Giappone

Stato attuale dell’Asia orientale.

  1. Le origini della popolazione giapponese
  2. La civiltà Jomon
  3. La civiltà Yayoi
  4. I re dello Yamato
  5. Le riforme del principe Shotoku
  6. La riforma Taika
  7. Il latifondo nobiliare e la decadenza del sistema burocratico
  8. Le origini del regime feudale giapponese. Lo shogunato di Kamakura
  9. Lo shogunato degli Ashikaga
  10. L’arrivo degli occidentali e l’unificazione del Giappone feudale
  11. L’epoca Tokugawa (o Periodo Edo)
  12. Il Rinnovamento Meiji e la nascita dello stato moderno
  13. La “Democrazia Taisho”
  14. L’era Showa, la guerra e la ricostruzione
  15. La nuova era Heisei
1. Le origini della popolazione giapponese

In base a recenti ritrovamenti archeologici si fa risalire la presenza dell’uomo nell’arcipelago giapponese a più di 100.000 anni fa. Sicuramente ricollegabili agli odierni abitanti dell’arcipelago sono i resti umani, risalenti a circa 18.000 anni fa, scoperti recentemente nell’isola di Okinawa (Ryukyu). Le differenze con i giapponesi moderni e l’analogia sia con gli attuali abitanti di Okinawa che con quelli delle altre aree dell’arcipelago di epoca neolitica e con gli ainu (che abitano l’isola di Hokkaido) hanno portato a riformulare le teorie sulle origini della popolazione giapponese. Un tempo si riteneva che gli ainu, autoctoni, fossero stati respinti verso nord dagli antenati di razza mongolide dei giapponesi moderni. Più tardi, gli antropologi giapponesi hanno sostenuto la continuità razziale tra le popolazioni preistoriche e i giapponesi moderni. Oggigiorno, invece, si ritiene che i primi abitanti dell’arcipelago appartenessero al ceppo paleomongolide diffuso nell’Asia di sud-est e in Oceania ma presente, in epoca arcaica, anche nell’Asia orientale: di esso farebbero parte, in Giappone, sia gli ainu che gli attuali abitanti delle Ryukyu. A questo primo strato se ne sarebbe sovrapposto più tardi un altro, costituito da popolazioni di ceppo neomongolide differenziatesi per adattamento al clima esistente nell’Asia orientale durante l’epoca glaciale. La mistione, tuttora in atto, di tale ceppo (di cui fanno parte le popolazioni della Cina del nord, della Manciuria e della Corea) con la più antica popolazione dell’arcipelago avrebbe dato origine ai giapponesi moderni.

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2. La civiltà Jomon

Verso il 10.000 a.C. ebbe inizio in Giappone l’epoca neolitica, con la comparsa precoce della ceramica, la cui decorazione ha dato il nome giapponese a tale epoca (Jomon). Per effetto del graduale riscaldamento del clima a livello mondiale, sorsero allora nel Giappone centrale grandi foreste di piante a foglie decidue (castagni, ippocastani, noci, querce) che consentivano la vita di una popolazione sedentaria dedita alla raccolta e alla caccia e, lungo le coste, alla pesca e alla raccolta di molluschi. Tra il 3500 e il 2000 a.C., negli altipiani dell’isola principale (Honshu), si sviluppò una cultura contraddistinta da una ceramica di grandi dimensioni e da strumenti in pietra levigata. Intorno al II millennio a.C. il raffreddamento del clima spinse la popolazione neolitica ad abbandonare le alture, e si sviluppò lungo le coste nordorientali dell’arcipelago una cultura specializzata nella pesca. Tra il 1000 e il 300 a.C. ebbe quindi inizio una progressiva differenziazione tra l’area nordorientale e quella sudoccidentale, dove fu introdotta dal continente la coltura di cereali, miglio e forse riso, coltivato inizialmente in campi asciutti.

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3. La civiltà Yayoi

All’era Jomon seguì l’era Yayoi (III sec. a.C. – III sec. d.C.), durante la quale fu introdotta dalla Corea la coltura irrigua del riso, accompagnata da un nuovo tipo di ceramica lavorata al tornio e dall’uso del ferro e del bronzo. La popolazione aumentò e iniziò a spostarsi verso le vallate ai piedi dei monti e le pianure costiere, favorite dalle risorse idriche indispensabili per la coltura del riso. I reperti archeologici evidenziano per quest’epoca due aree culturali distinte nel Giappone sudoccidentale e nella zona centrale dell’isola principale (Honshu). La prima è caratterizzata da sepolture a giara, tombe di capi locali che presentano quelli che ancor oggi sono i simboli dell’autorità imperiale giapponese: lo specchio di bronzo, di origine cinese, simbolo del potere magico dello sciamano, mediatore tra mondo celeste e mondo umano; la spada, simbolo della potenza militare; e la collana, simbolo della continuità dinastica. L’altra area, invece, è contraddistinta da campane in bronzo di uso rituale, recanti spesso scene di vita delle popolazioni Yayoi. Dopo l’annessione della Corea da parte degli Han, tra il 109 e il 108 a.C., si instaurarono rapporti tra i centri burocratici cinesi nella penisola e i piccoli stati tribali del Giappone sudoccidentale. La prima descrizione di uno di essi la si trova nella cronaca di Wei, uno dei tre stati sorti in Cina dopo la caduta della dinastia Han (III sec. d.C.). La struttura politica del paese di Yamatai, di cui essa ci parla, con il suo dualismo tra la figura sacrale di una regina vergine dotata di poteri sciamanici e il re suo fratello, che amministra in suo nome, prefigura quella “coincidenza tra rito e governo” che caratterizzò il sistema di legittimazione sacrale del potere politico in Giappone nei secoli a venire. Il “popolo di Wa”, come i cinesi chiamavano gli abitanti dell’arcipelago, viene descritto come dedito all’agricoltura e alla pesca e impegnato nel commercio e nella navigazione. I rapporti tra i sessi e le generazioni sembrano più egualitari che in Cina, e l’ordine sociale è garantito dal principio della responsabilità collettiva della famiglia o del villaggio, tipico dei sistemi giuridici giapponesi. V’è inoltre una distinzione di ceto molto netta tra i nobili e i plebei. La cronaca registra una serie di missioni diplomatiche tra il regno di Wei e lo stato di Yamatai, alla cui regina viene conferito il titolo di “regina di Wa suddita di Wei”; e Wei, difatti, appoggia Yamatai nel conflitto con lo stato meridionale di Kuna. È tuttora aperto il dibattito sull’ubicazione dello stato di Yamatai: alcuni storici lo situano a nord dell’isola di Kyushu, nel punto più vicino al continente, altri nell’isola principale, Honshu, nella piana dello Yamato, sede dell’omonimo regno giapponese.

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4. I re dello Yamato

Del popolo di Wa ci parlano di nuovo, alla fine del IV secolo, le fonti coreane che narrano le lotte sostenute dallo stato settentrionale di Koguryo contro le incursioni dal mare del regno dello Yamato, guidato dagli antenati della dinastia imperiale giapponese. Uno storico giapponese ha attribuito la fondazione di questo regno a popolazioni nomadi provenienti dalla Corea, le quali si sarebbero avvalse della loro superiorità militare per la conquista dell’arcipelago: il re guerriero sarebbe stato l’imperatore Sujin, il decimo della genealogia imperiale giapponese, considerato dalla critica storica come l’iniziatore della dinastia nel IV secolo. La figura di Jimmu Tenno, mitico fondatore dell’impero, nel 660 a.C., è ritenuta invece un’elaborazione posteriore. Questa teoria è stata criticata da molti storici giapponesi, che considerano la nascita del primo stato giapponese come l’esito di un processo autoctono, seppure soggetto a influssi continentali. Nelle sue linee generali, essa trova tuttavia conferma nella ricerca etnologica e linguistica, che vede nei giapponesi odierni il risultato della sovrapposizione di popolazioni nord-asiatiche a struttura sociale patriarcale e parlanti una lingua di tipo altaico a un sostrato di popolazioni a struttura matriarcale parlanti lingue del gruppo maleopolinesiaco. Notizie certe sul regno dello Yamato sono attestate dalle cronache delle dinastie cinesi meridionali del V secolo, che parlano di nove missioni inviate da cinque “re di Wa” nella penisola coreana, dove i giapponesi occupavano la regione meridionale di Mimana e ricevevano un tributo sia dallo stato di Paekche, a sud-ovest, che da quello di Silla, a sud-est. Alla Corea faceva riferimento la sua stessa organizzazione sociopolitica, basata sul controllo territoriale dell’uji, il clan di origine nord-asiatica, guidato dal suo capo e unito dal culto comune della divinità ancestrale insieme con gli schiavi e le comunità di contadini e artigiani da esso dipendenti. Al vertice del sistema si trovavano i clan che collaboravano nell’esercizio del potere con la famiglia imperiale. I governatori delle province erano alquanto indipendenti dal potere centrale. Nel 587 ebbe luogo una violenta lotta per il potere che contrappose il clan dei Soga, che amministrava il tesoro imperiale e proteggeva la religione buddhista, introdotta dal regno alleato di Paekche, al clan guerriero dei Mononobe, sostenitori dei culti tradizionali. La lotta si concluse con la vittoria dei Soga, il cui capo, Umako, fornendo le spose imperiali, assunse l’egemonia grazie alla forma di matrimonio matrilocale che gli permetteva di allevare e porre sotto il suo controllo l’erede al trono.

