Francia

Stato attuale dell’Europa occidentale

  1. Preistoria e antichità
  2. I re merovingi
  3. La dinastia carolingia
  4. La Francia capetingia
  5. Il ramo dei Valois dalla guerra dei Cent’anni alle guerre d’Italia
  6. Le guerre d’Italia e la lotta per l’egemonia europea
  7. Dalle guerre di religione alla monarchia assoluta
  8. Il trionfo dell’assolutismo monarchico e il Siècle d’Or
  9. L’età di Luigi XIV
  10. L’assolutismo debole
  11. L’età della Rivoluzione
  12. L’età napoleonica
  13. La Restaurazione
  14. Dalla Seconda Repubblica al Secondo Impero
  15. La Terza Repubblica
  16. La prima guerra mondiale e il dopoguerra
  17. La seconda guerra mondiale
  18. La Quarta Repubblica
  19. La Quinta Repubblica
  20. TABELLA: Presidenti francesi
1. Preistoria e antichità

Abitato da un milione di anni, il territorio francese conserva tracce della presenza dell’uomo sin dal paleolitico inferiore. È dal neolitico, tuttavia, che la civiltà mediterranea e quella danubiana iniziarono a svilupparsi nella Francia orientale, nella zona di Parigi e nelle regioni sudorientali, lasciando testimonianze di avanzate tecniche di lavorazione della ceramica e dei tessuti. Dopo che nel IV millennio apparvero sulle coste settentrionali i caratteristici dolmen, a partire dal III millennio si affermò in Bretagna la lavorazione dei metalli. In epoca storica i liguri, gli iberi e in particolare i celti (dal II millennio) furono i primi abitanti di vaste aree del territorio che corrisponde grosso modo all’attuale Francia (Gallia), mentre sulle coste mediterranee i greci fondarono fin dal VII secolo numerose colonie, la più importante delle quali fu Massalia (oggi Marsiglia), che risale al 600 a.C. Negli ultimi decenni del II secolo a.C. ebbe inizio l’occupazione romana che, limitata dapprima alla zona meridionale (costituita in “Provincia” nel 120 a.C.) fu completata da Giulio Cesare fra il 58 e il 51 a.C. mediante una sistematica penetrazione militare. Nonostante l’alto costo in termini di vite umane della lotta contro l’espansionismo romano, le popolazioni autoctone trovarono poi modo di integrarsi progressivamente con i conquistatori, soprattutto durante il periodo imperiale. Si venne allora a costituire un’élite romanizzata nella mentalità e nei costumi, alla quale guardò con favore l’imperatore Claudio che, nel 48 d.C., concesse all’aristocrazia locale il diritto di accedere al senato romano. Divenuta ben presto una delle regioni più ricche dell’impero, fin dalla metà del IV secolo la Gallia, per la sua posizione strategica e per la sua importanza economica, fu teatro di incursioni e di vere e proprie invasioni a opera delle popolazioni germaniche, che in parte attraversarono il suo territorio per stanziarsi altrove (come i vandali, i suevi e gli alamanni) e in parte si stabilirono entro i suoi confini. Fra queste ultime i franchi si insediarono tra la Mosa e l’Escaut, i visigoti in Aquitania, i burgundi in Savoia e lungo il corso del Rodano, determinando così la formazione di tre grandi aree territoriali almeno relativamente omogenee: la zona centro-settentrionale (franca), quella meridionale (visigotica) e quella orientale (burgunda). Sotto il controllo romano rimase soltanto il regno di Siagrio, fra la Loira e la Senna, che ebbe però vita breve e fu travolto dai franchi guidati da Clodoveo nella battaglia di Soissons (486).

Top

2. I re merovingi

Una prima unificazione e riorganizzazione del territorio fu compiuta dai re franchi della dinastia dei Merovingi, soprattutto per opera di Clodoveo (481-511), il suo fondatore, e più tardi di Dagoberto I (629-39). Al primo si deve ascrivere, oltre alla conquista del regno di Siagrio, la sconfitta degli alamanni nella battaglia di Tolbiac (496) e l’annessione del regno dei visigoti fino ai Pirenei in seguito alla battaglia di Vouillé (507). I suoi figli procedettero poi all’annessione del regno dei burgundi (532-34), della Provenza e della Turingia, portando il dominio franco a quei confini che lo contraddistinsero fino all’inizio dell’VIII secolo. Grande importanza dal punto di vista politico ebbe anche la scelta di Clodoveo di aderire al cattolicesimo, propiziando così la conversione dell’intero popolo franco e la sua assimilazione alla componente gallo-romana della popolazione. Nonostante l’estensione territoriale raggiunta dal regno e l’indubbia capacità politica di alcuni sovrani, la monarchia merovingia fu tuttavia segnata da una profonda contraddizione, che ne determinò il progressivo esautoramento e infine la caduta. Alle spinte verso l’espansione, infatti, si contrappose una tendenza sempre più forte al frazionamento territoriale per via ereditaria, secondo la concezione tipicamente germanica del regno come patrimonio personale del sovrano (patrimonialismo). Le lotte dinastiche e i contrasti fra i sovrani e la nobiltà divennero così un elemento costante dell’età merovingia, che vide profilarsi sempre più nettamente, tra la fine del VI secolo e l’inizio del VII, una divisione del paese in quattro unità territoriali dotate di fatto di una larga autonomia nei confronti del potere regio: l’Austrasia, la Borgogna, la Neustria e l’Aquitania. Nel 614 un’assemblea formata da nobili e vescovi impose al re Clotario II (613-29), che pure era riuscito a riunificare il dominio franco, di concedere all’Austrasia e alla Borgogna il diritto di amministrarsi autonomamente sotto la guida di un maggiordomo (maestri di palazzo) e di scegliere i propri funzionari fra i grandi proprietari terrieri. Se la determinazione di Dagoberto riuscì a ricomporre ancora una volta, ma per un breve periodo, l’unità del regno, alla sua morte (639) la monarchia merovingia entrò in una fase di lenta ma irreversibile decadenza: in un clima di esasperata conflittualità e di predominio degli interessi particolaristici, il potere venne sempre più esercitato dai maestri di palazzo, fra i quali si affermarono via via quelli d’Austrasia nella persona di Pipino di Héristal (680-714), di Carlo Martello (714-41) e di Pipino il Breve (741-51). “Re fannulloni” furono quindi definiti spregiativamente gli ultimi appartenenti a una dinastia, il cui potere, ormai soltanto formale, si esaurì definitivamente nel 751 con la deposizione di Childerico III (743-51) da parte di Pipino il Breve.

Top

3. La dinastia carolingia

Nel 751 Pipino il Breve fu proclamato re dei franchi da un’assemblea dei grandi del regno, con l’approvazione di papa Zaccaria. Un anno più tardi, nel 752, fu incoronato e consacrato a Soissons da San Bonifacio. Ebbe così inizio la dinastia dei Carolingi, sotto la quale il regno franco riuscì ad acquisire una posizione egemonica nell’Europa centro-occidentale. Le linee fondamentali della politica interna ed estera di Pipino (rafforzamento del potere regio, consolidamento dell’alleanza col papato, ripresa del disegno, che fu già dei primi Merovingi, di assoggettare le popolazioni germaniche) trovarono una piena realizzazione a opera del figlio Carlo, il futuro Carlo Magno, dal 771 unico re dei franchi. Sotto la sua guida si realizzò uno straordinario ampliamento dei confini del regno, per effetto di una serie di vittoriose campagne militari contro i longobardi, i sassoni, gli avari, i bavari e i saraceni, che estesero il dominio franco dall’Atlantico all’Elba e al Danubio. Al tempo stesso si realizzò una notevole convergenza di interessi fra lo stato franco e il papato, soprattutto in funzione antilongobarda e antibizantina. L’incoronazione imperiale di Carlo da parte di papa Leone III, celebrata la notte di Natale dell’800, aggiunse a sua volta una nuova forma di prestigio, di tipo sacrale, al potere propriamente politico che il sovrano derivava dall’essere “re dei franchi” e “re dei longobardi”. Sulla base di questi presupposti Carlo Magno poté avviare una profonda opera di riorganizzazione politica, amministrativa, economica e culturale, che conferì una reale unità all’impero carolingio. Questo sforzo fu però in gran parte vanificato dalla scelta di strutturare il sistema di governo su una complessa costellazione di rapporti vassallatico-beneficiari e dalla persistenza delle vecchie norme consuetudinarie di successione, che prevedevano la spartizione del regno fra gli eredi: due elementi, questi, che dovevano condurre a un progressivo indebolimento del potere centrale a favore dei grandi vassalli e, quindi, alla dissoluzione stessa della compagine imperiale. I primi sintomi della crisi si manifestarono già all’indomani della morte di Carlo Magno, durante il regno di Ludovico il Pio (814-40); e si tradussero poi in un’aperta lotta di successione tra i suoi figli Lotario, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo: una lotta che si concluse nell’843 con il trattato di Verdun il quale, istituendo una netta ripartizione dei domini imperiali (tra l’altro con importanti riflessi sul piano linguistico), attribuiva a Carlo il Calvo (843-77) la maggior parte del territorio francese, insieme a una parte dell’Olanda e del Belgio. Furono anni assai difficili per questa regione, che si andava ormai definendo come il nucleo fondamentale del futuro regno di Francia. Riunita per un breve periodo al resto dell’impero a opera di Carlo il Grosso nell’884, essa sperimentò un’ulteriore crescita del potere dei grandi vassalli, che nell’877 si videro riconoscere anche formalmente il diritto all’ereditarietà dei feudi maggiori con il capitolare di Quierzy (o Kiersy). Si profilò, inoltre, la concreta minaccia di nuove invasioni, soprattutto da nord e da est, a opera dei normanni (che intorno alla metà del IX secolo arrivarono fino a Parigi e presero a stanziarsi sulle foci della Senna e della Loira) e dei saraceni (che nello stesso periodo attaccarono ripetutamente la Provenza). Il succedersi di sovrani sempre più deboli e il protrarsi di lotte sanguinose tra i diversi elementi della nobiltà feudale caratterizzarono il X secolo e determinarono la formazione di unità territoriali di fatto autonome – l’Aquitania, la Borgogna, il Vermandois, la Champagne e la Normandia – rette da grandi famiglie feudali. Lo stesso imperatore Carlo il Grosso nell’887 non fu più riconosciuto dalla nobiltà francese, che elesse re di Francia il conte di Parigi, Oddone (888-98). In questo periodo di confusione e incertezza istituzionale la chiesa francese – tradizionale sostegno dell’autorità regia – se da una parte risentì negativamente, soprattutto dal punto di vista morale, dei fenomeni legati alla feudalizzazione, dall’altro seppe esprimere profonde esigenze di rinnovamento, che si concretizzarono in particolare nella fondazione dell’ordine dei cluniacensi.

