per discutere di riforme, ma i risultati furono nulli. L’acuto malessere contadino trovò un’allarmante espressione nella grande rivolta agraria guidata da Emel´jan Pugacëv, che dopo varie battaglie venne infine sconfitto, catturato e ucciso (1773-75). Un’importante riforma fu la riorganizzazione dei governatorati, che aumentò il controllo dei funzionari centrali sulle periferie. L’emanazione nel 1785 di una Carta della nobiltà sancì formalmente il maggiore dominio della nobiltà sui contadini. Caterina favorì inoltre il sorgere di nuovi istituti per il miglioramento dell’istruzione delle élites, anche femminili. La zarina ostentò l’adesione agli ideali della cultura dell’Illuminismo, ma si trattò in larga misura di un fatto esteriore e propagandistico. Importanti successi Caterina ottenne in politica estera. In seguito a un lungo periodo di ostilità con la Turchia (1768-92), la Russia si vide riconosciuto il diritto di navigazione nel Mar Nero e di attraversamento degli Stretti e occupò la Crimea e il Kuban. Altra direttrice di intervento e di espansione fu la Polonia. Le tre spartizioni di questo paese nel 1772, nel 1793 e nel 1795 procurarono all’impero sia nuovi territori sia una durevole influenza.

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4. Il trionfo contro Napoleone. Da Alessandro I a Nicola I

La Russia giocò un ruolo fondamentale nelle guerre contro la Francia di Napoleone. Lo zar Paolo I (1796-1801) inviò in Occidente le armate di Alexsandr V. Suvorov, che nel 1799 cacciarono i francesi dall’Italia, ma nel 1800 ruppe con l’Inghilterra da lui accusata di opporsi all’influenza russa in Europa. Il suo successore, Alessandro I (1801-25), che riprese la politica antifrancese, dopo aver subito una gravissima sconfitta ad Austerlitz (1805), fu indotto a cercare un accordo con Napoleone a Tilsit nel 1807. Ma si trattò unicamente di una tregua. Nel 1809 la Russia si impadronì della Finlandia e nel 1812 della Bessarabia, sottratte l’una alla Svezia e l’altra alla Turchia. In politica interna Alessandro mostrò dapprima aperture in senso liberaleggiante; ma i seri progetti riformatori del ministro Michail M. Speranskij di trasformare la Russia in una monarchia costituzionale risultarono vanificati da un’ondata di spirito nazionalistico e conservatore. I contrasti di interesse di carattere geopolitico ed economico, accentuati questi ultimi dagli effetti del “blocco continentale”, indussero infine Napoleone a invadere la Russia nel 1812, con un esito catastrofico. La definitiva sconfitta di Napoleone nel 1814-15 portò Alessandro con le sue armate fino a Parigi. Al congresso di Vienna del 1814-15 che sancì la restaurazione antinapoleonica, la Russia ottenne la Polonia. Alessandro firmò nel 1815 con Prussia e Austria la Santa Alleanza in funzione reazionaria. Lo spirito più retrivo trionfò durante il regno di Nicola I (1825-55), che, subito dopo aver represso il tentativo insurrezionale dei decabristi nel 1825, mise in atto un rigido controllo poliziesco e una sistematica repressione contro l’opposizione intellettuale e le numerose rivolte contadine. Gli intellettuali russi si divisero fra “occidentalisti”, orientati verso riforme liberali e democratiche, e “slavofili”, di orientamento nazionalista e ostili all’importazione in Russia di modelli di vita occidentali. Nel 1830-31 i russi soffocarono in modo sanguinoso la rivolta della Polonia e nel 1848-49 i moti nazionali in Polonia e Ungheria. La guerra di Crimea (1853-56), originata dalle mire espansionistiche della Russia verso la Turchia, mise quest’ultima di fronte a Inghilterra, Francia e Piemonte. La sconfitta russa fu la spia dell’arretratezza sociale del paese, che nel 1855 aveva raggiunto i 70 milioni di abitanti.

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5. Il crepuscolo dello zarismo. Da Alessandro II a Nicola l’“ultimo”