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5. Le riforme del principe Shotoku

Una decisa attività riformatrice fu avviata dal principe Shotoku (574-622), dal 593 reggente in nome della zia, l’imperatrice Suiko. A Shotoku è attribuita la cosiddetta “Costituzione in 17 articoli” (604), un documento che contiene una serie di ammonimenti morali rivolti ai funzionari dello stato ispirati al buddhismo (che iniziò allora a divenire un vero e proprio “instrumentum regni”), al confucianesimo e alla dottrina politica della scuola cinese dei leghisti. Essi insistono sulla pratica della religione buddhista in funzione dell’armonia sociale, sulla supremazia del potere imperiale contro il particolarismo degli uji e sul dovere dei funzionari di governare senza opprimere i contadini, con efficienza, solerzia e imparzialità. Shotoku istituì un sistema di ranghi di corte non ereditari ma basati sul merito e introdusse il calendario e l’uso dei segni dello zodiaco cinesi. Per porsi su un piede di parità con l’impero cinese, riunificato nel 581 dalla dinastia dei Sui, in occasione della missione inviata in Cina nel 607 fu impiegato per la prima volta, per il sovrano giapponese, l’appellativo di Tenno (“imperatore celeste”), equivalente a quello del sovrano cinese. Sempre a quest’epoca risale l’uso di due ideogrammi cinesi, pronunciati alla giapponese Nihon o Nippon, che significano: “Paese del Sol Levante”, in contrapposizione alla Cina, il “Paese del Sole Calante”. In questi stessi anni ebbe inizio l’invio periodico di monaci e letterati giapponesi per lunghi periodi di studio in Cina, che continuò in seguito anche sotto la dinastia dei Tang, succeduta a quella dei Sui nel 618.

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6. La riforma Taika

Una congiura di palazzo guidata da un alto dignitario di corte, Fujiwara no Kamatari, e da un principe imperiale, il futuro imperatore Tenji, pose fine nel 645 al dominio dei Soga. Il nuovo gruppo di potere si accinse alla costruzione di uno stato burocratico accentrato di tipo cinese. Fu introdotta l’idea del sovrano padrone sia del territorio che degli uomini che lo abitano. Tale idea si combinò con il concetto della sovranità divina dell’imperatore, che non regnava in quanto detentore di un mandato celeste, come in Cina, ma in quanto egli stesso “divinità in veste umana”. Questa concezione fu sviluppata nella cronaca ufficiale del Kojiki (712), che riordinò i culti locali stabilendo la supremazia della divinità tutelare della famiglia imperiale, la dea solare Amaterasu, sulle divinità degli altri clan. Ebbe così origine la religione scintoista (da Shinto, “Via degli Dei”) in quanto culto di stato (scintoismo), gestito da un Ufficio dei culti, di pari dignità dell’Ufficio degli affari di stato (Daijokan), quest’ultimo retto da un Primo Ministro, affiancato da un Ministro della sinistra e da un Ministro della destra, dai quali dipendevano otto ministeri. L’attribuzione delle cariche più elevate avveniva non mediante esami burocratici, come in Cina, ma in base a ranghi di corte ereditari. Il paese fu ripartito in una sessantina di province amministrate da governatori inviati dalla capitale, in contee affidate a capi ereditari e in gruppi di 50 famiglie. La popolazione venne suddivisa in ceti ereditari, raccolti in due grandi categorie: il “popolo buono”, comprendente gli aristocratici e i contadini, e il “popolo vile”, comprendente diverse categorie servili e di schiavi. Sull’esempio cinese, i terreni coltivati a riso, a eccezione di quelli riservati alle famiglie aristocratiche e ai templi, furono sottoposti a un sistema di ripartizione periodica tra le famiglie contadine, in cambio del pagamento di un’imposta fondiaria, di tributi in natura e di corvées, oltre al servizio militare dei maschi adulti. A tale scopo, ogni sei anni i governatori provinciali effettuavano un censimento della popolazione, tenendo registri annuali dei soggetti d’imposta. Nel 710 la capitale del nuovo stato venne fissata a Nara. Ben presto, tuttavia, anche per sottrarsi allo strapotere degli abati buddhisti, l’imperatore Kanmu la trasferì a Heian (794), l’attuale Kyoto, che restò capitale imperiale per tutto il periodo feudale, fino al 1868.

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7. Il latifondo nobiliare e la decadenza del sistema burocratico

Il sistema burocratico accentrato iniziò a decadere già a partire dalla prima metà dell’VIII secolo, quando, per stimolare la messa a coltura di nuovi terreni, questi furono sottratti al controllo dello stato e dichiarati di proprietà privata. Famiglie aristocratiche e templi aggiunsero nuove terre a quelle che già detenevano, servendosi del loro ascendente politico per farsi cedere le terre pubbliche dai contadini, che preferivano pagare loro un’imposta annua senza sottostare alla distribuzione periodica e allo sfruttamento burocratico dei governatori. Si diffuse così il latifondo nobiliare (shoen). Sul piano politico, l’istituzione imperiale cadde sotto il controllo del clan dei Fujiwara, discendenti di Kamatari, che si servirono, come i Soga, del privilegio di dare in sposa le figlie agli imperatori e di allevare l’erede al trono, assumendo le cariche di “tutori” e “reggenti”. Nelle province la funzione del governatore fu spesso esercitata da un sostituto, in cambio del pagamento di una parte dei proventi. La ripresa del potere imperiale nell’XI secolo, onde sottrarsi a tutori e reggenti, con lo sdoppiamento della carica tra l’imperatore sul trono e l’imperatore anziano, detentore del potere reale, non fece che accelerare il processo in atto, attraverso il conferimento dell’amministrazione e delle entrate delle province alle famiglie aristocratiche e ai templi della capitale. Grande sviluppo ebbero le nuove sette del buddhismo popolare, la mistica Shingon e la pragmatica Tendai. Verso la fine del IX secolo, alla cessazione dell’invio di missioni culturali in Cina, dove la dinastia dei Tang ormai volgeva al declino, corrispondeva intanto la presa di coscienza di una identità culturale giapponese. Dagli ideogrammi cinesi, usati in senso fonetico per trascrivere la lingua giapponese, fu ricavato un alfabeto sillabico, di cui iniziò a servirsi una vivace letteratura femminile di corte.

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8. Le origini del regime feudale giapponese. Lo shogunato di Kamakura

A partire dal X secolo si costituirono nelle province nuove formazioni sociali che si appropriarono delle risorse locali e delle funzioni amministrative e militari sottraendole al controllo delle famiglie aristocratiche della capitale. Ebbe così origine il clan guerriero dei samurai (da samurau, “fare la guardia del corpo”), costituito da famiglie legate da rapporti di dipendenza a un clan egemone in grado di ottenere la loro fedeltà in cambio della concessione di benefici. Due di questi clan, quello dei Taira e quello dei Minamoto, discendenti da rami cadetti della famiglia imperiale, furono dapprima impiegati nella repressione delle rivolte locali e intervennero poi, presso la capitale, nei conflitti che contrapponevano tra loro le fazioni avverse della famiglia imperiale e dei Fujiwara. La rivalità fra i due clan diede luogo a una breve lotta che si concluse nel 1159 con la vittoria dei Taira. Il loro capo, Kiyomori, assunse il potere, fissando la sua capitale nelle vicinanze di Kyoto. A imitazione dei Fujiwara, egli diede in sposa la propria figlia all’imperatore, assicurandosi il controllo sul successore al trono. Nel 1180 i Minamoto riunirono le loro forze sotto la guida di Yoritomo e sconfissero definitivamente i Taira nel 1185. Yoritomo pose la capitale a Kamakura, dando origine a un regime definito “feudale” per le analogie con quello europeo. Il controllo del paese fu affidato ai go-kenin, suoi vassalli diretti, affiancati come shugo (“protettori”) ai governatori delle province e inseriti negli shoen per amministrarli e prelevare una parte delle imposte. Nel 1192 Yoritomo si fece conferire dall’imperatore la carica di shogun, in passato attribuita ai generali inviati a sottomettere le popolazioni barbare del nord-est. Essa venne poi ripresa dai capi delle dinastie feudali discendenti dai Minamoto, come gli Ashikaga e i Tokugawa. Morto Yoritomo, il clan degli Hojo, parenti della moglie, assunse il potere. Lo shogunato di Kamakura affrontò una crisi decisiva alla fine del secolo XIII, quando dovette affrontare due tentativi di invasione mongola, nel 1274 e nel 1281. Nonostante la forza dell’esercito mongolo, gli Hojo riuscirono a respingere gli invasori. Ma la crisi ebbe gravi ripercussioni per il regime di Kamakura, sottoponendo a uno sforzo eccessivo le sue finanze e minando le basi stesse del regime feudale. L’epoca di Kamakura fu contraddistinta da un vivace dinamismo economico e sociale. Nelle aree più sviluppate del Giappone occidentale comparvero nuovi soggetti economici: spedizionieri delle imposte dai feudi e dagli shoen, da cui ebbero origine i grossisti di epoca più tarda; corporazioni di artigiani e mercanti, poste sotto la protezione degli shoen e dei templi; usurai ed esercenti del prestito su pegno. Con essi si indebitavano le famiglie feudali, non di rado alienando o cedendo in pegno il feudo. Nel 1297 il governo shogunale adottò la prima di quelle ricorrenti misure di sanatoria dei debiti e di divieto dell’alienazione dei feudi con le quali la classe feudale seguitò a proteggersi contro l’avanzata delle forze mercantili. La classe feudale, intanto, assunse una struttura più gerarchizzata: fu istituita la primogenitura e prese l’avvio un processo di concentrazione che portò all’emergere di poteri territoriali in grado di resistere al governo shogunale.