Top

4. La Francia capetingia

Con l’incoronazione di Ugo Capeto (987) ebbe inizio la dinastia dei Capetingi, che avrebbe regnato in Francia fino al 1328 in linea diretta e poi con i rami dei Valois (1328-1589), dei Borbone (1589-1792, 1814-30) e degli Orléans (1830-48). Nel corso del secolo XI, quando si sviluppò pienamente il sistema feudale (feudalesimo), il potere dei sovrani capetingi fu in realtà assai limitato e rimase circoscritto a un piccolo territorio compreso fra la Senna e la Loira, fra Parigi e Orléans, mentre nel resto della Francia continuò a dominare un forte particolarismo. Alcuni elementi tuttavia – quali i tentativi di imporre la successione dinastica in linea maschile e di controllare i territori del regno ponendovi a capo i prevosti – prefigurarono fin da allora una volontà di affermazione dell’autorità regia che si sarebbe manifestata nella sua pienezza tra il XII e il XIII secolo. Sotto i regni di Luigi VI (1108-1137) e poi di suo figlio Luigi VII (1137-80), l’ampliamento dei possedimenti della corona (perseguito anche attraverso un’accorta politica di alleanze matrimoniali) e il suo consolidamento nei confronti della grande feudalità riottosa assunsero una maggiore consistenza. Entrambi i sovrani presero ad appoggiarsi alle forze cittadine “borghesi” in funzione antinobiliare (e talora a proteggere i contadini dallo strapotere signorile), sforzandosi di promuovere (con l’appoggio della chiesa, che anche in questo caso si rivelò un’alleata preziosa per la corona) una mistica della monarchia volta a fare del re una figura dotata di prestigio religioso. Furono così poste le premesse di quella fase fondamentale del processo di formazione della monarchia nazionale francese che si venne poi compiendo durante i regni di Filippo II Augusto (1180-1223) e di Luigi IX il Santo (1226-70) e che si caratterizzò per un considerevole rafforzamento del potere sovrano nel quadro di una pur sostanziale persistenza delle strutture feudali. Filippo II Augusto si sforzò innanzitutto di creare una struttura burocratica centralizzata, attraverso l’istituzione dei balivi e la ridefinizione delle varie competenze della corte; nello stesso tempo, intraprese un’energica lotta contro la presenza inglese sul continente che culminò con la vittoria nella battaglia di Bouvines (1214), con cui furono acquisiti alla corona i territori francesi a nord della Loira, prima appartenenti ai Plantageneti; infine, sostituì al titolo arcaico di “re dei franchi” quello di “re di Francia”, col quale vennero designati i sovrani fino al XIX secolo. Nella medesima direzione Luigi IX, al termine di una lunga lotta contro gli albigesi, riuscì a impadronirsi dei territori appartenenti al conte di Tolosa Raimondo VII, ottenendo così uno sbocco sul Mediterraneo e facendo della Francia una delle più grandi potenze europee – come testimonia anche il passaggio di Napoli e della Sicilia sotto il dominio del ramo cadetto degli Angioini (1266). Al tempo stesso conferì un assetto più stabile al regno varando una serie di riforme intese a contenere le tendenze centrifughe della grande feudalità e a organizzare il potere centrale in una struttura più articolata. Fondamentali in questo senso furono l’istituzione del Consiglio del re, la creazione del parlamento e di una Chambre de Compts e, ancora, il consolidamento di una specifica gerarchia di funzionari regi, fra cui i balivi, i prevosti e gli inquisitori. Con Filippo IV il Bello (1285-1314), infine, si ebbe un’aperta ed energica rivendicazione del ruolo e delle prerogative del sovrano nazionale di contro ai poteri universalistici, e tipicamente medievali, del papa e dell’imperatore. Da qui l’aspro conflitto con il papa Bonifacio VIII (1294-1303), assertore di una concezione teocratica del potere, e l’adozione di provvedimenti – la revoca dell’immunità fiscale al clero, la sottomissione degli ecclesiastici alla giustizia del sovrano, la proibizione di esportare denaro e derrate dal regno – diretti a consolidare l’autorità assoluta del sovrano, superiorem non recognoscens, all’interno del proprio regno. Garante degli interessi nazionali, con Filippo il Bello la monarchia si appoggiò sempre di più sulle forze “borghesi” (che entrarono a far parte degli Stati generali) riuscendo anche a esercitare un più stretto controllo sulla chiesa, che dopo la morte di Bonifacio VIII, e poi durante la cosiddetta cattività avignonese (1309-1376) divenne uno strumento al servizio della politica francese.

Top

5. Il ramo dei Valois dalla guerra dei Cent’anni alle guerre d’Italia

Esauritasi con Carlo IV (1322-28) la linea diretta della dinastia capetingia, il problema della successione al trono di Francia pose le premesse della guerra dei Cent’anni, che dal 1337 al 1453 oppose la Francia all’Inghilterra. Al ramo diretto dei Capetingi succedette, in linea maschile, la casa di Valois con Filippo VI (1328-50), il quale, manifestando l’intenzione di confiscare i feudi d’Aquitania al re inglese Edoardo III (1327-77), deciso per parte sua a far valere le proprie pretese dinastiche, diede di fatto inizio alle ostilità. La guerra fu caratterizzata da alterne vicende sul piano militare e delle alleanze e, rotta da tregue e da improvvisi rovesci, fu resa ancor più drammatica dalla concomitanza di epidemie, carestie e rivolte contadine (particolarmente gravi furono la “peste nera”, che si abbatté sul paese tra il 1348 e il 1350, e la jacquerie, che ebbe come protagonisti i contadini della Piccardia e dell’Île-de-France nel 1358). Per la Francia si profilarono inizialmente momenti assai difficili, culminati con la prigionia del re Giovanni II il Buono (1350-64) a Londra tra il 1356 e il 1360. E nonostante i successi degli ultimi anni – che portarono alla cacciata degli inglesi dal continente – il paese uscì stremato dalla guerra, con una forte recessione economica e demografica, evidente soprattutto nelle regioni settentrionali e occidentali. Al termine del conflitto, tuttavia, il potere monarchico e la struttura dello stato risultarono in ultima analisi rafforzati e, grazie anche all’opera di Giovanna d’Arco, fu galvanizzato il sentimento nazionale. La stessa nobiltà feudale francese, prima strettamente legata a quella inglese, si strinse intorno al sovrano, non diversamente dalle forze “borghesi” e popolari. Carlo VII (1422-61), consacrato a Reims nel 1429, riuscì a costituire un esercito permanente, un efficiente sistema fiscale e giudiziario e, attraverso la Prammatica sanzione di Bourges (1438), pose le basi del gallicanismo. Il suo successore Luigi XI (1461-83), al quale toccò firmare il trattato di Picquigny (1475), ingrandì ulteriormente i domini della Corona (attraverso l’occupazione della Cerdagna e del Rossiglione e poi, estintasi la casa d’Angiò nel 1481, con l’annessione dell’Angiò, del Maine e della Provenza) e riuscì a sconfiggere gli ultimi sussulti autonomistici dei grandi feudatari, che nel 1465 si erano uniti nella Lega del bene pubblico sotto la guida di Carlo il Temerario. Da questo momento, attraverso una sistematica serie di interventi nelle diverse crisi regionali, la Francia poté riprendere quello che era già stato un vecchio sogno dei Capetingi e poi degli Angioini: l’espansione in Italia. Questa volta, però, nel quadro di un progetto egemonico di respiro europeo, in aperto contrasto con l’analogo disegno di espansione territoriale della Spagna.