In questo quadro il successore di Nicola I, Alessandro II (1855-81) ritenne indispensabile avviare un corso riformistico. Vennero varate importanti riforme in campo militare, amministrativo, giudiziario ed economico-sociale, la più importante delle quali fu l’abolizione nel 1861 della servitù della gleba. Essa fallì però nel tentativo di dar vita a una robusta proprietà contadina indipendente, tanto che l’irrisolta questione agraria continuò a gravare enormemente sul paese. L’industria, dal canto suo, prese a svilupparsi più per iniziativa dello stato e del capitale straniero che non della borghesia locale. Nel 1863 le truppe russe repressero una nuova insurrezione in Polonia. Fra la gioventù in primo luogo studentesca e il regime andò stabilendosi un solco profondo, tanto che prese a formarsi la corrente di coloro che aspiravano ad “andare verso il popolo” per risvegliarlo anche politicamente. Ebbe così origine il populismo, che andò però incontro all’insuccesso. Intanto l’anarchico Michail A. Bakunin iniziò a teorizzare la violenza rivoluzionaria come unico mezzo per sollevare la società russa. Durante il regno di Alessandro II la Russia allargò notevolmente i confini dell’impero. La guerra russo-turca del 1877-78 portò nel 1878 al congresso di Berlino, che attribuì alla Russia la Bessarabia meridionale e pose lo stato indipendente di Bulgaria sotto la sua influenza. Il fallimento della pacifica “andata al popolo” provocò il sorgere di organizzazioni terroristiche e nel 1881 la Narodnaja volja (Libertà del popolo) assassinò lo zar. Il regno di Alessandro III (1881-94) fu contraddistinto da un accentuato conservatorismo immobilista e da una politica di russificazione forzata nei confronti delle nazionalità non russe dell’impero. Progredì notevolmente l’industrializzazione, che si localizzò in poche zone a forte concentrazione operaia. In politica estera, Alessandro III negli ultimi anni del suo regno avvicinò il paese alla Francia in funzione antitedesca e antiaustriaca. Nel 1894 salì al trono Nicola II (1894-1917), che sarebbe stato l’ultimo zar. Lo sviluppo dell’industria, che trovò il suo stratega nel conte Sergej Witte, e della classe operaia favorì il consolidarsi del socialismo marxista, che ebbe il suo primo importante teorico in Georgij Plechanov e sostenne, in polemica con gli eredi del populismo fautori di un socialismo agrario, la necessità e positività della modernizzazione industrialistica e capitalistica anche in Russia quale presupposto della lotta rivoluzionaria della classe operaia e del suo partito per il socialismo. Nel 1898 venne fondato a Minsk il Partito operaio socialdemocratico russo, nelle cui file presto emersero Vladimir Il´ic Ul’janov detto Lenin, Julij O. Cederbaum detto Martov e Lev D. Bronstein detto Trockij. Nel 1902 sorse anche il Partito socialrivoluzionario, a base contadina, erede del populismo e favorevole a un socialismo agrario comunitario. Nel 1895 l’impero aveva raggiunto i 125 milioni di abitanti. Un grande risultato fu la costruzione della ferrovia transiberiana. Mentre proseguiva la colonizzazione della Siberia, la Russia mise in atto una vasta azione di penetrazione in Estremo Oriente. In particolare la cessione da parte della Cina di Port Arthur nel 1898 e la penetrazione in Manciuria misero in urto il paese con il Giappone. La tensione russo-giapponese nel settore sfociò nella guerra del 1904-1905, conclusasi con la totale sconfitta dell’impero zarista, per terra a Mukden e per mare presso le isole Tsushima. In seguito alla pace di Portsmouth la Russia perse Port Arthur e parte dell’isola di Sakhalin e dovette evacuare la Manciuria. Le sconfitte militari acutizzarono all’estremo i conflitti politici e sociali interni, così da provocare nel 1905 la prima delle grandi rivoluzioni russe di questo secolo. Intorno al 1900 si contavano già oltre due milioni di operai, fortemente concentrati in poche isole di grande industria, in condizioni per lo più miserabili e nelle cui file mise radici l’agitazione rivoluzionaria della socialdemocrazia russa. Questa nel 1903 si era divisa fra l’ala “bolscevica” guidata da Lenin, il quale mirava a fare del partito un’organizzazione elitaria di rivoluzionari di professione ed escludeva che all’abbattimento dello zarismo potesse far seguito un regime borghese liberale, e l’ala “menscevica” che auspicava un partito di massa democratico e riteneva necessaria la formazione di una repubblica liberalborghese allo scopo di favorire un moderno sviluppo capitalistico del paese. Nel gennaio del 1905 ebbe inizio a Pietroburgo la rivoluzione, che coinvolse operai e soldati. Nelle campagne scoppiò la jacquerie. Lo zar promise in ottobre la concessione di un sistema parlamentare. Nella capitale i lavoratori diedero vita a un soviet (consiglio). In dicembre l’insurrezione armata degli operai a Mosca provocò una sanguinosa repressione, che aprì la strada alla reazione. Fra il 1906 e il 1914 l’impero ebbe una caricatura di regime rappresentativo, che si espresse nell’attività di assemblee (Dume) sostanzialmente impotenti, anche se i margini delle libertà politiche e intellettuali si allargarono notevolmente. Negli anni seguenti la rivoluzione, l’energico statista Pëtr A. Stolypin, osteggiato dai circoli più chiusi e reazionari, cercò di mettere in atto un corso di incisive riforme anzitutto in campo agrario a fini politicamente conservatori; ma la sua politica fu travolta dal suo assassinio a opera di un terrorista nel 1911. I due anni che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914 videro un rilancio delle agitazioni operaie e contadine, con un seguito di massacri. Fra il 1908 e il 1913, in conseguenza della grave crisi culminata nelle guerre balcaniche, la tensione fra l’impero russo e quello austroungarico crebbe fortemente.

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6. La guerra mondiale, le rivoluzioni del 1917, la vittoria dei bolscevichi e la formazione dell’URSS