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9. Lo shogunato degli Ashikaga

Lo shogunato di Kamakura cadde nel 1333 in seguito al tentativo di restaurazione da parte dell’imperatore Go Daigo. Questi, grazie all’appoggio dei suoi seguaci e di Ashikaga Takauji, il più influente tra i go-kenin di Kamakura, sconfisse gli Hojo e insediò il proprio governo a Kyoto. Takauji a sua volta, dopo aver deposto Go Daigo nel 1336, pose sul trono un nuovo imperatore, dal quale si fece dare l’investitura shogunale in quanto discendente dei Minamoto, dando così inizio alla dinastia degli Ashikaga. Go Daigo, insieme con i suoi seguaci, continuò la lotta, che si protrasse anche dopo la sua morte, fino alla riunificazione (1392) tra i due rami della famiglia imperiale a opera del nipote di Takauji, Yoshimitsu. Il governo istituito da Ashikaga Takauji a Kyoto, nel quartiere di Muromachi, che diede nome al periodo (1336-1573), riprendeva la struttura del regime di Kamakura. Nel corso della lunga lotta contro i seguaci di Go Daigo, i più importanti clan dipendenti dagli Ashikaga, che aggiungevano alla carica di shugo il titolo di daimyo (“grande nome”), che da allora in poi avrebbe designato i signori feudali, si ergevano a poteri territoriali virtualmente indipendenti, raccogliendo nelle proprie mani il controllo di più province e appropriandosi definitivamente della rendita di shoen e terre pubbliche. Nei loro confronti, gli Ashikaga che, con Yoshimitsu, avevano assunto la carica di Primo Ministro, furono costretti più volte a intervenire. L’intrico dei conflitti feudali sfociò infine nella prolungata “guerra dell’era Onin” (1467-77) che fu originata dalla lotta per la successione all’ottavo shogun Yoshimasa. Alla decadenza degli Ashikaga e a quella ancor più grave dell’istituzione imperiale, si accompagnò dunque un ulteriore processo di frammentazione feudale, sotto la spinta di intensi flussi di mobilità sociale e con l’usurpazione del potere degli shugo, impegnati nelle lotte presso la capitale, da parte dei loro vassalli nelle province. Si costituirono così poteri territoriali indipendenti, che si insediarono nelle città-castello raccogliendo intorno a sé i samurai e intensificando lo sfruttamento dei contadini. I singoli clan si munirono di codici che attribuivano forti poteri al capo nei confronti della parentela e affermavano la netta subordinazione delle donne agli uomini e il potere di autorizzare matrimoni e adozioni. Tra il capo e i seguaci il rapporto contrattuale originario assunse la forma di un legame di parentela fittizia che privilegiava la fedeltà al capo sui legami familiari reali. Il controllo sociale era garantito dal principio di responsabilità collettiva. Al processo di concentrazione del potere feudale a livello locale corrispose, con la decadenza dello shoen, la formazione del villaggio comunitario (mura), con la sua struttura a classi di età, la sua organizzazione in gruppi di vicinato, il capo-villaggio nominato a turno fra le famiglie principali e l’assemblea di villaggio che deliberava sulle attività comunitarie. Contemporaneamente si ebbe un notevole sviluppo della produzione agricola, con il passaggio alla gestione intensiva da parte delle famiglie agricole, mentre nelle aree economicamente più sviluppate si diffusero colture per il mercato come tè, cotone, indaco, sesamo. Conobbe un grande sviluppo anche la produzione artigianale e si diffusero mercati itineranti e stabili. Alle porte dei grandi templi buddhisti sorsero attivi e popolosi centri urbani. Nel Giappone occidentale, sotto l’impulso del commercio tributario con la Cina, si svilupparono città portuali come Sakai, dove l’anarchia feudale favorì le autonomie cittadine, dando vita a istituzioni simili a quelle delle repubbliche marinare europee. Lo sviluppo dell’economia monetaria spinse gli Ashikaga a farsi pagare in moneta anche l’imposta fondiaria, oltre ai tributi di vario genere prelevati dai mercanti e dagli abitanti delle città. Non di rado, tuttavia, la pressione eccessiva da parte dei poteri feudali o, spesso, dei mercanti che in loro nome prelevavano le imposte, provocò grandi rivolte contadine che riuscirono talvolta a estromettere i poteri feudali. L’epoca Muromachi vide una grande fioritura culturale: ispirate dalla spiritualità della setta Zen, in quest’epoca ebbero origine le espressioni più originali della civiltà giapponese, dal teatro classico No alla pittura con inchiostro di china, all’arte dei giardini e alla cerimonia del tè.

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10. L’arrivo degli occidentali e l’unificazione del Giappone feudale

Durante l’epoca Muromachi giunsero in Giappone i primi europei. Nel 1543 vi approdarono i portoghesi, portando con sé i fucili che vennero subito adottati dai daimyo. Alle attività commerciali dei portoghesi, si accompagnò la predicazione dei missionari gesuiti, che fecero ben presto proseliti fra i daimyo del Kyushu. Nel 1570, un daimyo cristiano affidò in amministrazione ai gesuiti la città di Nagasaki, che divenne da allora il principale porto commerciale con l’estero e, nel 1582, sotto la guida del gesuita Alessandro Valignano, venne inviata per la prima volta una missione giapponese che ricevette udienza dal papa. Oda Nobunaga, un giovane daimyo di un territorio situato a nord della capitale, impiegò con successo le nuove tattiche basate sull’uso delle armi da fuoco per estendere il suo potere sulla parte centrale e occidentale dell’isola principale. Grazie all’appoggio di Tokugawa Ieyasu, signore di un feudo vicino, e del suo fidato generale Toyotomi Hideyoshi, nel 1568 egli poté insediarsi a Kyoto. Nei territori sottoposti al suo dominio, Nobunaga introdusse una serie di misure che prepararono l’instaurazione, nel secolo seguente, di un regime feudale accentrato: l’attuazione sistematica di catasti fondiari, la costruzione di strade, l’abolizione dei balzelli ai confini dei feudi e l’istituzione di mercati sottratti al privilegio delle corporazioni. Nobunaga fu ucciso a tradimento da un suo generale nel 1582. Il traditore fu prontamente punito da Toyotomi Hideyoshi, che si presentò così come il successore del capo. Sottomessi i daimyo, egli estese a tutto il paese il catasto fondiario. A partire da quest’epoca l’imposta fu pagata ogni anno dalla comunità di villaggio, calcolata in una percentuale del raccolto, non in moneta, come nel periodo Muromachi, ma in koku (180 litri) di riso, onde riservare alla sola classe feudale la possibilità di trarre vantaggio dalla vendita del prodotto sul mercato. Nel 1588, i contadini furono legati alla terra e privati delle armi in modo da riservare la funzione militare ai soli samurai. Un editto del 1591 bloccò definitivamente la mobilità sociale, legando al proprio status ereditario contadini, mercanti e samurai. Questi ultimi, raccolti nelle città-castello e inseriti in rigide strutture gerarchiche, divennero un ceto urbano sempre più dedito a funzioni burocratiche e retribuito mediante stipendi feudali calcolati in riso. Insediatosi nel 1586 nel castello di Osaka, Hideyoshi impose il regime di amministrazione diretta, oltre che ai propri territori, alle città principali e alle miniere d’oro e d’argento, procedendo per la prima volta sul piano nazionale alla coniazione di monete d’oro, d’argento e di rame. Nel 1587 emanò il primo editto di proscrizione del cristianesimo, considerato eversivo, togliendo in seguito ai gesuiti l’amministrazione di Nagasaki. Nello stesso tempo, tuttavia, favorì le attività dei mercanti portoghesi e stimolò il commercio estero nei porti dell’Asia sudorientale. L’aggressività del suo sistema di dominio si espresse in politica estera con i due fallimentari tentativi di invasione della Corea, nel 1592 e nel 1597.