Top

6. Le guerre d’Italia e la lotta per l’egemonia europea

Dopo la morte di Lorenzo il Magnifico (1492) per più di mezzo secolo i sovrani francesi intervennero nella penisola italiana con le armi o con la diplomazia, inserendosi nella lotta per il potere soprattutto attraverso rivendicazioni dinastiche (come avvenne per il regno di Napoli e il ducato di Milano). Con Carlo VIII (1483-98) e con il suo successore Luigi XII (1498-1515) sembrò in un primo tempo che il disegno francese potesse realizzarsi: il primo, sceso in Italia nell’estate del 1494, nel febbraio dell’anno successivo era giunto a Napoli senza incontrare alcuna resistenza; il secondo nel 1500 occupò Milano costringendo alla fuga Ludovico il Moro. In entrambi i casi però si trattò di successi effimeri, in quanto la stessa superiorità militare francese determinò la reazione congiunta degli stati italiani, che si sentirono direttamente minacciati, e delle maggiori potenze europee, l’impero e la Spagna. Contro Carlo VIII si costituì nello stesso 1495 la lega di Venezia, che costrinse il sovrano a ritornare in Francia; la Lega santa, promossa dal papa Giulio II nel 1511, determinò il ritiro dei francesi anche dal ducato di Milano. Lo stesso Francesco I (1515-47), se riuscì inizialmente a riprendere il controllo della Lombardia e a vedere riconosciuto alla Francia, attraverso la pace di Noyon (1516), un ruolo egemonico in Italia da condividere con la Spagna, vide poi sfumare il sogno di un predominio francese in ambito europeo nel corso del lungo conflitto che lo oppose a Carlo V, dal 1516 re di Spagna e dal 1519 imperatore. Neppure il suo successore Enrico II (1547-59) che tentò a più riprese, fra il 1551 e il 1555, di intervenire in varie aree di crisi della penisola, ebbe maggior successo e, con la pace di Cateau-Cambrésis (1559) dovette rinunciare al ducato di Milano e restituire a Emanuele Filiberto i territori della Savoia occupati, pur conservando sulla frontiera orientale il possesso di Metz, Toul e Verdun. Aveva così termine la lotta fra Francia e Spagna per l’egemonia in Italia: con la sconfitta della prima e il conseguente ridimensionamento del suo ruolo europeo. Il contatto prolungato con il raffinato mondo delle corti permise all’élite francese di conoscere e apprezzare la cultura italiana, mutuandone vari elementi e accogliendo alcuni dei suoi più significativi esponenti, da Leonardo a Cellini.

Top

7. Dalle guerre di religione alla monarchia assoluta

Nella seconda metà del XVI secolo la Francia, profondamente indebolita dalle guerre per l’egemonia in Europa, dovette affrontare un periodo di grave crisi politica, economica e finanziaria e di acute tensioni sociali, su cui si andò innestando, con la sua carica esplosiva, la contrapposizione sempre più netta fra i cattolici e i protestanti (gli ugonotti), già delineatasi all’epoca di Francesco I e soprattutto dei suoi successori Enrico II e Francesco II (1559-60). Durante i regni di Carlo IX (1560-74) – inizialmente affidato alla reggenza di Caterina de’ Medici – e di Enrico III (1574-89), tale contrapposizione degenerò in una serie di sanguinosi conflitti – le guerre di religione – i quali, drammaticamente inaugurati dal massacro di ugonotti compiuto a Vassy dai cattolici intransigenti (1562) e poi scanditi da ulteriori gravi episodi di violenza civile (celebre soprattutto la strage della notte di San Bartolomeo nell’agosto del 1572), si trascinarono per quasi quarant’anni, portando il paese sull’orlo del collasso, mettendo in discussione le istituzioni fondamentali della monarchia e minacciando la sopravvivenza stessa della compagine statale. Il conflitto tra le due parti – che si organizzarono intorno alle famiglie aristocratiche dei Guisa (cattolici), dei Condé e dei Borbone (protestanti) e che ottennero il sostegno dei maggiori stati europei (rispettivamente degli spagnoli da un lato e di fiamminghi, tedeschi e inglesi dall’altro) – si concluse soltanto nel 1598, quando il nuovo sovrano Enrico IV (1589-1610) – con il quale ebbe inizio il ramo dei Borbone – dopo essersi convertito al cattolicesimo (1593) promulgò l’editto di Nantes, che stabiliva il principio della convivenza fra le due religioni all’interno dello stato. Pur proclamando il cattolicesimo religione di stato, si garantì infatti agli ugonotti la libertà di culto e gli stessi diritti civili dei cattolici; in alcuni articoli segreti si riconobbe loro il diritto ad avere cinquantuno piazze fortificate (places de sureté) sul territorio francese, con guarnigioni e governatori pagati dallo stato, in cambio della rinuncia all’alleanza con potenze straniere e dello scioglimento delle loro assemblee provinciali. Si trattava di una coraggiosa soluzione di compromesso, ispirata alle argomentazioni del partito moderato dei politiques, che poneva il problema dell’ordine e dell’unità dello stato al di sopra dei conflitti religiosi. Fu ristabilito così un clima di pace sociale che doveva favorire la ripresa economica degli anni immediatamente successivi. Nell’ultimo decennio del regno di Enrico IV infatti la Francia conobbe una generale ripresa delle campagne e delle città, e i ministri del sovrano (fra cui si distinse il Sully) poterono riordinare le finanze e favorire lo sviluppo del commercio e dell’artigianato, inaugurando quell’indirizzo mercantilistico (mercantilismo) che contraddistinse in seguito la politica di Richelieu e Colbert. Anche l’autorità monarchica, indebolita e talora apertamente contestata durante il periodo delle guerre civili, venne rafforzata da Enrico IV in una direzione che si può già definire potenzialmente “assolutistica”: gli Stati generali non furono più convocati, i parlamenti furono orientati secondo la volontà del sovrano e il ruolo politico della nobiltà – preponderante rispetto alla stessa corona negli anni della crisi – venne fortemente limitato. In questo contesto fu introdotta la legge della paulette, che stabilì il principio dell’ereditarietà delle cariche pubbliche. Enrico IV inaugurò la politica coloniale francese in America settentrionale, in particolare in Canada, grazie all’opera di Samuel de Champlain, che nel 1608 fondò il Québec.

Top

8. Il trionfo dell’assolutismo monarchico e il Siècle d’Or

Il processo di consolidamento della monarchia che caratterizzò la politica francese nel corso del Seicento non fu privo di attriti, soprattutto per la presenza di forze centrifughe (la grande nobiltà, il parlamento di Parigi, gli ugonotti) in netto contrasto con il modello di stato centralizzato che si andava comunque affermando. Il periodo di reggenza di Maria de’ Medici (1610-17), successivo all’assassinio di Enrico IV, fu segnato da gravi disordini interni e dal dissanguamento delle finanze dello stato, che sembrarono compromettere nuovamente l’autorità regia e la pace sociale. Tuttavia, per opera di Richelieu, che a partire dagli anni Venti resse di fatto le sorti del paese durante i restanti anni del regno di Luigi XIII (1610-43), la politica francese si ricollegò al programma di Enrico IV, consolidandone i risultati attraverso il ristabilimento dell’ordine interno e con il progetto di un nuovo rafforzamento della posizione della Francia in Europa. Il primo obiettivo fu conseguito attraverso una lotta vittoriosa contro la nobiltà più infida e contro gli ugonotti, considerati, per l’autonomia di cui godevano grazie all’editto di Nantes, una minaccia all’unità dello stato. A questi fu quindi vietata qualsiasi forma di organizzazione politica autonoma e vennero smantellate le loro piazzaforti, anche se si mantenne la libertà di culto (come si sancì attraverso il trattato di Alais e l’editto di grazia nel 1629). Il programma di rafforzamento della presenza francese in Europa si concretizzò invece con la riorganizzazione dell’esercito e con l’intervento nella guerra dei Trent’anni contro gli Asburgo d’Austria e di Spagna. Dopo Richelieu, toccò al cardinale Giulio Mazarino proseguire nella costruzione di uno stato unitario sottoposto all’autorità del sovrano e di un forte governo centrale. In campo europeo egli concluse con un successo diplomatico-politico, oltre che militare, la guerra contro gli Asburgo d’Austria (pace di Vestfalia del 1648) e di Spagna (pace dei Pirenei del 1659), sancendo così il predominio europeo della Francia, che sul piano territoriale acquisiva l’Artois e il Rossiglione e per la quale si prospettava l’ipotesi dell’unione con la corona di Spagna attraverso l’impegno di Filippo IV a dare in sposa la figlia Maria Teresa a Luigi XIV. La sua politica di rafforzamento delle istituzioni monarchiche in senso assolutistico, invece, incontrò forti opposizioni da parte di coloro che risultavano toccati nei propri privilegi, e che poterono d’altra parte strumentalizzare il malcontento popolare per l’esasperato fiscalismo del governo. Significativi in questo senso furono il movimento della fronda parlamentare (1648-49) e quello della fronda dei principi (1649-52) che, instaurando nel paese un clima da guerra civile, costrinsero lo stesso Mazarino, la regina madre Anna d’Austria e il giovane Luigi XIV ad abbandonare la capitale, dove essi poterono fare definitivamente ritorno soltanto nel 1653. Si aprì di fatto allora il lungo regno di Luigi XIV, che dalla morte di Mazarino, nel 1661, fino al 1715, anno della sua scomparsa, governò il paese in prima persona portando alla sua più compiuta espressione il modello dell’assolutismo, ispirato a un ferreo centralismo politico e amministrativo e giustificato attraverso il ricorso al principio del diritto divino del re.