Scoppiata la prima guerra mondiale nell’agosto 1914, in conseguenza dell’attacco austriaco alla Serbia, di cui la Russia si erigeva a protettrice, quest’ultima intervenne nel conflitto in condizioni di grave inferiorità militare, dovuta anzitutto alla sua arretratezza industriale. Se ottennero successi contro gli austroungarici, nel 1915 i russi subirono disastrose sconfitte nelle battaglie di Tannenberg e dei Laghi Masuri a opera dei tedeschi. Come già nel 1905 anche nel 1917 le sconfitte, trasformatesi in disgregazione militare, aprirono la strada alla rivoluzione politica e sociale. Questa – la rivoluzione di febbraio – ebbe inizio il 23-24 febbraio (secondo il calendario russo e 8-9 marzo secondo quello occidentale, adottato anche in Russia nel febbraio 1818) a Pietrogrado, dove si formò un soviet degli operai e dei soldati. Il 2 (15) marzo seguì l’abdicazione dello zar in favore del fratello, il granduca Michele. Poiché questi, tuttavia, rifiutò la corona, venne definitivamente estromessa, dopo secoli di dominio, la dinastia dei Romanov e l’impero si trasformò di fatto in una repubblica. Il potere fu diviso fra il governo “provvisorio” (in attesa, cioè dei deliberati di una futura assemblea costituente), dominato da aristocratici e borghesi di orientamento liberale, fra cui il principe Georgij E. L´vov e lo storico Pavel N. Miljukov, e il soviet, in cui facevano sentire la loro influenza i socialrivoluzionari, i bolscevichi e i menscevichi. Nelle campagne si diffuse la rivoluzione agraria. In aprile Lenin, tornato dall’esilio, esortò il soviet a prendere tutto il potere, ponendo, contro la linea ancora prevalente nelle stesse file rivoluzionarie, gli obiettivi della pace immediata e della “terra ai contadini”. Un’offensiva militare contro i tedeschi, lanciata in giugno e decisamente avversata dai bolscevichi, fallì completamente. In luglio il governo, guidato dal socialrivoluzionario Aleksandr Kerenskij, condusse allora una dura repressione contro i bolscevichi accusati di tradimento. In una situazione di disfacimento militare e di crollo del fronte, si fece strada un tentativo controrivoluzionario diretto dal generale Lvar Kornilov, fronteggiato con successo da Kerenskij ora appoggiato dai bolscevichi. In settembre i bolscevichi, che godevano della superiorità della loro organizzazione centralizzata in una condizione di caos crescente e potevano ormai contare su circa 250.000 iscritti, ottennero la maggioranza nei soviet di Pietrogrado, di cui divenne presidente Trockij, unitosi in agosto ai bolscevichi, e di Mosca e rafforzarono il loro consenso fra gli operai e i soldati. In ottobre Lenin si orientò decisamente per l’insurrezione e il 24-25 ottobre (6-7 novembre), con l’opposizione di Grigorij Zinov´ev e Lev Kamenev, i bolscevichi presero il potere, costituendo un governo di “commissari del popolo”, presieduto da Lenin e appoggiato dai soli socialrivoluzionari di sinistra. Fu questa la rivoluzione d’Ottobre. Dopo che l’elezione dell’Assemblea costituente, cui spettava di decidere del futuro politico e istituzionale del paese, ebbe segnato una grave disfatta elettorale per i bolscevichi, Lenin il 18 gennaio 1918 fece sciogliere l’Assemblea stessa, accusandola di essere una roccaforte della borghesia. Gli avversari del bolscevismo denunciarono questa misura come il divorzio definitivo fra bolscevismo e democrazia e la rivoluzione d’Ottobre come un colpo di stato. Poco dopo, il 3 marzo, la Russia sovietica, per salvare il regime, firmò la pace di Brest-Litovsk con la Germania, che impose durissime condizioni. L’opposizione alla pace indusse i socialrivoluzionari di sinistra ad abbandonare il governo, così che i bolscevichi poterono instaurare il loro monopolio di potere. Contro tutte le aspettative, i bolscevichi riuscirono a consolidare il proprio dominio. La rivoluzione internazionale su cui essi avevano contato, anche per poter ottenere gli aiuti necessari a superare l’arretratezza economica dell’ex impero, non avvenne e la Russia sovietica si trovò in uno stato di completo isolamento. Nel corso del 1918-19 i comunisti stabilirono la “dittatura del proletariato”, che in realtà era la dittatura del loro partito, eliminando dalla scena politica tutti gli altri partiti e scatenando un regime di terrore rosso contro gli oppositori, di cui divenne strumento fondamentale la Ceka creata nel dicembre 1917. Lo zar e i membri della sua famiglia furono uccisi a Ekaterinburg nel luglio del 1918. Vennero così poste le basi di un regime totalitario (totalitarismo). Scoppiata la guerra civile nel 1918, l’Armata rossa, di cui fu grande organizzatore Trockij, sconfisse i controrivoluzionari “bianchi” e le truppe straniere che li sostenevano, ottenendo una piena vittoria nel 1921. Tale vittoria fu favorita in maniera sostanziale dal timore dei contadini che un successo dei “bianchi” portasse al ristabilimento del potere dei grandi proprietari espropriati. Per contro i bolscevichi subirono nell’agosto 1920 una disfatta alle porte di Varsavia, dopo iniziali vittorie, nella guerra contro la Polonia, condotta con la speranza di poter attivare la rivoluzione nell’Europa centro-occidentale. Nel 1918 l’economia era stata posta sotto il controllo dello stato, nel quadro di un processo generalizzato di nazionalizzazioni. Il fallimento del “comunismo di guerra” – che aveva determinato il razionamento delle scarsissime risorse in un contesto di spaventosa miseria, portato alla confisca forzata dei prodotti agricoli nelle campagne e provocato il collasso della produzione con una conseguente terribile carestia – e il crescere delle tensioni interne – culminate in scioperi operai e nell’insurrezione della base navale di Kronstadt, sanguinosamente repressa – produssero una svolta energicamente patrocinata da Lenin. Al X congresso del Partito del marzo 1921 da un lato fu introdotto il monolitismo all’interno del partito, così da rafforzare la dittatura e consolidare il potere dei suoi capi, dall’altro fu varata la Nuova Politica Economica (NEP), che, pur lasciando nelle mani dello stato il controllo dell’economia, riconsegnò ai privati i settori medio-piccoli dell’economia sia industriale sia agraria. Nel 1922, dopo che nel 1918 aveva preso vita la Repubblica socialista sovietica russa, venne formalmente costituita l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (URSS). Mentre Lenin, colpito dalla malattia che lo avrebbe condotto alla morte nel gennaio del 1924, era ridotto ai margini dell’attività politica, nel 1923 il gruppo dirigente sovietico, composto da Trockij, Zinov’ev, Kamenev, Nikolaj Bucharin e Josif V. Dzusgavili detto Stalin, entrò in un periodo di accesi conflitti interni, che avevano per oggetto le basi politiche e sociali dello stato, il ruolo del partito, il modello di sviluppo economico, il centralismo burocratico, i nessi fra dittatura e democrazia, il rapporto fra Rivoluzione russa e rivoluzione internazionale. Questi contrasti videro come maggiori protagonisti Trockij, favorevole al rilancio della rivoluzione internazionale e a una industrializzazione accelerata, e Stalin, convinto dell’irrealtà di un rilancio prossimo della rivoluzione in Occidente e deciso a costruire con le sole forze della Russia un potente stato socialista (“teoria del socialismo in un paese solo”). Alla fine del 1927 Stalin aveva vinto completamente la lotta per il potere. Trockij fu esiliato e Zinov’ev e Kamenev emarginati.

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7. Dal consolidamento dello stalinismo alla vittoria sovietica nella seconda guerra mondiale.