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11. L’epoca Tokugawa (o Periodo Edo)

Dopo la morte di Hideyoshi (1598), il potere fu assunto da Tokugawa Ieyasu, che sconfisse dapprima, nella battaglia di Sekigahara (1600), una coalizione di daimyo ostili e debellò poi, tra il 1614 e il 1615, l’ultima resistenza dei sostenitori del figlio di Hideyoshi, Hideyori, designato dal padre alla successione. Già nel 1603 egli si era fatto conferire dall’imperatore la carica di shogun, in quanto lontano discendente dei Minamoto. Il sistema di dominio territoriale del regime dei Tokugawa raggiunse il suo assetto definitivo nella prima metà del XVII secolo. Ieyasu fissò la capitale a Edo, che nel corso di poco più di un secolo divenne un grande centro amministrativo, con una popolazione che raggiungeva il milione di abitanti. L’amministrazione diretta del governo shogunale si estendeva all’incirca su un quarto del territorio nazionale e comprendeva le città principali: Edo, Osaka, Kyoto e Nagasaki. Nei confronti degli stati feudali (han) venne attuato un sistema di dominio basato su un sapiente equilibrio tra le varie categorie dei daimyo: le Tre Casate (Go-sanke) discendenti da Ieyasu, i cui feudi erano disposti a difesa della via che da Edo conduceva a Kyoto e Osaka; i Fudai, vassalli tradizionali dei Tokugawa, tra i quali venivano scelti i ministri, con i loro feudi medio-piccoli concentrati intorno alle sedi centrali del potere shogunale; e gli Shinpan, imparentati con i Tokugawa, inseriti in funzione di controllo tra i grandi feudi dei daimyo Tozama, che si erano sottomessi a Ieyasu solo dopo la battaglia di Sekigahara. Nei confronti dei daimyo, formalmente sovrani, il governo shogunale disponeva di una serie di prerogative: dai limiti imposti agli armamenti e alle fortificazioni, al controllo sulla successione, con la facoltà di autorizzare matrimoni e adozioni, al diritto di esigere soccorso armato in caso di necessità e uomini e risorse per grandi opere pubbliche. Il controllo sui daimyo era assicurato, inoltre, dal sistema delle “residenze alterne”, che li obbligava a risiedere, un anno ogni due, presso la capitale. La corte imperiale e i nobili di Kyoto furono ripristinati nel loro status tradizionale; a essi, però, fu vietata qualsiasi attività politica. Alle dirette dipendenze dei Tokugawa erano gli Hatamoto, discendenti dai soldati di Ieyasu, che, insieme alla categoria subalterna dei Go-kenin, fornivano il personale dell’amministrazione shogunale. Ai suoi vertici, essa si articolava nel Consiglio degli anziani, che si occupava degli affari politici generali e del controllo dei daimyo, e in quello degli anziani juniores, che assisteva i primi nelle loro funzioni. I vari settori dell’amministrazione furono affidati ad alti funzionari che esercitavano sia il potere amministrativo che quello giudiziario. Le finanze del governo shogunale, come pure quelle dei singoli han, vennero basate sull’imposta fondiaria; v’erano inoltre una serie di imposte di più lieve entità che riguardavano le attività della popolazione urbana, e lo shogunato poteva richiedere contributi ai ricchi mercanti e ai daimyo. Lo shogunato inoltre controllava direttamente le miniere principali e aveva il monopolio della coniazione di monete d’oro, d’argento e di rame. Il sistema di dominio nei confronti della popolazione era basato su ceti ereditari chiusi, con al vertice i samurai, diventati ormai un ceto burocratico urbano, seguito dai contadini, dagli artigiani e dai mercanti, all’ultimo posto nella scala sociale in quanto non produttori, benché mediamente più agiati della classe feudale. Le due ultime categorie venivano indicate con il termine di chonin, (“abitanti delle città”). V’era infine una casta emarginata (eta, hinin), relegata a svolgere attività considerate impure a causa del divieto buddhista di uccidere esseri viventi, come la macellazione degli animali, la lavorazione delle pelli o la professione del boia. Lo stile di vita di ciascuna categoria era regolato da una serie di minuziose prescrizioni e i rapporti sociali e gli stessi rapporti di produzione si imperniavano sul sistema della famiglia estesa e sul rapporto di parentela fittizia. Le comunità rurali (mura) e urbane (machi) venivano tenute sotto controllo mediante il ricorso al principio della responsabilità collettiva. Nei villaggi tale controllo assumeva la forma dei “gruppi di cinque famiglie”, responsabili dell’osservanza delle norme e del pagamento delle imposte. Al capillare sistema di controllo interno si accompagnava un severo regime di limitazioni e di divieti relativi ai rapporti economici e culturali con il mondo esterno. Come Hideyoshi, Ieyasu cercò di stimolare le attività dei mercanti giapponesi nei paesi dell’Asia sudorientale e favorì, nel 1613, l’invio di una missione in Spagna e a Roma, instaurando rapporti anche con l’Inghilterra e l’Olanda. Ben presto, tuttavia, egli riprese le persecuzioni contro i cristiani. Nel 1624 furono espulsi gli spagnoli e, nel 1638, dopo la repressione della grande rivolta cristiana di Shimabara, anche i i portoghesi. Ai giapponesi fu proibito, sotto pena di morte, di recarsi all’estero e di ritornare in Giappone una volta espatriati; i cristiani furono sottoposti a crudeli torture e nelle zone sudoccidentali del paese, dove la religione cristiana era maggiormente penetrata, si fece ricorso al controllo sulla popolazione attraverso la registrazione presso i templi della setta buddhista di appartenenza: un sistema che, esteso a tutto il paese, fece del buddhismo un vero e proprio “instrumentum regni”. Vennero invece mantenuti, ma solo nel porto di Nagasaki, i rapporti commerciali con i cinesi e con la Compagnia olandese delle Indie, un limitato ma importante canale di comunicazione con l’Occidente. Il lungo periodo di stabilità garantito dal regime shogunale rese possibile un rapido sviluppo economico; si ebbe un forte aumento della produzione agricola, mentre l’accentramento e le esigenze poste dal sistema delle residenze alterne producevano un grande sviluppo urbano e l’instaurarsi di intensi flussi commerciali tra le province, Osaka, il principale centro commerciale, e la capitale Edo. A partire dalla fine del XVII secolo, tuttavia, l’inflazione mise in crisi le finanze dei daimyo e dello stesso governo shogunale. Per far fronte a questa situazione, l’ottavo shogun, Yoshimune, nella prima metà del secolo XVIII, coinvolse nella gestione della politica economica le corporazioni mercantili, riconoscendone ufficialmente il monopolio. Nella seconda metà del secolo, un ministro di estrazione plebea, Tanuma Okitsugu, si spinse oltre, imponendo monopoli statali, raccogliendo dai mercanti denaro da prestare ai daimyo e impegnandosi nello sviluppo delle risorse dell’attuale isola di Hokkaido; accusato di corruzione, egli fu però costretto a ritirarsi, mentre la situazione si aggravava per il verificarsi di gravi disastri naturali e carestie a cui si accompagnarono rivolte contadine e tumulti urbani. Dopo una nuova serie di riforme introdotte a fine secolo, negli anni Trenta dell’Ottocento, una grande carestia provocò la ripresa delle rivolte contadine. Molto viva era anche la protesta dei piccoli produttori rurali contro le corporazioni urbane, il cui monopolio, all’origine del lievitare dei prezzi, dava luogo a tumulti urbani. Particolarmente minacciosa per lo shogunato fu nel 1837 la rivolta di Oshio Heihachiro a Osaka: un’azione organizzata, guidata da un samurai e diretta all’abbattimento del corrotto regime feudale in nome del governo giusto dell’imperatore. Di fronte alla gravità della situazione, il ministro Mizuno Tadakuni introdusse nuove riforme, ma lo scioglimento delle corporazioni mercantili e qualche timida misura accentratrice suscitarono l’opposizione degli ambienti tradizionali del governo shogunale, che lo costrinsero alle dimissioni. Maggiore successo ebbero le riforme introdotte da importanti han Tozama del Giappone occidentale, come Choshu e Satsuma, che istituirono il monopolio sui prodotti locali, con il coinvolgimento del ceto mercantile. Il periodo Edo vide lo sviluppo di una vivace cultura popolare e di correnti intellettuali preparatrici del processo di modernizzazione. Insieme a un pensiero confuciano eterodosso contrapposto al neoconfucianesimo ufficiale, nacque una Scuola di studi nazionali (Kokugaku), che si contrapponeva alla cultura cinese ponendo le basi del nazionalismo giapponese. Le nuove conoscenze provenienti dall’Occidente ispiravano ai più coscienti tra i samurai proposte di riforma del regime feudale.