Top

9. L’età di Luigi XIV

Il regno di Luigi XIV (1643-1715) fu caratterizzato da un’intensa concentrazione dei poteri nelle mani del sovrano e della sua ristretta cerchia di collaboratori – composta da pochi ministri e consiglieri, reclutati soprattutto fra la nobiltà di toga e la borghesia – e dalla capillarizzazione delle forme di controllo dall’alto del territorio attraverso le figure degli intendenti regi. Dopo l’importante stagione del governo di Richelieu e di Mazarino, il monarca divenne così il vertice di una gerarchia di potere che si strutturava attraverso una serie ben definita di Consigli: dal Consiglio di Stato a quello delle Finanze, dal Consiglio Segreto al Conseil d’en haut, dal quale dipendevano le principali decisioni in politica interna ed estera. Parallelamente la monarchia procedette nell’opera di esautoramento dei parlamenti (dal 1665 adibiti soltanto alla registrazione delle ordinanze reali, con un diritto di rimostranza puramente formale) e di drastico ridimensionamento del ruolo dei governatori delle province, le quali si videro annullare quasi ogni facoltà di autogoverno. Questi provvedimenti si inserirono in un piano più vasto di riduzione del potere effettivo della grande aristocrazia, ridotta a un ruolo puramente “decorativo” nell’ambito della splendida corte di Versailles. Al fine di dare unità allo stato a tutti i livelli trovarono poi giustificazione una strategia giuridica volta a regolare ogni settore della vita civile (che si concretizzò nella pubblicazione di sei codici) e una politica religiosa incentrata sull’eliminazione di ogni residuo privilegio di cui ancora godevano gli ugonotti, sulla lotta al giansenismo e sul controllo della chiesa francese da parte della corona (gallicanismo). Momento essenziale del conflitto con i protestanti fu l’emanazione dell’editto di Fontainebleau (1685), che abolì quello di Nantes; la distruzione dell’abbazia di Port-Royal nel 1710 mise invece fine alla lotta contro il giansenismo; la volontà di dare al cattolicesimo francese un’impronta nazionale e indipendente da Roma si espresse infine nella “Dichiarazione dei quattro articoli”, detti gallicani, che furono approvati dall’Assemblea del clero francese nel 1682. Fondamentali furono ancora la riorganizzazione dell’economia e la riforma dell’esercito, attuate rispettivamente da Colbert e dai due Le Tellier (Michel e François Michel), e la protezione mecenatistica dell’arte e della cultura per coagulare consenso intorno alla Corona. Gli obiettivi della strategia economica di Colbert, volta a fare della Francia una potenza commerciale di prim’ordine, in grado di competere con l’Inghilterra e l’Olanda, soltanto in parte poterono essere realizzati, e furono anzi progressivamente vanificati da una politica estera estremamente aggressiva, finalizzata alla realizzazione di una preponderanza francese a livello continentale. Nel ventennio compreso fra il 1661 e il 1684 l’espansionismo militaristico si orientò contro la Spagna (guerra di Devoluzione), contro l’Olanda (nei confronti della quale Colbert aveva già condotto una sorta di guerra delle tariffe doganali) e contro numerose città e territori dell’impero (annessi alla Francia attraverso la politica delle “riunioni”). Nonostante i successi militari, dovuti alla superiorità dell’esercito francese, non si concretizzarono tuttavia i risultati previsti dalla monarchia: la pace di Aquisgrana, conclusa nel 1668 con la Spagna, riconosceva alla Francia solo dodici città dei Paesi Bassi; la pace di Nimega (1678), oltre a riconoscere l’indipendenza olandese, sanciva l’annullamento delle tariffe protezionistiche imposte precedentemente da Colbert; la politica delle annessioni a danno dall’impero, infine, determinò la formazione della lega di Augusta (1686) in funzione antifrancese. La seconda fase dello sforzo militare di Luigi XIV ebbe i suoi due momenti fondamentali nella guerra della lega di Augusta (1688-97) e nella guerra di Successione spagnola (1701-1714), entrambe disastrose per la Francia. Il primo conflitto, nel quale il paese si trovò isolato contro le maggiori potenze del continente, si concluse con l’accettazione della pace di Rijswijk (1697), con la quale il sovrano dovette rinunciare a quasi tutte le annessioni fatte dopo la pace di Nimega e riconoscere Guglielmo III d’Orange come legittimo sovrano d’Inghilterra. La guerra di Successione spagnola, che ripropose contro la Francia una grande coalizione internazionale, terminò con i trattati di Utrecht (1713) e di Rastadt (1714), che ridisegnarono la carta politica dell’Europa in nome del principio dell’equilibrio fra le potenze. Re di Spagna fu riconosciuto Filippo V, un Borbone, ma a condizione della sua rinuncia a unire la corona di Spagna con quella francese. Alla vigilia della morte di Luigi XIV, dunque, la Francia, pur rimanendo una grande potenza, vedeva il sostanziale fallimento del suo disegno egemonico. Negli stessi anni, tuttavia, la sua politica coloniale trasse grande impulso dalla creazione della Compagnia delle Indie orientali (1664) e dall’insediamento (a partire dal 1674) lungo le coste meridionali dell’India; contemporaneamente proseguì la penetrazione nelle Antille e nella futura Guyana francese.

Top

10. L’assolutismo debole

Dopo la morte di Luigi XIV (1715) e fino al termine degli anni Ottanta del XVIII secolo la Francia continuò a essere retta da un regime monarchico di tipo assolutistico, che si dimostrò tuttavia sempre più debole e inadeguato rispetto alle esigenze poste dallo sviluppo della società civile. Fra i problemi che i successori del Re Sole dovettero affrontare i principali furono quello fiscale e quello della rappresentanza dei diversi interessi e orientamenti del paese: la mancata soluzione di questi nodi cruciali – nonostante l’opera compiuta da lucidi ministri e collaboratori della corona – aggravò progressivamente quella crisi che sfociò nella grande rivoluzione del 1789. Dopo la lunga stagione delle guerre di Luigi XIV, la reggenza di Filippo d’Orléans (1715-23) si caratterizzò per il tentativo, ben presto fallito, di risolvere il problema finanziario attraverso la creazione di una banca di stato e la conversione del debito in sottoscrizioni pubbliche; nello stesso tempo, sul piano istituzionale fu ridato il diritto di rimostranza al parlamento e la nobiltà fu reintegrata nelle sue funzioni politiche. Con il regno di Luigi XV (1723-74) si accentuò la debolezza della corona, nonostante gli iniziali successi ottenuti dal cardinale Hercule de Fleury, primo ministro dal 1726 al 1743, proprio nell’opera di risanamento finanziario (reso peraltro possibile anche da una favorevole congiuntura economica). Il clero, la nobiltà, il parlamento di Parigi e alcune personalità della corte divennero però sempre più influenti, fino a condizionare del tutto le scelte del sovrano – che alla morte di Fleury decise di non nominare più un primo ministro e di governare da solo – e a opporsi con successo ai progetti organici di riforma in nome della salvaguardia dei propri privilegi. Si rivelarono poi nell’insieme negativi gli effetti del coinvolgimento francese nella guerra di Successione polacca (1733-38), nella guerra di Successione austriaca (1740-48) e nella guerra dei Sette anni (1756-63). Nel primo conflitto la Francia ottenne un risultato complessivamente favorevole; la pace di Aquisgrana invece, che pose fine alla guerra di Successione austriaca, lasciò aperta quella potenziale conflittualità fra Francia e Inghilterra in merito alla questione coloniale che si sarebbe riproposta apertamente nella guerra dei Sette anni e che avrebbe portato alla sconfitta della Francia. Quest’ultima infatti con la pace di Parigi (1763) dovette cedere il Canada agli inglesi e la Louisiana alla Spagna, e perdette la propria influenza in India (ancora a vantaggio degli inglesi): il suo ruolo di potenza coloniale venne così fortemente ridimensionato di fronte all’Inghilterra, mentre lo sforzo militare ne aggravò la crisi sul piano finanziario. Con Luigi XVI (1774-93) la monarchia borbonica, ormai priva di un reale consenso, giunse quindi al suo epilogo, non senza aver però suscitato inizialmente grandi speranze di rinnovamento, affidate soprattutto all’opera di Turgot, controllore generale delle finanze dal 1774 al 1776, il cui vasto piano riformatore fu vanificato dalle resistenze dei ceti aristocratici privilegiati. La stessa sorte toccò anche ai progetti di riforma del suo successore, il banchiere ginevrino Necker, che di fatto esercitò le funzioni di controllore generale delle finanze dal 1777 al 1781 e poi tra il 1788 e il 1790 anche se, per la sua origine straniera, non assunse formalmente quel titolo. Risultò chiaro insomma che qualsiasi tentativo di riforma, nel momento in cui urtava contro privilegi consolidati, era destinato a essere affossato, contravvenendo alle esigenze di una società civile che sul piano economico e nel campo culturale – dove si andavano diffondendo i nuovi principi dell’Illuminismo – risultava più avanzata rispetto a un regime politico assolutistico legato agli interessi particolaristici delle vecchie classi dominanti. La Francia, pur non sperimentando ancora processi di modernizzazione agraria e industriale in qualche modo assimilabili a quelli che in Inghilterra caratterizzarono la rivoluzione industriale, conobbe nel corso del XVIII secolo un rilevante sviluppo nel campo dell’industria, del commercio e in taluni casi dell’agricoltura, che avrebbe tuttavia richiesto una diversa e più efficace politica economica. Negli anni Settanta si ebbe invece un’inversione di tendenza nella produzione, con la conseguenza di un aumento generalizzato dei prezzi che colpì ed esasperò soprattutto le fasce popolari. L’aggravarsi della situazione evidenziò ancor di più gli effetti dell’incapacità della monarchia di dare corso a un ampio disegno riformistico che, solo, avrebbe potuto garantirne la sopravvivenza. La crisi economica, innestandosi su quella politica, determinò quindi il rapido precipitare degli eventi nel senso della rivoluzione, che avrebbe spazzato via l’ancien régime.