La NEP aveva avuto un rilevante successo rivitalizzando l’economia; ma Stalin, deciso a rafforzare nei tempi più rapidi possibili la grande industria a fini anzitutto militari e a stabilire il pieno controllo dello stato sulle campagne e il loro sfruttamento al servizio dell’industrializzazione, nel 1928 impose una svolta, che costò la rottura politica con il gradualista Bucharin. Essa comportò da un lato la collettivizzazione forzata delle terre, che segnò un’ondata di repressione terroristica nelle campagne anzitutto contro i contadini più agiati (i kulaki), l’iniziale crollo della produzione, la creazione di aziende collettive (kolchoz) e statali (sovchoz), dall’altro il varo, a partire dal 1928, di piani quinquennali per l’industria sotto il totale controllo della burocrazia centrale. I sindacati diventarono più di prima meri strumenti al servizio del regime e per incrementare la produzione fu istituita un’accentuata gerarchia salariale, che pose fine alle precedenti tendenze al “livellamento”. Fra il 1928 e il 1941 fu creata un’importante base industriale, che consentì la costituzione di un esercito modernizzato. Nell’era staliniana l’URSS fu sottoposta a un regime di totale conformismo. Gli oppositori, supposti o reali, furono sottoposti a un sistematico terrore, e molti milioni di persone appartenenti a tutti gli strati sociali vennero concentrate in campi di lavoro forzato (gulag), dove in gran numero trovarono la morte. Nel 1934 l’assassinio di Sergej Kirov, un alto esponente del regime, offrì il pretesto per introdurre il terrore all’interno dello stesso partito al potere. Con lo scopo di rinsaldare la dittatura personale di Stalin, che aveva soppiantato la stessa dittatura del partito, fra il 1936 e il 1938 vennero messe in atto grandi “purghe” contro i “nemici del popolo”, nel corso delle quali furono condannati a morte dopo processi farsa Zinov’ev, Kamenev e Bucharin. Sospettoso di una possibile opposizione militare oltre che politica, Stalin sottopose nel 1937 a una terribile purga l’esercito, facendo fucilare migliaia di ufficiali e decapitando il vertice dell’Armata rossa. Trockij, che aveva denunciato Stalin come colui che aveva “tradito” la rivoluzione, fu fatto assassinare in Messico nel 1940. Nel 1936 il dittatore, oggetto di un culto sfrenato, fece varare una costituzione, la quale – dopo che quelle precedenti del 1918 e del 1924 avevano privato del diritto di voto gli strati sociali giudicati nemici del regime e persino stabilito un valore differenziato del voto a vantaggio degli “avanzati” operai rispetto agli ancora politicamente “arretrati” contadini – ristabilì il suffragio universale nel quadro di un regime plebiscitario dominato dal partito unico al potere. In politica estera, la Russia sovietica aveva fin dall’inizio agito con un duplice volto: per un verso nel ruolo di uno stato rivoluzionario volto a sovvertire l’ordine mondiale mediante l’Internazionale comunista, l’organizzazione dei partiti comunisti fondata nel 1919; per l’altro nel ruolo di uno stato che cercava intese con gli altri stati secondo i propri specifici interessi. In conseguenza del fallimento della rivoluzione internazionale, prese un’importanza sempre maggiore la seconda linea. Un primo successo in questa direzione era stata la firma con la Germania nel 1922 del trattato di Rapallo, che stabilì le relazioni diplomatiche fra i due paesi e avviò una collaborazione palese di carattere commerciale e un’altra segreta di tipo militare. Dopo aver sperato invano che la grande crisi del 1929 scatenasse nuovamente un’ondata rivoluzionaria internazionale, l’URSS staliniana riprese la via delle intese diplomatiche. Nel 1933 le relazioni furono stabilite infine anche con gli Stati Uniti e nel 1934 l’URSS entrò nella Società delle Nazioni. Preoccupato dalla vittoria del nazionalsocialismo in Germania e dall’espansione dei regimi autoritari di destra in Europa, Stalin indusse l’Internazionale comunista a lanciare la linea del Fronte popolare antifascista e nel 1935 strinse un’alleanza militare con Francia e Cecoslovacchia. Quindi nel corso della guerra civile in Spagna, scoppiata nel 1936, sostenne attivamente i repubblicani. Dopo che la conferenza di Monaco del settembre 1938 ebbe sancita la fine della Cecoslovacchia, con il consenso di inglesi e francesi e l’esclusione dell’URSS, e risultata vana la ricerca di una intesa militare con Francia e Gran Bretagna in funzione antinazista, il 23 agosto 1939, con uno strabiliante capovolgimento di posizioni, URSS e Germania strinsero un patto, firmato da Molotov e Ribbentrop, che stabilì la spartizione della Polonia fra tedeschi e sovietici e le rispettive sfere di influenza nell’Europa orientale. L’accordo diede il via libera all’attacco tedesco alla Polonia, che provocò l’inizio della seconda guerra mondiale nel settembre 1939. Stalin contava erroneamente su una lunga guerra di logoramento fra le opposte potenze capitalistiche, a proprio vantaggio. Nel settembre 1939 l’URSS occupò la parte orientale della Polonia; nel novembre attaccò la Finlandia, con cui nel marzo 1940 strinse una pace vantaggiosa dopo una difficile guerra; nel giugno 1940 incorporò Lituania, Estonia, Lettonia; e sottrasse alla Romania Bessarabia e Bucovina settentrionale. In conseguenza di un progressivo deterioramento dei rapporti con l’URSS, la Germania, vittoriosa a Occidente, attaccò i sovietici nel giugno del 1941, decisa a una guerra di annientamento del comunismo e alla formazione di un impero agrario ad est. Ma, dopo grandi successi iniziali, i tedeschi, che con la loro inaudita violenza distruttiva finirono per rafforzare il legame fra Stalin e le masse, nonostante fenomeni tutt’altro che irrilevanti di collaborazionismo nelle zone occupate, vennero bloccati di fronte a Mosca (novembre-dicembre 1941). La guerra fra i due paesi, condotta con una durezza e una crudeltà senza pari, ebbe una svolta decisiva con la battaglia di Stalingrado, conclusasi alla fine del gennaio 1943 con una grande vittoria sovietica, che segnò altresì uno straordinario trionfo personale per Stalin. Questi, che nel periodo delle sconfitte aveva fatto appello al patriottismo russo e alle tradizioni nazionali, nel momento del successo ascrisse il merito delle vittorie al suo regime. Altro storico successo fu la rottura dell’assedio di Leningrado nel gennaio 1944. L’URSS emerse come la potenza maggiormente impegnata nella lotta contro la Germania e le sue armate, il fattore primario della sua sconfitta. Alla conferenza di Teheran (novembre-dicembre 1943) Stalin, Churchill e Roosevelt decisero l’apertura del “secondo fronte” con lo sbarco in Francia. In concomitanza con l’offensiva angloamericana a Occidente, a Oriente l’Armata rossa prese a spingersi irresistibilmente verso Berlino, che venne conquistata ai primi di maggio del 1945. Nel febbraio alla conferenza di Jalta e nel luglio 1945 alla conferenza di Potsdam i “grandi” (URSS, USA, Gran Bretagna) si confrontarono in relazione al futuro ordine internazionale. In agosto i sovietici attaccarono il Giappone, che dopo il bombardamento atomico statunitense, capitolò il 2 settembre. Alla fine della guerra, l’URSS era assurta al rango di seconda potenza mondiale, dopo gli Stati Uniti, e le sue truppe controllavano l’Europa orientale. Il trionfo conseguito da Stalin era ancora maggiore di quello di Alessandro I nel 1815. La grande vittoria militare e la costituzione di una vasta zona di influenza nell’Europa dell’est non potevano però attutire il peso di elementi di eccezionale gravità come la perdita di circa 20 milioni di abitanti, le immense distruzioni materiali e un calo produttivo che nel 1945 risultava di circa il 42% rispetto al 1941.