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12. Il Rinnovamento Meiji e la nascita dello stato moderno

Con l’inizio del secolo XIX divenne sempre più difficile mantenere il rigido isolamento sul quale si reggevano gli equilibri del regime shogunale. I primi a interessarsi all’apertura del Giappone agli scambi con l’Occidente erano stati la Russia, insediata fin dal XVIII secolo nelle isole Curili, e l’Inghilterra, dominatrice incontrastata dei mari orientali. Furono altresì gli Stati Uniti, alla ricerca di punti d’approdo per le navi dirette in Cina, a spezzare l’isolamento del paese. Di fronte alle richieste avanzate nel 1853 dal commodoro G.M. Perry, giunto con una squadra navale americana nella baia di Edo, lo shogunato fu costretto a cedere e ad aprire alcuni porti. In questa occasione, il ministro Abe Masahiro interpellò per la prima volta i daimyo e la corte imperiale in merito all’abbandono della politica estera sino ad allora seguita. L’accesa discussione su come far fronte alla minaccia dell’Occidente fece emergere conflitti latenti fra i vari poteri feudali, mobilitando sul piano nazionale gli strati medio-bassi della classe dei samurai. Da essi ebbe origine il movimento del sonno-joi (“venerare l’imperatore, respingere i barbari”) che accusò il regime shogunale di aver stipulato, contro la volontà dell’imperatore, i trattati commerciali del 1858, ponendo il paese in una condizione di dipendenza dalle potenze occidentali. Contro gli oppositori fu messa in atto una dura repressione, nel corso della quale fu condannato a morte Yoshida Shoin, l’ispiratore, presso lo han di Choshu, dei futuri leader del governo Meiji. Nel 1860 lo shogunato coinvolse nel governo i principali daimyo e l’imperatore, ma non riuscì ad avere ragione della resistenza del movimento antishogunale, che costituì a Choshu una milizia popolare. L’ultimo shogun, Yoshinobu (Keiki), con l’aiuto della Francia si impegnò in ambiziosi programmi di riforma burocratica e militare, ma i suoi tentativi di accentramento gli rivolsero contro l’alleanza segreta di Satsuma e Choshu che, vista inutile la resistenza armata, avevano instaurato rapporti commerciali e diplomatici con l’Inghilterra. Trovandosi isolato, Yoshinobu accettò nel 1867 la proposta di restituire il potere all’imperatore, pur mantenendosi a capo del governo e conservando il dominio sui propri territori: il tentativo fu però bloccato da Choshu e Satsuma che all’inizio del 1868 proclamarono la restaurazione imperiale. Nell’aprile dello stesso anno le truppe imperiali entrarono a Edo che, con il nome di Tokyo (“capitale orientale”, per distinguerla da Kyoto), divenne la capitale del nuovo stato. Una breve guerra civile portò nel 1869 alla sconfitta definitiva degli ultimi sostenitori dei Tokugawa. Ebbe allora inizio il “Rinnovamento Meiji” – dal nome dell’era che corrisponde al regno di Mutsuhito (1867-1912) e che significa “governo illuminato”. Tale rinnovamento segnò la nascita dello stato moderno in Giappone. Il nuovo governo, al cui interno assunsero la guida i leader dei quattro han occidentali vittoriosi nella lotta contro il regime shogunale (oltre a Choshu e Satsuma, anche Tosa e Hizen), si impegnò in un’ampia politica di riforme dall’alto. La costituzione dello stato unitario venne attuata in due fasi: dapprima si ebbe la restituzione dei poteri degli stati feudali al governo centrale nel nome dell’imperatore, con i daimyo che rimasero in carica come governatori; poi, nel 1871, si procedette all’accentramento con l’istituzione di prefetture amministrate da governatori di nomina burocratica. Contemporaneamente, vennero aboliti i ceti ereditari di epoca feudale. Fu abolita anche, per lo meno sul piano legale, la discriminazione del ceto emarginato degli Eta. Tra il 1872 e il 1873 il sistema d’istruzione e il servizio militare vennero estesi a tutta la popolazione e sottratti al privilegio della classe dei samurai. Un’altra misura fondamentale fu la riforma dell’imposta fondiaria, che venne trasformata in un’imposta fissa in denaro calcolata sul valore stimato del terreno. Le risorse provenienti dalla nuova imposta servirono a finanziare un’attiva politica di sviluppo industriale, gestita dallo stato attraverso la fondazione di imprese moderne sia nell’industria pesante che in quella tessile. Altra misura decisiva fu l’abolizione della rendita feudale dei daimyo e degli stipendi in riso dei samurai, che vennero commutati in buoni di stato fruttiferi, poi capitalizzati, trasformando i daimyo in detentori di capitale finanziario. La modesta liquidazione ottenuta dalla stragrande maggioranza dei samurai li ridusse a far parte del nuovo ceto medio burocratico e professionale e, in molti casi, del proletariato industriale. Aspri dissidi di politica interna ed estera provocarono nel 1873 la fuoruscita dal governo di alcuni dei principali leader. Saigo Takamori, contrario all’accentramento burocratico sostenuto da Okubo Toshimichi, guidò nel 1877 la ribellione di Satsuma, duramente repressa dalle truppe governative. A Tosa, invece, Itagaki Taisuke avanzò la richiesta dell’istituzione di un parlamento, dando così inizio a quel Movimento per la libertà e i diritti del popolo dal quale sarebbero nati i primi partiti, con larga partecipazione dei nuovi ceti emergenti rurali e urbani: il Partito liberale (Jiyuto) di Itagaki e il Partito progressista (Kaishinto) di Okuma Shigenobu. All’inizio degli anni Ottanta, il ministro del Tesoro Matsukata Masayoshi fondò la Banca del Giappone e adottò una drastica politica deflazionistica; la cessione delle imprese statali a imprenditori privati vicini agli ambienti di governo favorì lo sviluppo di potenti gruppi finanziari (zaibatsu) come la Mitsui e la Mitsubishi, mentre il rincaro del denaro causò gravi disagi alla piccola proprietà contadina, accentuando così la divaricazione tra la grande proprietà terriera assenteista e uno strato di affittuari pesantemente indebitati, dal quale la moderna industria tessile, sericola e cotoniera, traeva mano d’opera a basso costo. Questa situazione produsse una radicalizzazione della lotta politica, che diede luogo ad attentati anarchici e a episodi di vera e propria lotta armata da parte dei contadini. Alla sfida dei partiti, che presentavano progetti di costituzione democratica, l’oligarchia Meiji rispose, a opera di Ito Hirobumi, con l’elaborazione di una costituzione autoritaria ispirata al modello prussiano, che fu concessa dall’imperatore nel 1889. La costituzione Meiji apriva la via al governo rappresentativo, ma la sovranità divina dell’imperatore, formalmente a capo di tutti i poteri, garantì in realtà l’esercizio del potere da parte dell’oligarchia Meiji. La dipendenza diretta dal potere supremo dell’imperatore fu tuttavia fonte di instabilità per i governi. In suo nome, infatti, la marina e l’esercito erano di fatto indipendenti e potevano far cadere i governi recalcitranti alle loro condizioni. Alquanto limitati erano poi i poteri della Dieta, divisa tra una Camera dei rappresentanti, eletta a suffragio limitato, e una Camera dei pari di nomina imperiale: il governo, infatti, era responsabile di fronte all’imperatore, e non al parlamento, anche se la facoltà del parlamento di opporsi al bilancio costituiva un’importante strumento di pressione. La scena politica era in realtà tenuta sotto controllo dal consesso dei genro, gli oligarchi anziani che suggerivano all’imperatore la nomina del primo ministro. A opera di Yamagata Aritomo, il personale burocratico fu strutturato secondo rigorose carriere interne. Con il sistema delle autonomie locali, le strutture tradizionali della comunità di villaggio furono poste alla base del sistema di dominio attraverso la mediazione dei notabili locali. Sul piano ideologico, il governo Meiji si sforzò di preservare l’ordine sociale dai conflitti derivanti da un rapido processo di modernizzazione attraverso la parola d’ordine “anima giapponese – tecnica occidentale”. Così, a sostegno del regime, insieme alla costituzione, fu emanato dall’imperatore il “Rescritto sull’educazione”, che, nel quadro della “nazione-famiglia”, collegava tra loro le virtù confuciane della lealtà al sovrano e della pietà filiale. L’ordine gerarchico della famiglia tradizionale venne poi sancito dal Codice civile del 1898. Impegnato in difficili trattative con i paesi occidentali per la revisione dei trattati di commercio stipulati dallo shogunato, contenenti le clausole svantaggiose della extraterritorialità nei porti aperti e della limitazione dell’autonomia doganale, il governo Meiji si sforzò nel contempo di affermare la propria egemonia sui paesi dell’Asia orientale, fino allora inseriti nell’orbita cinese. Dalla competizione con la Cina per il controllo sulla Corea ebbe origine la guerra sino-giapponese del 1894-95. Dopo la vittoria il Giappone si garantì mano libera in Corea, ottenendo Taiwan, il Liaodong e una serie di vantaggi economici in Cina. Le ingenti riparazioni di guerra versate dalla Cina permisero poi al Giappone di adottare lo standard aureo e di acquistare dai paesi occidentali, con uno yen forte, i macchinari moderni e le tecniche avanzate di cui aveva bisogno per il suo sviluppo industriale. Contemporaneamente, il Giappone riuscì a ottenere dalla Gran Bretagna, interessata a disporre nell’area di un alleato contro l’avanzata della Russia zarista, la rinuncia alla clausola della extraterritorialità, misura cui presto avrebbero fatto seguito anche gli altri paesi occidentali. L’esultanza dei giapponesi fu peraltro frustrata dall’intervento di Russia, Francia e Germania che imposero al Giappone la restituzione del Liaodong, in cambio del pagamento da parte cinese di 30 milioni di tael. La guerra sino-giapponese aveva dato l’avvio alla spartizione della Cina, e proprio a Port Arthur, sulla punta della penisola del Liaodong, si istallò, con una poderosa base navale, la Russia, che, con il sostegno finanziario della Francia, penetrava in Manciuria con un tronco ferroviario collegato alla Transiberiana. Essa sottrasse poi la Corea all’influenza giapponese, instaurando stretti rapporti con la corte coreana. Dopo aver preso parte nel 1900 alla spedizione internazionale contro i boxers, alleato sin dal 1902 della Gran Bretagna, il Giappone affrontò, con la copertura finanziaria inglese e statunitense, la guerra russo-giapponese del 1904-1905, riportando una clamorosa vittoria, anche se a prezzo di gravi perdite: ottenne così la cessione della ferrovia mancese meridionale, con Harbin e Port Arthur, e la metà meridionale dell’isola di Sakhalin, ma dovette rinunciare alla richiesta di un’indennità di guerra. Contro il trattato di pace, denunciato come rinunciatario, esplose violenta la rabbia della popolazione, esasperata per i pesanti sacrifici che le erano stati imposti dall’oligarchia. La protesta fu rivolta in senso revanscista dai leader ultranazionalisti, fautori dell’imperialismo. La vittoria del Giappone – primo paese dell’Asia a sconfiggere una potenza occidentale – aveva suscitato grandi aspettative tra i popoli asiatici in lotta per l’emancipazione dal colonialismo europeo. Queste aspettative furono però presto deluse dalla politica imperialista del governo giapponese, che nel 1905 impose il protettorato alla Corea e procedette alla sua annessione nel 1910. Il rapido progresso economico del paese aveva intanto portato la produzione industriale a superare quella agricola. La crisi finanziaria seguita alla guerra provocava tuttavia i primi grandi scioperi nell’industria degli armamenti e nelle miniere, mentre si aggravava il divario tra città e campagna. L’ultimo decennio dell’era Meiji vide alternarsi al governo il principe Saionji Kinmochi, leader del Seiyukai, il partito conservatore che garantiva all’oligarchia il sostegno della borghesia rurale e urbana, e Katsura Taro, legato invece alla burocrazia e ai militari. Il primo autorizzò la costituzione del Partito socialista giapponese (1906), che venne sciolto però l’anno seguente, ed emanò la prima legislazione di fabbrica giapponese (1911). Il secondo, invece, mise a morte 12 anarchici, tra cui il leader socialista Kotoku Shusui, mentre rafforzava il controllo ideologico nei confronti della popolazione attraverso il culto di stato scintoista e i testi scolastici di morale confuciana emanati dal ministero dell’Istruzione pubblica. Nel 1910 fu costituita a livello di villaggio l’Associazione imperiale dei riservisti, allo scopo di tenere la popolazione costantemente preparata alla guerra e fedele alle direttive dello stato, preservando l’ordine sociale.