Top

11. L’età della Rivoluzione

In una situazione sempre più confusa la convocazione degli Stati generali fissata, con decreto dell’8 agosto 1788, per il 1° maggio 1789, fu una concessione alla quale Luigi XVI fu costretto dalle pressioni popolari: sul piano del prestigio e dell’immagine l’assolutismo accusava già una prima sconfitta. Più grave ancora fu il suo scacco quando la monarchia, dopo una vana opposizione, dovette accettare la trasformazione degli Stati generali in Assemblea nazionale, che il 9 luglio 1789 si proclamò “Costituente”, e quando, in un clima sempre più acceso, fu creata una milizia volontaria, poi denominata “Guardia nazionale”: dal punto di vista giuridico la monarchia assoluta si trasformava infatti in una monarchia limitata, per il conferimento di poteri deliberativi all’Assemblea e per l’affermazione del nuovo concetto di sovranità popolare. La volontà del sovrano e dell’aristocrazia di retrocedere dalle concessioni già fatte e l’intervento di vasti strati popolari urbani provocarono l’insurrezione di Parigi, che il 14 luglio culminò nella presa della Bastiglia. Nelle campagne intanto dilagò la rivolta contadina, di fronte alla quale il 4 agosto l’Assemblea abolì i diritti feudali nobiliari ed ecclesiastici e ogni privilegio fiscale. Il 26 agosto venne varata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che inaugurava la fase di rifondazione dello stato che avrebbe avuto la sua prima espressione nella costituzione del 1791, con l’introduzione del suffragio maschile ristretto, sulla base della distinzione fra cittadini attivi e passivi. Si procedette inoltre alla riorganizzazione amministrativa del territorio che fu suddiviso in 83 dipartimenti. L’attribuzione al sovrano del potere esecutivo e all’Assemblea di quello legislativo sancì il mutamento della forma di governo, introducendo la monarchia costituzionale. Il comportamento di Luigi XVI compromise tuttavia sul nascere l’attuazione del nuovo corso politico, e palesò il rifiuto da parte aristocratica di accettare la fine dell’ancien régime. Le elezioni e l’entrata in vigore della costituzione si svolsero d’altra parte in un clima di forte contrapposizione sociale e politica che all’interno dell’Assemblea legislativa – subentrata all’Assemblea nazionale costituente – si rifletté nella profonda contrapposizione fra una destra in cui sedevano i foglianti, una sinistra costituita dai giacobini e dai cordiglieri, e un centro di indipendenti. La guerra contro Austria e Prussia – dichiarata il 20 aprile 1792 – fu considerata dai girondini come un espediente per distogliere l’opinione pubblica dai problemi interni e per ridare compattezza alla nazione: con una diversa motivazione la loro scelta coincise comunque con quella dei monarchici, che speravano nella sconfitta della rivoluzione. La svolta politica in senso radicale del 10 agosto portò all’arresto del sovrano e alla convocazione della Convenzione, eletta a suffragio universale maschile, alla quale seguirono la proclamazione della repubblica (21 settembre 1792) e l’esecuzione del sovrano (21 gennaio 1793). Si aprì così una nuova fase istituzionale, ma in un clima di grave crisi interna (a causa dell’insurrezione della Vandea) ed esterna (per la formazione della prima coalizione antifrancese) che portò alla dittatura giacobina. La formazione di un Comitato di difesa nazionale, di un Tribunale rivoluzionario e di un Comitato di salute pubblica e l’elaborazione di una nuova costituzione (24 giugno 1793), permise di prendere misure eccezionali estromettendo i girondini e inaugurando il periodo del Terrore. Il governo rivoluzionario, dominato dalla figura di Robespierre, decise l’introduzione della leva in massa e altri provvedimenti di dura repressione garantendo sul fronte interno la sconfitta della rivolta della Vandea e delle città girondine e, su quello esterno, la vittoriosa controffensiva contro gli eserciti stranieri – culminata nella vittoria di Fleurus (26 giugno 1794) – fino a quando, in coincidenza con il miglioramento generale della situazione, la Convenzione decise di sbarazzarsi del terrore robespierriano (27-28 luglio 1794) instaurando il cosiddetto “terrore bianco”.

Top

12. L’età napoleonica

Prima di sciogliersi (26 ottobre 1795) la Convenzione aveva votato la costituzione dell’anno III (quella dell’anno I non entrò mai in vigore), che prevedeva, oltre al ritorno al suffragio ristretto su base censitaria, la formazione di un Direttorio di cinque membri dotati del potere esecutivo e di un potere legislativo affidato al Consiglio degli anziani e al Consiglio dei cinquecento. Il Direttorio iniziò a operare in una situazione politica, economica e sociale gravissima (stroncò tra l’altro la “Congiura degli eguali” ordita nel 1796 da Gracco Babeuf), cui fece riscontro, in campo esterno, la vittoriosa campagna di Napoleone Bonaparte in Italia, conclusasi con la pace di Campoformio (1797). La situazione di grave incertezza venutasi a creare in concomitanza con la spedizione in Egitto (1796-97) permise poi a Napoleone di compiere il colpo di stato del 18 brumaio (9 novembre 1799) con cui egli si autoproclamò primo console: la costituzione dell’anno VIII (dicembre 1799), fatta approvare attraverso un plebiscito, sancì il nuovo assetto istituzionale conferendo al primo console il controllo totale del potere esecutivo, ciò che fu perfezionato nel 1802 con l’attribuzione del consolato a vita a Napoleone. Il periodo del Consolato fu caratterizzato dalla riorganizzazione dell’amministrazione in senso centralistico con l’impiego di prefetti, sottoprefetti e sindaci, e dalla riforma della giustizia attraverso la riduzione dei magistrati a funzionari sotto il controllo del primo console: vennero meno le conquiste democratiche più avanzate della rivoluzione, ma al tempo stesso si consolidava il superamento del retaggio feudale dell’ancien régime attraverso la creazione di una struttura statale autoritaria di tipo moderno a vantaggio dell’alta borghesia. Al fine di consolidare il potere acquisito Napoleone firmò con papa Pio VII il concordato (1801) ed emanò infine la costituzione dell’anno X (1802), preludio alla formazione del Primo Impero, sancito dalla costituzione dell’anno XII (18 maggio 1804) che, durato fino al 1814, sorse con una “legittimazione” popolare – mediante il plebiscito – e con la consacrazione di Napoleone da parte del pontefice Pio VII (12 dicembre 1804), a testimonianza del particolare carattere del dispotismo napoleonico, volto a recuperare sia l’eredità rivoluzionaria sia la tradizione monarchica. Il Codice civile, promulgato dopo lunga preparazione il 21 marzo 1804, fu l’esito più alto cui giunse Napoleone nella riorganizzazione delle strutture giuridiche della vita sociale, con la difesa delle libertà civili propugnate dalla rivoluzione, della quale si rifiutavano però gli esiti più radicali. Anche nel riorganizzare l’istruzione fu privilegiata la formazione di una moderna classe dirigente, mediante l’istituzione dei licei sotto il controllo statale, mentre la scuola elementare fu affidata soprattutto al clero. In politica estera l’affermazione del dominio napoleonico sull’Europa dipese dall’esito di una serie di vicende militari, che videro opporsi alla Francia le maggiori potenze europee, preoccupate dall’espansionismo francese. Già lo scontro con la seconda coalizione e la vittoria di Marengo (14 giugno 1800) avevano segnato la riconquista francese dell’Italia costringendo l’Austria alla pace di Lunéville (9 febbraio 1801) e l’Inghilterra al trattato di Amiens (25 marzo 1802). Lo scontro con la terza coalizione, nonostante la sconfitta navale di Trafalgar a opera degli inglesi (1805), grazie alla vittoria di Austerlitz permise a Napoleone di giungere nello stesso anno alla pace di Presburgo, che sanciva l’egemonia francese nell’Europa continentale e la riorganizzazione degli stati vassalli del regime napoleonico in base alle trasformazioni istituzionali della Francia da repubblica a impero. La guerra contro la quarta coalizione, guidata dall’Inghilterra, fu contraddistinta dalle vittorie francesi, tanto che con la pace di Schönbrunn dell’ottobre del 1809 l’impero napoleonico raggiunse la sua massima estensione territoriale, momento di apogeo ma anche preludio della prossima fine. Le resistenze al “blocco continentale” contro l’Inghilterra, voluto da Napoleone fin dal 1806, la guerra spagnola e il ridestarsi della coscienza nazionale soprattutto in area tedesca contribuirono a indebolire l’impero che, dopo le nuove coalizioni (sesta e settima) e la tragica campagna contro la Russia del 1812, entrò in una fase di crisi culminata con la sconfitta di Napoleone a Lipsia (18-20 ottobre 1813) e il suo esilio all’isola d’Elba (1814).