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8. La divisione del mondo e l’URSS come “superpotenza” mondiale. Da Kruscëv e dalla destalinizzazione al “socialismo reale” di Breznev

Nei primi anni del dopoguerra nell’Europa orientale vennero costituite le cosiddette democrazie popolari, in realtà dittature comuniste sottoposte alla più rigida dominazione sovietica. L’unico paese che si sottrasse ad essa fu la Iugoslavia di Tito, nel 1948 entrata in conflitto con l’URSS in nome della propria autonomia nazionale. Per motivi politici, l’URSS e i paesi dell’est europeo respinsero il piano Marshall, e cioè l’aiuto americano per la ricostruzione economica. L’Europa occidentale e l’Europa orientale vennero divise dalla cortina di ferro in un clima crescente di guerra fredda fra mondo capitalistico e mondo sovietico. Nella Germania, a sua volta divisa, i sovietici misero in atto un tentativo di blocco della zona occidentale di Berlino (1948-49), che però fallì, dopo aver provocato una tensione internazionale acutissima. Un nuovo straordinario successo per il blocco guidato dall’URSS staliniana fu la costituzione in Cina nel 1949 di un regime comunista, che nel 1950 stabilì un patto di amicizia fra i due giganti comunisti. I successi dell’espansionismo comunista indussero Stalin e Mao Zedong ad appoggiare l’invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord. La guerra di Corea (1950-53), che provocò l’intervento statunitense e dell’ONU, finì con la ricostituzione dello status quo ante.Nel 1949 la potenza militare dell’URSS si consolidò ulteriormente con lo scoppio della prima bomba atomica, cui avrebbe fatto seguito nel 1953 quello della prima bomba all’idrogeno.Fra il 1945 e il 1953, anno della morte di Stalin, all’interno dell’URSS non cessò di imperare il regime terroristico, in concomitanza con un’ondata di nazionalismo politico e culturale, di cui fu l’ideologo Andrej Zdanov, con acute punte di antisemitismo.
Alla morte di Stalin seguì un periodo di “direzione collegiale”, che in realtà inaugurò un periodo di incertezza e di lotta per il potere i cui protagonisti furono Georgij M. Malenkov, Nikolaj Bulganin, Nikita S. Kruscëv, il temuto capo della polizia Lavrentij Berija e Vjaceslav M. Skrjabin detto Molotov. Berija, accusato di tradimento, venne ucciso; e Kruscëv presto andò emergendo sugli altri. Egli si era convinto che occorresse liberarsi dal peso del sistema terroristico staliniano, il quale paralizzava le potenzialità della società sovietica. Dopo che nel 1955 vennero normalizzati i rapporti con la Iugoslavia, al XX congresso del PCUS del febbraio 1956 Kruscëv prese la clamorosa iniziativa di denunciare i crimini di Stalin, dando così inizio alla destalinizzazione, che venne ulteriormente allargata e consolidata al XXII congresso del 1962. Il leader sovietico teorizzò inoltre che il confronto fra mondo socialista e mondo capitalistico poteva assumere il volto di una “competizione pacifica” e che i rapporti fra i paesi e i partiti comunisti dovevano poggiare sull’autonomia di ciascuno pur nel quadro dell’internazionalismo proletario (policentrismo). L’opposizione del conservatore Molotov venne sconfitta. Ebbe così inizio il “disgelo”, che portò alla forte mitigazione del sistema repressivo, a un’ondata di riabilitazioni e alla liberazione di molti condannati nei campi di lavoro, a una maggiore, seppure sempre assai relativa, libertà per gli intellettuali. Se non che la destalinizzazione agì, per i suoi contraccolpi, come un fattore importante nelle crisi dei regimi comunisti apertasi nel 1956 in Polonia e in Ungheria. In Polonia, la crisi venne contenuta e superata; ma in Ungheria scoppiò una vera e propria rivoluzione, che portò infine al potere Imre Nagy, il quale proclamò l’uscita del proprio paese dal Patto di Varsavia. Allora Kruscëv ordinò all’esercito sovietico l’intervento, che fu causa nel novembre 1956 di una sanguinosa repressione e portò alla ricostituzione di un regime di osservanza sovietica. Grandi successi ottenne l’URSS in campo spaziale. Nel 1957 lanciò il primo satellite artificiale (lo sputnik) e nel 1961 Jurij Gagarin fu il primo astronauta. In campo economico l’industria pesante otteneva risultati favorevoli, ma persistevano gravi carenze nell’industria leggera e nella produzione agricola. Il disordinato attivismo riformatore di Kruscëv, che aveva investito sia l’industria sia l’agricoltura, non aveva portato i risultati sperati. La grande campagna per il dissodamento delle “terre vergini”, dopo i successi iniziali, aveva dato luogo a pesanti disillusioni. Ciò nonostante Kruscëv nel 1962 promise che nel giro di un ventennio l’economia sovietica avrebbe superato quella americana. Il leader sovietico, sventato nel 1957 un complotto volto a destituirlo, concentrò nelle sue mani tutti i poteri. Nel periodo krusceviano, l’URSS svolse un ruolo internazionale molto attivo. Kruscëv aveva bensì teorizzato la “competizione pacifica” fra mondo socialista e mondo capitalistico esprimendo una volontà di distensione, ma in effetti gli elementi di tensione non mancarono e acquistarono anche un carattere di grande acutezza. Nel 1955 i paesi del campo sovietico avevano dato vita al Patto di Varsavia in opposizione al Patto atlantico. L’intervento armato in Ungheria nel 1956 peggiorò gravemente i rapporti Est-Ovest. Sempre in quell’anno l’URSS non esitò a minacciare Francia e Gran Bretagna per la loro aggressione nei confronti dell’Egitto di Nasser, ponendo così le premesse per una sua crescente influenza nel mondo arabo. Altro fronte caldo fu la Germania. Kruscëv intendeva ottenere la legittimazione della Germania orientale e ridiscutere l’annosa questione dello status di Berlino. In un clima di deteriorati rapporti fra le due superpotenze, nell’agosto del 1961 Kruscëv indusse la Repubblica Democratica Tedesca a procedere alla