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13. La “Democrazia Taisho”

Con la morte dell’imperatore Mutsuhito (1912) e l’avvento al trono del figlio Yoshihito ebbe inizio l’era Taisho (“Grande giustizia”). Essa fu segnata dall’ascesa al potere dei partiti che, con un’ampia mobilitazione di massa, fecero cadere il governo Katsura, che aveva cercato invano di far passare alla Dieta i gravosi programmi di spesa dei militari. Da allora il primo ministro dovette ottenere la fiducia dei partiti alla Dieta. Sul piano teorico la “Democrazia Taisho” poggiava sull’interpretazione liberale della costituzione Meiji elaborata dal giurista Minobe Tatsukichi il quale faceva risiedere la sovranità nello stato, di cui erano organi sia l’imperatore, a capo dell’esecutivo, che la Dieta, a capo del legislativo. Il Giappone partecipò alla prima guerra mondiale a fianco delle potenze dell’Intesa, ottenendo importanti vantaggi economici e territoriali. Durante il conflitto tentò anche di imporre un vero e proprio protettorato sulla Cina, avanzando nel 1915 “Ventuno Richieste” al governo di Pechino. Alla Conferenza di pace riuscì a farsi riconoscere, insieme al mandato fiduciario sui gruppi insulari ex tedeschi, le concessioni nello Shantung, ma dovette poi restituirle con il trattato di Washington del 1921, che riconobbe l’integrità territoriale della Cina. Sorgevano intanto i primi contrasti con gli Stati Uniti, per l’aperta violazione da parte giapponese del principio della “porta aperta” in Cina e per l’adozione da parte statunitense di misure contro l’immigrazione giapponese. Il rapido sviluppo industriale compiuto dal paese nel corso del conflitto causò un violento processo inflazionistico che provocò, nell’estate del 1918, i “tumulti del riso”, un moto spontaneo esteso a tutto il paese che preannunciava l’ondata di movimenti sociali che sarebbe seguita nell’immediato dopoguerra. Nel 1919 nacque il primo sindacato operaio su base nazionale, che adottò una linea anarco-sindacalista. Contemporaneamente si intensificarono le lotte dei contadini e acquistarono grande risalto il movimento femminista e quello per l’emancipazione sociale dei Burakumin (gli antichi Eta). La rivoluzione bolscevica stimolò la diffusione del marxismo tra gli intellettuali e nel 1922 nacque il Partito comunista giapponese, subito ridotto alla clandestinità. La crisi economica dovuta alla fine della favorevole congiuntura bellica fu ulteriormente aggravata dal disastroso terremoto di Tokyo del 1923. Già nell’autunno del 1918, intanto, si era insediato un governo guidato da Hara Takashi, leader del conservatore Seiyukai, che aprì la via ai governi di partito, alla cui guida si alternarono lo stesso Seiyukai e il progressista Kenseikai (poi Minseito). Furono allora introdotte importanti riforme sociali e, nel 1925, il suffragio universale maschile. Nello stesso tempo, tuttavia, veniva emanata la “Legge per il mantenimento dell’ordine pubblico”, di cui poi si servirono i governi totalitari. Essa colpiva le attività anche solo di opinione dirette contro la proprietà privata e il “corpo sacro e inviolabile della nazione”. Mentre si facevano così sempre più evidenti i limiti e le contraddizioni della “Democrazia Taisho”, il dibattito politico-ideologico si arricchì di nuove voci. Yoshino Sakuzo formulò l’idea democratica del “governo per il popolo e secondo il popolo” (Minponshugi). Kita Ikki elaborò per contro, già nel 1919, un programma di stampo nazionalsocialista, finalizzato alla ricostruzione totalitaria dello stato, in funzione della liberazione dell’Asia dal dominio occidentale, da attuarsi sotto l’egida del Giappone.

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14. L’era Showa, la guerra e la ricostruzione