Top

13. La Restaurazione

Il ritorno sul trono dei Borbone con Luigi XVIII (1814-24) segnò in Francia l’inizio dell’età della Restaurazione, ispirata ai principi sanciti dal congresso di Vienna e interrotta soltanto temporaneamente dai “Cento giorni” di Napoleone. L’ex imperatore dei francesi, fuggito dall’Elba, era riuscito a riorganizzare l’esercito (marzo 1815) e a reinsediarsi a Parigi, ma il suo tentativo di rifondare l’impero ebbe fine in Belgio nello scontro decisivo di Waterloo contro le truppe del duca di Wellington (18 giugno 1815). Il suo definitivo esilio all’isola di Sant’Elena diede inizio a una fase di relativa stabilità interna. La restaurazione per molti aspetti moderata di Luigi XVIII – preoccupato di reintrodurre l’antico sistema di governo ma di evitare al tempo stesso le più dure espressioni del terrore controrivoluzionario e dell’ancien régime – impedì sino al 1824, l’anno della sua morte, la realizzazione del programma politico reazionario degli ultras (come dimostrò anche lo scioglimento della Chambre introuvable). La Charte octroyée, la nuova carta costituzionale concessa dal re borbonico nel 1814, segnò l’accettazione di un regime costituzionale e l’ammissione alla vita politica, se pur in modo limitato, dei ceti borghesi. Fu in questa fase che Talleyrand poté esprimere il suo talento politico sia al congresso di Vienna sia nella politica interna. La politica reazionaria di Carlo X (1824-30) e del suo ministro Polignac ruppe tuttavia il difficile equilibrio degli anni precedenti. Il suo sostegno agli ultras e il tentativo di stravolgere lo spirito della carta costituzionale con le famose “quattro ordinanze”, che negavano le libertà civili fondamentali e prospettavano l’ipotesi di un colpo di stato sostenuto dalle vecchie classi aristocratiche, provocarono l’insurrezione di Parigi nelle “tre gloriose giornate” del luglio del 1830, così chiamate in riferimento alla “Gloriosa rivoluzione” inglese del 1688. La fuga del sovrano e l’avvento del nuovo monarca Luigi Filippo d’Orléans (1830-48) segnarono l’inizio di una nuova ondata rivoluzionaria in tutt’Europa. La “monarchia di luglio” portò alla ribalta la grande borghesia finanziaria e diede un notevole impulso ai processi di modernizzazione economica e sociale, che a loro volta stimolarono il fiorire di un importante filone di riflessioni sulla riforma della società (socialismo). Il periodo di pace consentì inizialmente lo sviluppo di un processo di democratizzazione in parte sostenuto dallo stesso sovrano, che trasformò la Camera dei Pari da ereditaria in vitalizia, allargò il suffragio e permise il rafforzamento della borghesia. Quando tuttavia iniziarono a essere lesi gli interessi della base censitaria su cui la monarchia si reggeva e Luigi Filippo si decise per il licenziamento dei ministri liberali circondandosi di collaboratori quali Thiers e Guizot, si creò un vasto fronte di opposizione alla monarchia orleanista: dalle forze della classe operaia ai repubblicani, dai socialisti e dai bonapartisti fino ai legittimisti borbonici. Saldandosi al crescente immobilismo della Corona, la grave crisi economica e sociale che investì anche la Francia a partire dal 1846 sfociò nella seconda grande insurrezione parigina dopo la Restaurazione. Il divieto di Luigi Filippo di tenere nella capitale i banchetti organizzati dalle opposizioni per richiedere la riforma elettorale provocò l’insurrezione di Parigi il 22 febbraio del 1848 e la proclamazione, il 24 dello stesso mese, della repubblica, costringendo il sovrano alla fuga.

Top

14. Dalla Seconda Repubblica al Secondo Impero

La breve stagione repubblicana e democratica iniziata nel febbraio del 1848 – e segnata, tra le altre cose, dall’esperienza fallimentare degli ateliers nationaux ispirati da Louis Blanc e dalla reintroduzione del suffragio universale – si concluse, anche per l’impossibilità di un accordo politico fra i democratici e i moderati, con la repressione da parte del generale Cavaignac di una grande manifestazione operaia nel giugno del 1848, con il varo di una nuova costituzione repubblicana nel novembre e con l’elezione alla presidenza della repubblica di Luigi Bonaparte il 10 dicembre dello stesso anno. Nel maggio successivo l’Assemblea legislativa sancì la vittoria di orleanisti, legittimisti e cattolici riuniti nel Partito dell’ordine, promotore della restrizione del suffragio e delle libertà civili. Nel maggio 1850 l’introduzione di una nuova legge elettorale escluse dal voto le classi meno abbienti (in specie operai). Fu allora che Luigi Bonaparte – il quale secondo il dettato della costituzione non avrebbe potuto ricandidarsi per la seconda volta alla presidenza della repubblica – facendosi paladino degli interessi popolari, si scontrò con il parlamento sino a farlo occupare dai soldati il 2 dicembre del 1851. Rivolgendosi poi direttamente al popolo con un plebiscito (bonapartismo), il 21 dicembre dello stesso anno egli ottenne la legittimazione del colpo di stato e l’autorizzazione a redigere una nuova costituzione che, emanata il 14 gennaio 1852, conferì tutti i poteri al presidente eletto per dieci anni. Il 20 novembre 1852, con un nuovo plebiscito Luigi Bonaparte fece infine proclamare il Secondo Impero, che avrebbe dominato la storia francese ed europea fino al 1870. Il controllo della stampa, l’appoggio diretto del clero e l’introduzione di una serie di leggi repressive caratterizzarono il cosiddetto “impero autoritario”, vale a dire la prima fase del regime di Napoleone III (1852-58). Negli anni successivi, tuttavia, le basi su cui poggiava il suo potere si fecero sempre più fragili: la partecipazione della Francia alla guerra sabauda contro l’Austria (1859) gli alienò il favore dei clericali; le sue iniziative liberiste non furono approvate dagli industriali; nello stesso tempo, le opposizioni cominciarono a coagulare un consenso sempre più vasto. Napoleone III fu quindi costretto a orientare la sua politica interna in un senso più apertamente liberale sino all’aprile 1870, quando il popolo venne chiamato a ratificare una nuova costituzione che attribuiva maggiori poteri al parlamento. Sul piano internazionale la crescente tensione con la Prussia di Bismarck, ormai proiettata verso un radicale mutamento dei rapporti di forza nell’Europa continentale, si tradusse dopo varie schermaglie nella guerra franco-prussiana, che si concluse con la disfatta dell’esercito francese, con la caduta dello stesso Napoleone III nelle mani nemiche e con il crollo del Secondo Impero (1870).