costruzione di un muro che tagliò in due la città. Nell’autunno del 1962 si giunse alla crisi di Cuba, forse la più pericolosa nelle relazioni fra le due potenze dopo il blocco di Berlino del 1948-49. Divenuta un paese comunista dopo la rivoluzione castrista del 1959, Cuba era stata fatta oggetto di un fallito tentativo di invasione di esuli cubani direttamente appoggiato dagli USA. Kruscëv allora, con il pretesto di proteggere l’isola, ma anzitutto per controbilanciare l’accerchiamento missilistico del suo paese dalle basi americane in Europa e Asia, aveva iniziato l’installazione di missili sovietici nell’isola. Nell’ottobre 1962 si temette un confronto diretto fra le due superpotenze. La tensione si allentò solo dopo che l’URSS ebbe ritirato i missili e gli USA si furono impegnati a non invadere Cuba. Un’altra crisi di eccezionale gravità riguardò i rapporti fra URSS e Cina. Fra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, i cinesi avevano preso a scuotere la tutela dei sovietici, che avevano rifiutato di dare loro la bomba atomica e non li sostenevano in aspetti essenziali della loro politica estera. Ne derivò una grave frattura, con la sospensione degli aiuti economici da parte dell’URSS, l’aprirsi di un aspro contenzioso legato a rivendicazioni territoriali da parte della Cina e un violento conflitto ideologico. Nell’ottobre 1964 Kruscëv venne all’improvviso destituito. Seguì il ritorno a una “direzione collegiale”, nella quale facevano spicco Leonid Breznev e Aleksej Kossighin. Ma a mano a mano, ripetendo l’iter di Kruscëv, il primo andò acquistando un carattere preminente, fino a diventare il capo incontrastato dell’URSS. Il nuovo indirizzo ebbe fin dall’inizio un netto carattere antikruscëviano, nella convinzione che Kruscëv avesse portato avanti una politica destabilizzante. Stalin fu in parte riabilitato, il controllo verso i paesi dell’est si fece più rigido e gli intellettuali furono sottoposti a una stretta repressiva. Nell’agosto del 1968 i sovietici stroncarono in Cecoslovacchia la “primavera di Praga”, un corso riformistico diretto dal comunista revisionista Alexander Dubcek tendente a dare un carattere più democratico al regime. Le truppe del Patto di Varsavia invasero il paese e vi stabilirono un governo prono ai voleri di Mosca. Per ribadire il diritto sovietico al dominio sui paesi dell’est, Breznev elaborò la “teoria della sovranità limitata” dei paesi socialisti, in base alla quale nessuno di essi aveva il diritto di mettere in discussione i fondamenti del socialismo esistente e unico possibile (dottrina del “socialismo reale”). In politica interna, Breznev inasprì la lotta contro la dissidenza intellettuale. Lo scrittore Aleksandr Solzenicyn venne espulso dal paese, lo scienziato Andrej Sacharov perseguitato. Un problema spinoso diventò la richiesta, solo assai parzialmente soddisfatta, da parte di migliaia di ebrei di poter emigrare in Israele. Dissenso e forme di opposizione si manifestarono anche nella classe operaia e nelle nazionalità soggette all’egemonia russa. Nel 1977 fu varata la costituzione brezneviana, che per un verso affermò la perfetta armonia esistente nelle società sovietica, tale da dare allo stato il carattere di “stato di tutto il popolo” e per l’altro ribadì l’intangibile monopolio politico del PCUS. L’economia, dopo aver consentito un netto miglioramento nella disponibilità dei beni di consumo, andò incontro nel corso degli anni ’70 a una progressiva inversione di tendenza. Mentre l’industria mostrava insuperabili difficoltà nel rammodernamento tecnologico nell’età della telematica, l’agricoltura si avvitò in una crisi strutturale profonda, aggravata dalle inefficienze delle rete distributiva, così che fu necessario importare massicce quantità di cereali dall’Occidente. La politica estera ebbe un carattere accentuatamente espansivo e fu sorretta da un’intensa politica di riarmo, con negative conseguenze su un sistema economico squilibrato e per molti versi ancora assai arretrato. I rapporti con la Cina rimasero assai tesi. Nel 1969 e nel 1973 vi furono gravi incidenti di frontiera fra truppe sovietiche e cinesi; e nel 1971 l’URSS appoggiò l’India nel conflitto con il Pakistan, sostenuto invece dalla Cina. Un settore cruciale dell’influenza sovietica era il mondo arabo. L’Urss prese ad aiutare con grande impegno anzitutto l’Egitto, guidato dapprima da Nasser e poi da Anwar el Sadat; ma la guerra dei Sei giorni del 1967 vide una strepitosa vittoria di Israele e quella del Kippur del 1973 un’altra, seppur assai meno catastrofica, sconfitta dell’Egitto e dei suoi alleati. Poco dopo, Sadat, con grave smacco per i sovietici, avvicinò l’Egitto agli Stati Uniti. Un importante successo fu la vittoria dei comunisti nel 1975 a conclusione della guerra del Vietnam. Nell’ambito della persistente crisi indocinese, l’URSS continuò ad appoggiare il Vietnam in contrasto con la Cina. Particolarmente attivo si fece negli anni ’70 il sostegno ai regimi antioccidentali in Africa e in America Latina. Alla fine del 1979 l’URSS decise il proprio intervento militare in Afghanistan, in appoggio a un regime filosovietico minacciato dalla guerriglia anticomunista, destinato a trascinarsi per molti anni. In una condizione di crisi crescente del regime comunista in Polonia, nel dicembre del 1981 per evitare la minaccia di un intervento diretto delle truppe sovietiche, l’esercito polacco mise in atto un colpo di stato militare guidato dal generale Wojciech Jaruzelski. Nel novembre del 1982 Breznev morì lasciando alle sue spalle un paese al massimo della sua potenza militare, ma in preda a una situazione di stagnazione economica e privo delle risorse per sostenere la nuova corsa al riarmo minacciata dal presidente statunitense Ronald Reagan, e un regime politico segnato dal nepotismo, da ripetuti scandali e dall’immobilismo.