Nel 1926 ebbe inizio l’era Showa (“pace luminosa”), con l’avvento al trono di Hirohito (peraltro già reggente fin dal 1921). Nel 1927 il paese affrontò una grave crisi originata dalle misure di finanza straordinaria adottate in occasione del terremoto di Tokyo. Ne approfittò il Seiyukai per far cadere il governo Wakatsuki, del Minseito, e instaurare un governo guidato dal generale Tanaka Giichi, che gestì nel 1928 le prime elezioni a suffragio universale. Di fronte all’affermazione dei partiti proletari, egli mise in atto massicce repressioni e inasprì la “Legge per il mantenimento dell’ordine pubblico”. Per impedire che l’avanzata verso il nord dell’esercito nazionalista cinese mettesse in pericolo gli interessi giapponesi in Cina, Tanaka inviò tre missioni militari nello Shantung, suscitando la protesta delle grandi potenze. Dopo la sua caduta nel 1929, i governi del Minseito, ritornato al potere, adottarono nuovamente una politica estera moderata e di concertazione con le potenze sotto la guida del ministro degli Esteri Shidehara Kijuro. Contro tale politica si scatenò la protesta dello stato maggiore della marina e della destra e, in un clima di crescente tensione, fu gravemente ferito il primo ministro Hamaguchi. La situazione fu aggravata dalla crisi del 1929 e, nel 1930, dal ritorno allo standard aureo, che rese più difficili le esportazioni. Delle difficoltà del governo approfittarono i giovani ufficiali dell’Armata del Kwantung, nel settembre del 1931, per mettere in atto l’aggressione in Manciuria. Di fronte alla mancanza di reazioni da parte delle potenze, il governo del Seiyukai, subentrato alla fine dell’anno al Minseito, riconobbe il fatto compiuto e, abbandonato lo standard aureo, intraprese una via di ripresa dalla crisi basata sulle esportazioni e sull’espansione della spesa militare: zaibatsu vecchi e nuovi, legati ai militari, si impegnarono nell’industrializzazione della Manciuria, dove nel 1932 fu creato uno stato fantoccio. L’esercito procedette nell’occupazione della Mongolia interna e delle province settentrionali della Cina. Intanto, sul piano interno, si susseguivano gli attentati organizzati dai militari radicali legati ai movimenti di destra, che, il 15 maggio 1932, con l’assassinio del primo ministro Inukai Tsuyoshi, posero fine al governo dei partiti. Il genro Saionji affidò allora il governo ad alti quadri della marina, per bilanciare il potere dell’esercito che, in stretto contatto con i movimenti di destra, continuava la propria ascesa al potere. Nel 1935 venne messa al bando la teoria costituzionale liberale di Minobe. La repressione del tentativo di colpo di stato del 26 febbraio 1936 da parte degli ufficiali radicali della fazione “Via imperiale” fornì l’occasione alla fazione “Controllo” degli ufficiali di stato maggiore dell’esercito per decretare lo stato di emergenza, costringendo Saionji a insediare al governo Hirota. Lo stesso anno, fu stipulato il Patto anticomintern con la Germania nazista e l’Italia fascista che, come il Giappone nel 1933, erano uscite dalla Società delle Nazioni. La continua contrapposizione tra i militari e i partiti spinse però Saionji ad affidare la costituzione di un governo di solidarietà nazionale al principe Konoe Fumimaro, personalità considerata “super partes”. Ad appena un mese dall’insediamento del nuovo governo, dall’“incidente del Ponte di Marco Polo”, presso Pechino, nel luglio 1937, ebbe inizio la guerra sino-giapponese. L’esercito nipponico avanzò rapidamente, ma, pur avendo occupato le città principali e le linee di comunicazione, non riuscì ad avere ragione della guerriglia dei comunisti, alleati dei nazionalisti e profondamente insediati nel territorio. Ciononostante, Konoe proclamò il programma del “Nuovo ordine in Asia orientale”, sotto l’egemonia del Giappone, che più tardi fu esteso al sud-est asiatico nella “Sfera di Co-prosperità della più grande Asia orientale”. Ma rispose al suo appello solo Wang Jingwei, un leader nazionalista rivale di Chiang Kai-shek, posto a capo del governo fantoccio costituito dai giapponesi a Nanchino. Nel frattempo fu varata la “Legge di mobilitazione nazionale”, che poneva sotto il controllo diretto dello stato tutte le risorse materiali e umane del paese. Konoe si dimise all’inizio del 1939, temendo che l’alleanza con la Germania coinvolgesse il paese in un conflitto con l’Inghilterra e gli Stati Uniti. I tre governi di breve durata che seguirono non riuscirono a sbloccare la situazione sul fronte cinese e, nell’estate del 1939, l’Armata del Kwantung subì una pesante sconfitta a opera delle truppe motorizzate sovietiche, proprio mentre la Germania stringeva con l’Unione Sovietica il patto di non aggressione. Konoe tornò al potere nel luglio 1940, sciogliendo i partiti e fondando, sul modello del partito unico fascista e nazista, l’“Associazione per il sostegno al governo imperiale”. A essa si affiancò, nell’industria e presso ciascuna categoria professionale, l’“Associazione patriottica industriale”, collegata alla burocrazia, con funzioni di controllo sociale e di mobilitazione della produzione in funzione della guerra. Nel settembre 1940, infine, il Giappone siglò il Patto tripartito con la Germania e l’Italia. La stipulazione, nell’aprile del 1941, del trattato di neutralità con l’Unione Sovietica, e l’invasione tedesca dell’URSS, garantendo il Giappone sul fianco nord, consentirono, in luglio, l’avanzata dell’esercito nipponico nella penisola indocinese, allo scopo di sbloccare la guerra in Cina con un’offensiva dal sud. Il Giappone si scontrò però subito con le sanzioni economiche degli Stati Uniti. Konoe cercò fino all’ultimo di evitare il conflitto con gli americani, ma la richiesta degli Stati Uniti di ritirarsi dalla Cina e dalla Manciuria non poteva essere accettata dall’esercito: fu perciò al generale Tojo Hideki, ministro dell’Esercito, che Konoe passò il bastone del comando. Insediatosi al potere in ottobre, Tojo diede inizio l’8 dicembre 1941 alla guerra del Pacifico, con il bombardamento a sorpresa della base navale di Pearl Harbor, nelle Hawaii. Nello spazio di sei mesi i giapponesi occuparono un fronte vastissimo che si estendeva dalla Birmania a ovest, alle Aleutine a nord e alle isole Salomone a sud. L’estrema estensione del teatro di guerra rese però precaria la situazione delle forze giapponesi nei singoli settori. Le sorti della guerra, infatti, si erano già rovesciate per il Giappone con la battaglia navale di Midway nel giugno del 1942. Nella primavera del 1944, le forze aeronavali giapponesi subirono una sconfitta decisiva al largo delle isole Marianne e da allora i giapponesi furono costretti a ricorrere ai piloti suicidi, i kamikaze, mentre l’aeronautica statunitense dava inizio al bombardamento delle isole giapponesi. Il governo Tojo fu costretto alle dimissioni e al suo posto si insediarono governi basati sul compromesso fra l’esercito e la marina, che continuarono la guerra mobilitando la popolazione nella resistenza a oltranza sul territorio nazionale. Nei territori occupati, intanto, l’esercito nipponico dovette affrontare la resistenza dei popoli asiatici. Se l’appello panasiatico lanciato dal Giappone fu accolto da alcuni leader, come il birmano Ba Maw, l’indonesiano Sukarno e l’indiano Chandra Bhose, e se la liberazione dell’Asia si giovò della lotta interimperialistica tra il Giappone e le potenze occidentali, essa però si realizzò contro lo stesso Giappone e non sotto la sua guida. Nel 1945 la guerra ormai volgeva al termine: a marzo, gli americani sbarcarono a Iwo Jima e, tra marzo e giugno, fu conquistata Okinawa. Con il paese ormai allo stremo, il governo tentò timide trattative di pace. Il bombardamento atomico di Hiroshima (6 agosto) e Nagasaki (9 agosto) e l’entrata in guerra dell’Unione Sovietica (9 agosto) costrinsero i militari ad accettare la resa, secondo la dichiarazione di Potsdam, che prevedeva il disarmo, l’occupazione e la democratizzazione del paese. L’unica condizione posta da parte giapponese fu il mantenimento dell’istituzione imperiale. La guerra e la sconfitta introdussero importanti trasformazioni nel sistema socioeconomico giapponese. Nel quadro del controllo statale sull’economia, si ebbe infatti un grande sviluppo dell’industria pesante e un rafforzamento del capitale monopolistico, che instaurò stretti rapporti con l’apparato burocratico. Nelle campagne, per incentivare la produzione agricola, il governo favorì i coltivatori diretti, pagando loro i cereali portati all’ammasso a un prezzo più alto di quello pagato ai proprietari terrieri, la cui posizione sociale risultò così indebolita. Lo sfollamento della popolazione urbana contribuì a ridurre il dislivello città-campagna. La mobilitazione degli uomini al fronte e il loro rimpatrio in massa, alla fine della guerra, operarono nel senso di ridurre le differenze sociali, mentre il reclutamento delle donne e dei ragazzi delle scuole nell’industria bellica mise in crisi le gerarchie del sistema familiare tradizionale. Il generale Douglas MacArthur, capo del Comando supremo delle potenze alleate (SCAP), optò per l’amministrazione indiretta del Giappone sconfitto, servendosi del sistema di potere esistente. L’imperatore venne mantenuto al suo posto, onde garantire la stabilità nella transizione. Lo SCAP procedette quindi all’attuazione delle riforme del periodo di occupazione (1945-52): vennero sciolti l’esercito e i corpi di polizia speciale; fu smantellata l’industria bellica; furono epurate le personalità compromesse con il regime totalitario e avviati i processi contro i militari e i civili indiziati di crimini di guerra. Venne poi abolita la funzione di culto di stato della religione scintoista e il 1° gennaio 1946 l’imperatore smentì ufficialmente la sua natura divina. Contemporaneamente si ricostituirono i sindacati e i partiti. Il sistema scolastico e le forze di polizia furono decentrati e si diede l’avvio allo scioglimento degli zaibatsu e alla riforma agraria, attraverso la vendita delle terre dei proprietari assenteisti. Il Comando alleato fece adottare una costituzione basata sulla sovranità popolare, che attribuiva il potere supremo a un parlamento bicamerale, riservando all’imperatore la funzione di simbolo dello stato e dell’unità del popolo giapponese. L’articolo 9 della costituzione, promulgata il 3 novembre 1946, dichiarava il rifiuto della guerra come mezzo per risolvere i conflitti fra gli stati e la rinuncia a detenere forze armate. Fu radicalmente riformato il Codice civile con l’abolizione dei poteri del capofamiglia, cardine del sistema familiare tradizionale. Fu inoltre concesso il diritto di voto alle donne. L’estremo disagio della popolazione, aggravato dalla presenza di ben 10 milioni di disoccupati, suscitò imponenti dimostrazioni nel maggio 1946, guidate dal Partito comunista. In coincidenza con l’avvio in Cina del conflitto tra i comunisti e i nazionalisti, tali dimostrazioni destarono le preoccupazioni delle autorità di occupazione che, da allora, diedero il loro appoggio ai governi guidati da leader conservatori come Yoshida Shigeru. Contro il Partito comunista e il movimento sindacale furono adottate misure repressive. Lo scoppio della guerra di Corea nel 1950 diede l’avvio al riarmo del Giappone, che costituì un esercito professionale chiamato, per riguardo all’articolo 9 della costituzione, con il nome di “Forze di autodifesa”. La polizia e la scuola furono poste di nuovo sotto il controllo del governo centrale e vennero sospese le attività dirette allo scioglimento degli zaibatsu. Secondo le direttive della cosiddetta “Dodge Line”, suggerita da consulenti americani, fu intrapresa la ricostruzione economica del paese, onde garantire il sostegno economico del Giappone alla politica americana di contenimento del potere comunista in Asia orientale. Il boom economico determinato dagli approvvigionamenti militari per la guerra in Corea segnò l’inizio del rapido processo di crescita economica degli anni Cinquanta e Sessanta. Ad esso contribuirono vari fattori: la disponibilità di materie prime a buon mercato e l’accesso alla tecnologia avanzata e ai mercati ricchi dell’Occidente; una manodopera giovane, scolarizzata e disciplinata; l’alto tasso del risparmio e degli investimenti in capitale e i bassi livelli della spesa pubblica; l’integrazione funzionale della piccola e della grande impresa; gli stretti rapporti di collaborazione fra le imprese e lo stato. A essi si aggiungevano fattori sociali funzionali allo sviluppo: lo spirito di gruppo, un’etica del lavoro che premiava lo sforzo ancor prima che il successo, un diffuso senso di fiducia e di uguaglianza e una forte spinta alla mobilità sociale. Nel contempo, andarono compiendosi importanti sviluppi, come l’esodo dalle campagne verso le città, l’aumento costante del livello di vita, il passaggio dalla famiglia estesa alla famiglia nucleare, la diffusione dell’istruzione superiore. A questi elementi positivi si accompagnarono peraltro fattori negativi, come l’alto tasso di inquinamento, la carenza dei programmi di assistenza sociale, la congestione urbana e la distruzione dei vecchi centri storici delle città, mentre permaneva forte la pressione sociale al conformismo, che limitava la libertà individuale, e restavano irrisolti problemi come quello costituito dal ceto emarginato dei Burakumin (come vengono chiamati oggi gli antichi Eta). Sul piano ideologico-culturale, la sconfitta favorì tra gli intellettuali l’affermazione del marxismo, mentre a livello di massa proliferò un gran numero di nuove religioni e sette a carattere sincretistico. Il periodo dell’occupazione ebbe termine nel 1951. In base al trattato di sicurezza nippo-americano, gli Stati Uniti mantennero basi militari stabili sul territorio giapponese e, in amministrazione fiduciaria, le isole Ryukyu (fino al 1972). Nel 1956, sotto il governo Hatoyama, furono stretti rapporti con l’Unione Sovietica, che manteneva il controllo delle isole Curili. Per quasi quarant’anni, dal 1955 al 1993, il paese fu governato dal Partito liberaldemocratico (Jiminto), nato dalla fusione dei due partiti conservatori. Rimasero invece all’opposizione il Partito socialista (Shakaito), da cui si ebbe nel 1960 la scissione del moderato Partito democratico socialista (Minshato), e il Partito comunista (Kyosanto). In posizione intermedia si situava il partito del Komeito (“Partito della Giustizia”), legato a una nuova setta buddhista a larga partecipazione popolare, la Sokagakkai, che non di rado ha prestato il proprio appoggio al partito di maggioranza. Intorno al Partito socialista, al sindacato e alla Zengakuren, il combattivo movimento degli studenti, si svilupparono nel 1960 grandi dimostrazioni di massa contro la revisione del trattato di sicurezza. Il trattato fu comunque rinnovato. Dieci anni dopo, mentre era ancora in atto la guerra del Vietnam, si ebbero nuove manifestazioni di massa, a opera soprattutto del movimento studentesco mobilitatosi sull’onda del ’68, come nei paesi dell’Occidente; esse si consumarono, però, isolate dal resto della società, negli scontri con la polizia all’interno degli atenei occupati, mentre il rinnovo del trattato fu facilitato al governo Sato dalla promessa da parte degli Stati Uniti della restituzione delle isole Ryukyu. Nel 1972, furono stretti rapporti ufficiali con la Cina comunista, che divenne un importante partner commerciale del Giappone. Contemporaneamente, il paese dovette far fronte alla sempre più agguerrita concorrenza della Corea del Sud, di Taiwan, Hong Kong e Singapore. Le grandi industrie riuscirono tuttavia a riqualificare le loro esportazioni, vendendo sui mercati occidentali minori quantitativi di prodotti più sofisticati a un prezzo più alto. La rivalutazione dello yen scatenò altresì un’ondata di investimenti speculativi, dando luogo a una congiuntura drogata dalla quale il paese si è risvegliato all’inizio degli anni Novanta, per cadere nella più lunga recessione di questo dopoguerra. Intanto, una serie di scandali, in cui risultò coinvolto soprattutto il Partito liberaldemocratico, arrecò grave danno all’immagine della classe politica.