Top

15. La Terza Repubblica

Il 4 settembre nella Parigi assediata dall’esercito prussiano venne proclamata la repubblica e formato un governo di difesa nazionale con a capo il generale Trochu, sebbene animatore della resistenza fosse Léon Gambetta. La capitale fu costretta a cedere il 28 gennaio 1871 e il paese si vide infliggere, col trattato di Francoforte del 10 maggio 1871, quelle durissime condizioni di pace (tra queste fu decisiva la cessione alla Germania dell’Alsazia-Lorena) che avrebbero animato per anni, fino alla prima guerra mondiale, la volontà di una prossima rivincita della Francia sull’avversario tedesco (revanscismo). Nel frattempo, sul fronte interno, dopo che le elezioni del febbraio 1871 per l’Assemblea nazionale avevano dato una forte maggioranza ai monarchici, a Parigi una grande insurrezione popolare proclamò nel marzo la Comune, ispirandosi agli eventi del 1793. Sostenuta dalla classe operaia e dalla piccola borghesia ma profondamente divisa per conflitti ideologici e prospettive politiche fra proudhoniani, neogiacobini, blanquisti e socialisti, la Comune di Parigi definì un nuovo modello di apparato statale e amministrativo attraverso radicali riforme che unificarono il potere esecutivo e legislativo, sottoposero al controllo popolare la giustizia, resero i funzionari eleggibili e destituibili. Rimasta fondamentalmente isolata al solo circondario di Parigi, la Comune fu smantellata dopo soli tre mesi di vita dal generale Mac-Mahon nel corso della “settimana di sangue” (21-22 maggio 1871). Thiers, eletto presidente nell’agosto del 1871, diede allora inizio alla riorganizzazione dell’esercito sino a quando, dimessosi nel 1873, la presidenza venne affidata a Mac-Mahon, di ispirazione monarchica e fautore della restaurazione borbonica. La svolta reazionaria provocò tuttavia la formazione di un ampio fronte repubblicano, che vinse le elezioni del 1875 e poté quindi ispirare la nuova costituzione. Essa istituiva un sistema bicamerale – con una Camera dei deputati e un Senato dotati del potere legislativo ed eletti ogni quattro anni – e affidava il potere esecutivo a un presidente della repubblica eletto ogni sette anni dalle Camere: una soluzione di compromesso fra una repubblica parlamentare e una di tipo presidenziale. Nonostante i tentativi conservatori dei monarchici messi in atto da Mac-Mahon le elezioni del 1877 furono vinte dai repubblicani, che nel 1879 lo costrinsero alle dimissioni: alla presidenza gli succedette Jules Grévy. Furono allora introdotte, dal principio degli anni Ottanta, la riforma dell’istruzione, la laicizzazione dello stato e un ampliamento delle libertà civili. Seguì dal 1885 una fase di forte instabilità parlamentare che fu caratterizzata dalla ripresa della destra conservatrice, specialmente a opera del generale Georges Boulanger, il quale, dotato di grande popolarità e postosi a capo di uno schieramento eterogeneo che premeva per una revisione in senso presidenziale e plebiscitario della costituzione, fu poi incapace di realizzare il colpo di stato a cui le destre lo spingevano e, accusato di tradimento, nel 1889 fuggì dal paese. Dopo il 1889 la maggioranza repubblicana impresse alla politica interna un carattere moderato, ma crebbe nel paese un forte sentimento nazionalistico, misto a fenomeni di razzismo e antisemitismo, che fu all’origine dell’affaire Dreyfus, Alfred (1894-99). Gli ultimi tre decenni dell’Ottocento avevano frattanto visto un progressivo rallentamento del processo di industrializzazione, tanto che a partire dal 1881 fu introdotta una legislazione protezionistica; nel contempo si ebbe un relativo rafforzamento del movimento operaio francese in cui si fecero strada, oltre al pensiero socialista, le idee del sindacalismo rivoluzionario. A partire dagli anni Ottanta la Francia intraprese, su pressione del grande capitale, un’intensa politica coloniale che si diresse in Africa contro l’Algeria, la Tunisia, il Gabon, il Senegal, la Costa d’Avorio e il Madagascar; e in Asia contro la Cina, la Cambogia, il regno dell’Annam (l’attuale Vietnam) e il Laos. Il nuovo secolo, apertosi con la reazione dei repubblicani alla minaccia conservatrice, vide la vittoria di questi alle elezioni del 1902. Con Émile Combes, poi, assunse tratti radicali la politica anticlericale del governo, specie in ambito educativo, sino alla totale separazione dello Stato dalla Chiesa sancita nel 1905. Dal 1906 al 1909 la scena politica fu dominata da Georges Clemenceau e in seguito, fino al 1911, da Aristide Briand, sotto il cui governo si fece sentire l’accresciuto potere della classe operaia che ricorse per la prima volta allo sciopero generale. Legata all’Inghilterra con l’entente cordiale del 1904 – poi estesa alla Russia – in connessione con l’aggravarsi delle tensioni internazionali in seguito alle due crisi marocchine (1905-1906 e 1911) e alla vigilia della prima guerra mondiale, la Francia conobbe un forte sviluppo delle tendenze militaristiche, che coincise all’interno con una svolta in senso moderato, di cui si fece interprete Raymond Poincaré, eletto presidente della repubblica nel 1913. Le ultime elezioni prima della guerra diedero una forte maggioranza a radicali e socialisti, che formarono il governo presieduto dal socialista indipendente Viviani.

Top

16. La prima guerra mondiale e il dopoguerra

La prima guerra mondiale ebbe inizio per la Francia, alleata con la Gran Bretagna e con la Russia nella Triplice Intesa, con la dichiarazione di guerra da parte della Germania il 3 agosto del 1914. L’avanzata dell’esercito tedesco fu bloccata sulla Marna il 6-12 settembre ed ebbe così inizio una lunga guerra di trincea che all’epoca delle offensive tedesche di Verdun, nel 1916, gettò la nazione in una crisi profonda. Dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, che compensò nel 1917 il ritiro dal conflitto della Russia rivoluzionaria, sotto la guida politica di Clemenceau la Francia, grazie al fondamentale sostegno degli alleati, riuscì progressivamente a rovesciare le sorti del conflitto sul fronte occidentale scatenando con il generale Foch, nel luglio del 1918, una controffensiva generale che costrinse poi la Germania alla resa (11 novembre 1918). Alla conferenza di pace di Parigi (1919) – che fu presieduta da Clemenceau – la Francia adottò una linea intransigente, finalizzata all’annientamento non solo militare ma anche economico dell’antico rivale tedesco. In questo modo, essa tenne aperto un potenziale conflitto che avrebbe continuato a condizionare la storia delle relazioni franco-tedesche, e più in generale della politica internazionale, fino alla seconda guerra mondiale e che ebbe uno dei suoi momenti più drammatici nell’occupazione della Ruhr del 1923. La Francia uscì dal conflitto con un tragico bilancio in vite umane, gravissime distruzioni e una profonda crisi economica dovuta ai problemi della riconversione industriale. Nonostante l’iniziale successo dei conservatori del blocco nazionale guidato da Clemenceau alle elezioni del novembre del 1919 e la formazione della cosiddetta Chambre bleu-horizon, il paese riuscì a evitare la crisi istituzionale. Si ebbe una forte crescita dei sindacati che, dopo la caduta dei salari, aprirono una stagione di lotte ottenendo il riconoscimento delle otto ore lavorative e dei contratti collettivi; ma il governo presieduto da Clemenceau e, dal gennaio 1920, da Alexandre Millerand intervenne sempre più duramente contro il movimento operaio, con l’effetto di favorirne le divisioni interne, culminate nella scissione politica e sindacale compiutasi nel dicembre del 1920 con la nascita del Partito comunista. Dopo i governi Briand (1921-22) e Poincaré (1922-24) che proseguirono nella politica conservatrice (ne furono espressione il riaccostamento alla chiesa e i progetti di riforma istituzionale in senso presidenziale), la formazione di un cartello delle sinistre fra radicali e socialisti portò nelle elezioni del 1924 alla vittoria di questi ultimi e alla nomina a capo del governo del radicale Edouard Herriot, fautore del ritorno al laicismo ma osteggiato dal grande capitale. Dopo un periodo di instabilità politica il governo di unione nazionale, formato nel luglio 1926 da Poincaré con il sostegno della grande borghesia, ottenne un miglioramento della situazione economica grazie anche alla stabilizzazione del franco e agli effetti dello “spirito di Locarno”, e, più in generale, del clima di distensione internazionale instauratosi a partire dal 1925. Dopo le dimissioni di Poincaré nel 1929 una nuova fase di instabilità dominò la vita francese con il succedersi di governi incapaci di far fronte agli effetti, pur limitati rispetto ad altre nazioni, della grande depressione economica mondiale. Anche dopo la vittoria dei radicali alle elezioni del 1932 non diminuì il peso della destra filofascista, culminato nella marcia sul parlamento del 6 febbraio 1934. Il fallito colpo di stato portò tuttavia alla formazione di un fronte popolare, che unì in unico cartello socialisti e radicali di sinistra contro il pericolo totalitario. Alle elezioni dell’aprile-maggio 1936 il Fronte conseguì una grande vittoria e formò un governo guidato da Léon Blum che, rimasto in carica solo un anno, non poté peraltro realizzare i suoi progetti di riforma sociale (sostenuti da un forte movimento di massa con scioperi e occupazioni di fabbriche) per il boicottaggio della borghesia industriale e finanziaria (il cosiddetto “sciopero del capitale”), che era stata costretta ad ampie concessioni sul terreno sindacale. Le gravi difficoltà sul piano della politica interna indussero il governo Blum a rinunciare all’intervento diretto nella guerra civile spagnola, costringendolo infine alle dimissioni nel giugno 1937. Il governo Chautemps e un secondo tentativo, fallito, di Blum precedettero la formazione del governo Daladier nell’aprile 1938, con cui la Francia, dopo gli accordi di Monaco e il sacrificio della Cecoslovacchia, nella speranza, poi rivelatasi illusoria, di contenere la potenza espansiva della Germania di Hitler (1938) entrò nella seconda guerra mondiale.