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9. Gorbacëv e il crollo del sistema sovietico

Dopo la morte di Breznev, all’interno del gruppo dirigente sovietico si aprì un’acuta fase di conflitti fra conservatori e innovatori, che trovò la sua soluzione solo nel 1985. A Breznev succedette Jurij Andropov, un innovatore che però morì nel febbraio 1984; e a lui succedette il conservatore Konstantin Cernenko, morto nel marzo del 1985. Venne allora eletto segretario generale del PCUS un protetto di Andropov, Michail Gorbacëv. Questi si fece subito portatore di un programma di rinnovamento del sistema socialista, nella convinzione che la società sovietica si trovasse ormai alle soglie di un crisi strutturale. Gorbacëv mise perciò al centro l’esigenza di una profonda ristrutturazione economico-sociale (perestrojka) in un clima di trasparenza (glasnost) dell’operato del potere. Egli era inoltre convinto della necessità per l’URSS di rilanciare in grande stile la distensione, per impedire che la corsa agli armamenti, in una nuova fase dello sviluppo tecnologico, esaurisse completamente le risorse del paese. Un catastrofico incidente nella centrale nucleare di Cernobyl nell’aprile 1986 funestò l’URSS, con effetti che si fecero sentire anche in vaste zone al di fuori dell’Unione. Nel 1988 Gorbacëv varò la quinta costituzione sovietica, che aprì le porte al pluralismo ideologico e partitico. E le elezioni del 1989 furono le prime elezioni libere della storia sovietica. Ma nel corso del loro sviluppo le riforme di Gorbacëv attivarono processi che assunsero il carattere non di un rinnovamento del sistema comunista nell’URSS e nell’est europeo bensì della crisi delle sue strutture portanti. La democrazia e il pluralismo politico misero in discussione il ruolo tradizionale del PCUS e fecero emergere robuste forze non socialiste e antisocialiste. Il sistema economico pianificato e centralizzato andò incontro a un progressivo sfaldamento, senza che nuovi meccanismi lo sostituissero efficacemente, generando così una crisi gravissima. Si ebbe inoltre l’esplosione di conflitti, anche sanguinosi, fra le nazionalità e l’avvio di processi secessionistici, particolarmente determinati nelle repubbliche baltiche integrate nell’Unione per effetto del patto nazi-sovietico. In conseguenza ebbe inizio la dissoluzione dell’Unione sovietica sorta nel 1922. La politica estera gorbacëviana ebbe due direttrici principali: i rapporti con il mondo capitalistico, e in specie gli USA, e i rapporti con i paesi dell’est europeo. In numerosi incontri con i presidenti degli Stati Uniti, Reagan e Bush, a partire da quelli di Ginevra del 1985 e di Reykjavik nel 1986, fu rilanciata una politica di distensione sempre più ampia e solida, che aprì le porte a un disarmo senza precedenti e trasformò i due paesi nemici in paesi amici. Un passo importante fu il ritiro militare sovietico dall’Afghanistan (1986-89). Nei confronti dei paesi dell’Est europeo, Gorbacëv prese atto del fallimento del suo intento iniziale di rinsaldare le relazioni interne al campo sovietico e lasciò libero corso alla dissoluzione dei regimi comunisti, che, in forme e in gradi diversi, nel 1989-91 crollarono ovunque. Mentre crollava l’impero, Gorbacëv compì estremi tentativi per salvare l’Unione Sovietica, ma essi fallirono completamente. Tre furono i colpi decisivi ad essi inferti: la proclamazione della sovranità della Federazione russa nel 1990; la sfida portata alla sua leadership da Boris Eltsin, un ex alto dirigente comunista divenuto suo aspro rivale, eletto nel giugno 1991 presidente della Federazione a suffragio diretto; un debole e mal organizzato colpo di stato condotto a Mosca nell’agosto dai comunisti conservatori e miseramente fallito per la resistenza guidata da Eltsin, che pose sotto accusa Gorbacëv per la sua debolezza. Dopo di allora il processo di dissoluzione precipitò. Il Partito comunista venne messo al bando. Il 28 agosto 1991 la Federazione russa proclamò la sua indipendenza. Nel dicembre 1991 l’Ucraina si staccò. Seguì la formazione di una debole Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) formata dalla Federazione russa, dall’Ucraina e dalla Bielorussia, a cui si aggiunsero subito dopo altri stati dell’ex URSS. Il 25 di quel mese Gorbacëv si dimise da presidente e il giorno dopo l’URSS cessò di esistere (ufficialmente dal 1°gennaio 1992). Il crollo dell’URSS ebbe l’effetto di scatenare in numerosi stati divenuti indipendenti conflitti violenti di carattere etnico, religioso e politico, legati in molti casi alla ridefinizione dei confini e alla presenza fuori della Federazione russa di circa 25 milioni di russi.

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10. La Federazione russa di Eltsin

Nel 1992 Eltsin, affermatosi come uomo forte della Federazione, deciso a far approvare una nuova costituzione che rafforzasse i suoi poteri presidenziali, si trovò a dover affrontare la ferma opposizione del Parlamento, in cui notevole era l’influenza dei comunisti e forte il timore di molti non comunisti di una presidenza autoritaria. Nel settembre 1993 la situazione divenne drammatica. Mentre Eltsin dichiarò sciolto il Parlamento, questo proclamò la decadenza del presidente, che reagì facendo attaccare dai carri armati la sede del Parlamento con un centinaio di morti, arrestare i capi dell’opposizione, indire nuove elezioni. Nel dicembre 1993 un referendum approvò una nuova costituzione, che rafforzava i poteri presidenziali e quelli del centro moscovita sulle varie regioni della Federazione. Eltsin venne eletto presidente, ma le elezioni del 1993 e quelle successive del 1995 per il Parlamento videro il rafforzamento da un lato della destra nazionalista e dall’altro della sinistra comunista, le quali conquistarono la maggioranza. Nell’immenso paese risultavano dominanti due questioni: il trapasso dall’economia collettivizzata all’economia di mercato e le tendenze secessionistiche di regioni che si sentivano tradizionalmente oppresse da Mosca. L’introduzione del capitalismo, che ebbe un’accelerazione a partire dal 1994 con un’ondata di privatizzazioni, incontrò enormi difficoltà. Mancavano personale e istituzioni adatte. La Russia vide un fortissimo abbassamento della produzione. Avanzò altresì uno spregiudicato strato di nuovi capitalisti, in molti casi apertamente collegati con una malavita organizzata dilagante. La corruzione raggiunse i vertici del potere, peggiorarono le condizioni di vita di larghi strati popolari, crebbero la disoccupazione e la povertà. Nel 1992 la Cecenia, una regione del Caucaso nordorientale, si proclamò indipendente, ma solo nel 1994 mise in atto la secessione. Eltsin e i russi sentirono la secessione come una sfida intollerabile all’unità della Federazione. Ebbe così inizio una guerra, che un esercito russo in grave crisi affrontò con scarsa capacità operativa e senza raggiungere lo scopo di spegnere la ribellione, sicché nel 1997 venne firmata una pace precaria, che riconosceva alla Cecenia il diritto all’indipendenza da realizzarsi in un secondo tempo. Dopo che alle elezioni legislative del 1995 i comunisti avevano ottenuto una forte affermazione, alle elezioni del 1996 per la presidenza Elstin sconfisse il candidato comunista Gennadi Zjuganov, ma la situazione politica si presentava molto instabile, tanto più essendo Eltsin in cattive condizioni di salute. Intanto l’economia andava costantemente peggiorando, facendo temere un vero e proprio collasso, evitato solo grazie agli aiuti forniti dal Fondo Monetario Internazionale e dagli USA, intesi a mantenere Eltsin al potere.