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15. La nuova era Heisei

Con la morte di Hirohito (1989) e l’avvento al trono del figlio Akihito iniziò la nuova era Heisei (“Compimento della pace”). In concomitanza con la fine della guerra fredda e con il crollo dei regimi comunisti nell’Europa centro-orientale, gli equilibri politici che avevano retto il paese negli ultimi cinquant’anni furono sottoposti a un processo di profonda ristrutturazione. Dal Partito liberaldemocratico, investito da un’ondata di scandali che ne misero in luce i legami con la malavita organizzata, sorsero tre nuove formazioni politiche che nelle elezioni del 1993 fecero perdere al partito la maggioranza assoluta. Il capo di una di tali fazioni, Hosokawa Morihiro, formò un governo di coalizione sostenuto anche dai socialisti, che presentò un programma politico innovatore, basato sul decentramento, la deregolamentazione e l’internazionalizzazione del sistema economico e politico giapponese. Nel contempo, fu avviata la riforma del sistema elettorale. Il governo rimase tuttavia in carica solo otto mesi e, dopo un brevissimo governo presieduto da Hata Tsutomu, subentrò nel 1994 un governo di coalizione tra il Partito socialista e il Partito liberaldemocratico, guidato dal socialista Murayama Tomiichi, che si rivelò debole e venne sostituito nel 1996 dal liberaldemocratico Hashimoto Ryutaro. In una situazione sociale in via di trasformazione, in cui non era più così radicata come in passato la fedeltà all’azienda e in cui lo sviluppo economico accresceva il dislivello tra i redditi, il sistema politico era alla ricerca di nuovi equilibri. Intanto il Giappone assunse un ruolo più attivo in politica estera e sviluppò anche sul piano politico i rapporti economici che intratteneva con i paesi dell’Asia orientale. Già da qualche tempo, inoltre, il paese aveva espresso insieme alla Germania l’aspirazione a ottenere il posto di membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, di cui figurava come il secondo maggiore contribuente dopo gli Stati Uniti. I governi di coalizione si trovarono ad affrontare una situazione di pesanti difficoltà economiche, dopo che negli anni Ottanta il paese aveva conosciuto una fase di forte sviluppo e prosperità, e nuovi scandali che coinvolgevano governo, mondo degli affari e organizzazioni criminali. La città di Kobe fu semidistrutta da un terremoto nel 1995 e il governo fu investito da un’ondata di critiche per la scarsa efficienza degli aiuti. Poco dopo nella metropolitana di Tokyo fu effettuato un attacco terroristico con gas velenoso, a opera di una setta religiosa, che scosse profondamente il paese. Un accordo con gli Stati Uniti nel 1996 portò alla riduzione della basi aeree americane in Giappone. La crisi economica asiatica, che nel 1998 causò una forte caduta dello yen, indusse alle dimissioni Hashimoto, cui succedette Keizo Obuchi, anch’egli liberaldemocratico, che formò una coalizione con il Partito liberale, formato da dissidenti del Partito liberaldemocratico. In seguito a grave malattia, che lo portò alla morte, Obuchi fu sostituito nell’aprile del 2000 da Yoshiro Mori, del suo stesso partito.
[Alessandro Valota]
Alle elezioni del 2000 si affermò nuovamente la coalizione di governo, che tuttavia non riuscì a venir a capo né dell’instabilità politica, né della crisi economica del paese. Mori fu così costretto alle dimissioni e nel 2001 gli subentrò Junichiro Koizumi, il quale si impegnò energicamente nel rilancio dell’economia. Koizumi fu riconfermato nel 2003, ma si dimise tre anni dopo, aprendo una stagione di forte instabilità politica durante la quale si succedettero brevi e deboli governi a maggioranza liberaldemocratica, guidati rispettivamente da Shinzo Abe, Yasuo Fukuda e Taro Aso. Travolto dagli scandali, nel 2007 il partito liberaldemocratico fu duramente sconfitto dal Partito democratico – fondato nel 1996 – che divenne la prima forza politica del paese nelle successive elezioni generali del 2009. Si formò allora una coalizione di governo guidata da Yukio Hatoyama, che tuttavia si dimise nel 2010, lasciando l’incarico di premier al suo compagno di partito Naoto Kan, cui spettò affrontare la gravissima crisi scatenata dallo tsunami che, nel marzo dell’anno successivo, devastò la costa orientale del Giappone, causando migliaia di vittime e compromettendo il funzionamento della centrale nucleare di Fukushima. Fortemente criticato per la gestione della crisi, nell’agosto 2011 Naoto Kan fu costretto a lasciare sia la carica di presidente del Partito democratico, sia la carica di premier, venendo sostituito in entrambe dall’ex ministro delle finanze Yoshihiko Noda.
Sul piano internazionale, negli anni Duemila il Giappone rafforzò gli stretti rapporti di cooperazione con gli Stati Uniti e al tempo stesso intensificò gli sforzi in vista di una normalizzazione dei rapporti con la Corea e con la Cina, nel frattempo divenuta uno dei suoi principali partner commerciali. Forti polemiche interne suscitò nel 2003 la decisione del premier Koizumi di inviare un corpo di spedizione giapponese a supporto delle truppe d’occupazione americane in Iraq. [Federico Trocini]

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