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11. La Russia di Putin

Nel 1998 il rublo subì una fortissima svalutazione. Notevolmente indebolito, il presidente si vide imporre dal Parlamento la nomina a primo ministro di Evgenij Primakov e dovette accettare una limitazione dei poteri presidenziali. In seguito a una serie di crisi ministeriali, nell’agosto del 1999 Eltsin, su cui gravavano pesanti accuse di corruzione estese alla sua cerchia familiare e a molti alti dirigenti del paese, nominò primo ministro Vladimir Putin, già alto funzionario dei servizi segreti. Era ormai cominciata l’era post-Eltsin.


Nel corso degli anni Novanta sulla scena internazionale la Federazione russa dovette fare i conti con il venir meno della posizione di superpotenza che era stata propria dell’Unione Sovietica, tra velleità di salvare quanto possibile di essa e la necessità di accettare la realtà di fatto. Nel 1992 la Russia iniziò a smantellare la maggior parte del suo arsenale nucleare, firmando in gennaio con gli Stati Uniti il secondo Strategic Arms Reduction Treaty (START II). Nel 1997 Eltsin, dinanzi alla politica dei paesi occidentali, sgradita a Mosca, tesa ad allargare la NATO con l’ingresso di paesi dell’Europa orientale, si incontrò con il presidente americano Clinton a Helsinki, accettando l’estensione in cambio dell’impegno a non stabilire in quei paesi basi atomiche. Nel giugno 1999 al vertice di Colonia dei G8 (i paesi più industrializzati del mondo) alla Russia furono garantiti aiuti economici internazionali.


Durante la guerra della NATO contro la Iugoslavia, la Federazione da un lato condannò l’azione bellica occidentale, dall’altro favorì il raggiungimento della pace, inviando un contingente militare che si unì a quelli occidentali al fine di promuovere il ritorno alla normalità nel Kosovo. Il governo Putin affrontò subito con energia la questione cecena, inviando nel settembre 1999 l’esercito in Cecenia con il compito di stroncare la ribellione dei separatisti islamici, accusati di una serie di sanguinosi attentati terroristici responsabili di centinaia di vittime. La situazione fu aggravata peraltro dall’insorgere di una ribellione di separatisti nel Dagestan. L’offensiva russa ebbe questa volta pieno successo, con la conquista della capitale della Cecenia Grozny nel febbraio 2000. La brutalità repressiva dei russi suscitò proteste internazionali.


Intanto l’ascesa al potere di Putin fu quanto mai rapida. Dopo che le elezioni legislative del dicembre 1999 avevano rafforzato il centro favorevole al governo, Eltsin, sempre più malato, diede le dimissioni, nominando Putin presidente ad interim. Questi nel marzo 2000 fu eletto presidente con una forte maggioranza e in maggio la Duma sanzionò la nomina di Mikhail Kasyanov a primo ministro. Putin provvide a far garantire l’impunità a Eltsin per le pendenti accuse di corruzione, ma anche a smantellare il potere della sua cerchia. Dopo aver dato il proprio appoggio agli USA nella guerra contro l’Afghanistan governato dai taliban, accusati di sostenere il terrorismo internazionale, il governo Putin si confrontò con un nuovo gravissimo inasprimento della crisi cecena in seguito all’azione di un commando di terroristi ceceni nel centro di Mosca (ottobre 2002) e alla strage di Beslan (settembre 2004).


All’indomani degli attacchi terroristici del settembre 2001, Putin offrì la collaborazione della Russia alla lotta contro il terrorismo internazionale lanciata dal presidente americano George W. Bush. In risposta al crescente unilateralismo statunitense, negli seguenti Putin consolidò però i rapporti della Russia con l’India e la Cina mentre, nel corso della crisi irachena del 2002-03, si oppose all’ipotesi dell’intervento militare preferendo un’applicazione più severa delle sanzioni. Nel frattempo si impegnò nel rilancio della Russia quale potenza militare e nel rafforzamento del suo primato all’interno della Federazione. Sul piano interno, a partire dai primi anni Duemila, Putin lanciò un’energica campagna tesa a limitare lo strapotere economico dei cosiddetti “oligarchi”, cioè quel nutrito gruppo di magnati che, all’indomani della dissoluzione dell’Unione Sovietica, riuscirono ad accumulare enormi fortune a danno delle grandi industrie statali. Favorì un rapporto maggiormente collaborativo con il parlamento, la Duma, e cercò di risanare l’economia del paese attraverso un piano di riforme strutturali e un incremento delle esportazioni di materie prime.


Nonostante le critiche per una sempre più accentuata tendenza all’accentramento dei poteri, Putin rafforzo la propria popolarità e nelle elezioni presidenziali del 2004 fu riconfermato con oltre il 70% dei voti. Nelle elezioni generali del dicembre 2007 il partito di Putin, Russia Unita, conquistò la maggioranza assoluta nella Duma e Dmitrij Medvedev fu nominato premier. Nel marzo successivo quest’ultimo fu eletto alla presidenza, mentre Putin assunse la carica di premier, potendo così continuare a esercitare un ruolo di primo piano nella politica russa. Il principale problema cui Medvedev dovette subito far fronte fu il conflitto tra la Georgia e i separatisti dell’Ossezia meridionale e dell’Abcasia. A causa delle proteste dei paesi occidentali successive all’intervento militare russo nella regione, Medvedev sospese la cooperazione con la NATO.


Nel 2009 fu annunciata la cessazione delle azioni di polizia in Cecenia, ma le tensioni rimasero alte, sfociando periodicamente in scontri violenti e in attentati come quelli alla metropolitana (marzo 2010) e all’aeroporto di Mosca (gennaio 2011). Sul piano interno, nel dicembre 2011, in occasione delle elezioni parlamentari, il partito di Putin e Medvedev subì una netta perdita dei consensi pur continuando a godere della maggioranza. Le sospettate irregolarità insieme all’annuncio della ricandidatura di Putin alle prossime presidenziali spinsero, per la prima volta dopo la fine dell’Unione Sovietica, oltre cinquantamila manifestanti a protestare davanti al Cremlino. Negli stessi giorni la Russia entrò a far parte del WTO.
Nonostante il protrarsi delle proteste e delle critiche nei suoi confronti, Putin vinse le elezioni presidenziali svoltesi nella primavera 2012, assumendo così per la terza volta l’incarico di presidente della federazione russa.
Tra i suoi primissimi provvedimenti rientrò la nomina di Medvedev a capo del governo.

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