Top

17. La seconda guerra mondiale

Fra il 3 settembre 1939, giorno della dichiarazione di guerra della Francia e dell’Inghilterra alla Germania nazista, e il maggio 1940, la Francia insieme all’alleato inglese non assunse alcuna iniziativa di rilievo per contenere le offensive di Hitler in Polonia, in Danimarca e in Norvegia. Ciò stava a indicare che la nazione non era pronta al conflitto e si illudeva che le mire espansionistiche della Germania si sarebbero esaurite. L’impreparazione alla guerra di movimento, l’errata fiducia nelle strutture difensive poste lungo i confini (linea Maginot), l’effetto sorpresa dell’offensiva tedesca iniziata il 10 maggio 1940 attraverso i Paesi Bassi e il Belgio determinarono in poco più di un mese la caduta della Francia, alla quale il 10 giugno anche l’Italia dichiarò guerra. Pur avendo salvato gran parte delle truppe sconfitte attraverso l’imbarco a Dunkerque per l’Inghilterra, al governo Reynaud (succeduto a quello Daladier nel marzo del 1940) rimase solo l’alternativa di trasferirsi in Nord Africa o firmare l’armistizio. Il maresciallo Pétain, succeduto a Reynaud il 16 giugno, firmò il 22 giugno l’armistizio con la Germania e il 24 con l’Italia. La Francia, occupata per tre quinti, rimase formalmente libera solo nella zona centro-meridionale di Vichy (a cui venne lasciata la gestione dell’impero coloniale e la flotta in disarmo) dove sin dal luglio l’Assemblea nazionale conferì a Pétain tutti i poteri e l’incarico di elaborare una nuova costituzione: finiva così la Terza Repubblica e aveva inizio a Vichy un regime di collaborazionismo, che ebbe in Pierre Laval uno dei suoi esponenti più significativi. Nello stesso tempo a Londra si organizzarono le future forze di liberazione sotto la direzione di Charles de Gaulle. Durata dal luglio 1940 al maggio 1944 la repubblica di Vichy perse anche dal punto di vista formale la propria indipendenza nel novembre 1942, quando fu occupata dalle truppe tedesche. Nel maggio 1943 si costituì il Consiglio nazionale della resistenza. La formazione di un’armata della “Francia Libera” con le truppe stanziate nelle colonie e il riconoscimento da parte degli Alleati di un Comitato francese di liberazione (costituitosi ad Algeri nel giugno 1943) precedettero le operazioni militari, che ebbero inizio con lo sbarco in Normandia del 5-6 giugno 1944 e furono portate a termine nel settembre. Tra il 18 e il 25 agosto Parigi era stata liberata da de Gaulle, a capo del Governo provvisorio della repubblica francese dal 3 giugno 1944.

Top

18. La Quarta Repubblica

L’Assemblea Costituente insediatasi dopo le elezioni politiche del 21 ottobre 1945 affidò a de Gaulle l’incarico di formare un governo provvisorio, che rimanesse in carica nel periodo necessario all’elaborazione di una nuova costituzione. Il generale, tuttavia, per rafforzare il suo progetto di repubblica presidenziale rassegnò le dimissioni il 20 gennaio 1946, fiducioso di essere richiamato al governo. Il referendum che avrebbe dovuto pronunciarsi sulla nuova costituzione incentrata su una camera unica bocciò il progetto, determinando la necessità di una nuova costituente di ispirazione moderata che, eletta nel giugno del 1946, riuscì poi a far approvare un testo che limitava fortemente il potere dell’esecutivo. Il primo presidente, il socialista Vincent Auriol, designò al governo dapprima Georges Bidault, del partito di maggioranza relativa, il Movimento repubblicano popolare (MRP), in seguito Léon Blum, che guidò la Francia sino al gennaio 1947. Nel clima della guerra fredda il suo successore Paul Ramadier estromise nel maggio 1947 i comunisti dal governo. Nel frattempo de Gaulle, contrario a un regime che riteneva strutturalmente debole, fondò il 7 aprile 1947 il Rassemblement du peuple français (RPF). Negli anni successivi il paese continuò a essere profondamente segnato da ripetute crisi ministeriali (sei governi fra il 1947 e il 1950), dall’indebolimento delle sinistre (evidente nelle elezioni del 1951) e da una forte inflazione (nonostante la ricostruzione fosse stata in misura notevole sostenuta dal piano Marshall). Lo spostamento a destra del paese – che nel 1949 aderì alla NATO e nel 1951 alla CECA – si rispecchiò nella formazione del governo di Antoine Pinay, che riuscì a conseguire la stabilizzazione monetaria intaccando i salari. L’incerto atteggiamento assunto in politica estera nei confronti delle colonie asiatiche portò alla disfatta militare di Dien Bien Phu (1954) per opera del generale nordvietnamita Giap. Il nuovo governo di Pierre Mendès-France risolse la questione con il ritiro dall’Indocina e con il riconoscimento dell’indipendenza del Vietnam, del Laos e della Cambogia alla conferenza di Ginevra (1954), ponendo così fine alla guerra d’Indocina, iniziata nel 1946. In Africa, nel 1955 il governo di Edgar Faure concesse l’autonomia alla Tunisia e l’indipendenza al Marocco; nei confronti dell’Algeria invece, dove fin dal 1954 era scoppiata la guerra di liberazione, il governo di Guy Mollet scelse la strada dell’escalation militare. Per proteggere gli interessi franco-britannici in Egitto, questi organizzò una spedizione militare a Suez (ottobre-dicembre 1956), a cui risposero sovietici e statunitensi costringendo le truppe al ritiro con gravissimo scacco del nazionalismo francese. La crisi istituzionale nel paese – che nel 1957 aderì alla CEE – suscitò un profondo malcontento tra le élites militari di stanza in Algeria, le quali attuarono il 13 maggio 1958 un colpo di stato ad Algeri minacciando di portare la guerra civile in Francia. Di fronte a questi sviluppi il presidente del consiglio, Pierre Pfimlin, diede le dimissioni. Fu allora che il presidente della repubblica Coty nominò de Gaulle capo del governo attribuendogli i pieni poteri. Il 3 giugno il generale fu incaricato di elaborare una nuova costituzione che avrebbe dato vita alla Quinta Repubblica.

Top

19. La Quinta Repubblica

Il referendum per l’approvazione della costituzione della Quinta Repubblica (28 settembre 1958) segnò il trionfo di de Gaulle e del suo progetto di rafforzare i poteri dell’esecutivo presidenziale. Nel novembre dello stesso anno il nuovo partito gollista, l’Union pour la Nouvelle République, ottenne il primo posto nelle consultazioni politiche; lo stesso de Gaulle nel dicembre fu eletto presidente della repubblica. Dal gennaio 1959 divenne primo ministro Michel Debré, che affrontò la crisi economica con drastiche misure di austerità; ma il punto nodale rimaneva la questione algerina, che de Gaulle risolse nel 1962 concedendo l’indipendenza alla nazione africana. Nell’aprile dello stesso anno de Gaulle scelse come primo ministro Georges Pompidou e, perseguendo il progetto di un ulteriore rafforzamento dei poteri presidenziali, impose un referendum per l’elezione diretta del presidente, che lo riconfermò nell’ottobre.


Dopo il 1963 iniziarono a restringersi i margini del consenso al partito gollista, come risultò dalle proteste operaie (dovute al peso dell’inflazione sui salari e alle misure deflazionistiche adottate dal ministro delle Finanze Giscard d’Estaing) e dalle elezioni presidenziali del 1965 che, nonostante la riconferma di de Gaulle, videro la sinistra unita intorno alla candidatura di François Mitterrand. Al malcontento operaio si aggiunse poi, nel maggio del 1968, la contestazione studentesca, a cui il generale rispose con concessioni salariali agli operai e con lo scioglimento dell’Assemblea nazionale. Nelle elezioni del giugno il partito gollista conseguì ancora una notevole vittoria: il nuovo primo ministro Couve de Murville attuò allora la riforma dell’istruzione universitaria e avviò forme di partecipazione industriale. Tuttavia la proposta di un referendum per la riorganizzazione dell’assetto regionale provocò la coesione delle forze ostili al gollismo che sconfissero il vecchio generale, il quale diede immediatamente le dimissioni e si ritirò a vita privata. In politica estera de Gaulle si sforzò di ridare alla Francia un ruolo più autonomo rispetto alla volontà delle due superpotenze; al tempo stesso, e a questo scopo, perseguì il progetto del rafforzamento di un’Europa posta sotto l’egemonia francese. Dopo l’uscita di scena del generale, il nuovo frazionamento delle opposizioni permise al candidato gollista Pompidou di essere eletto presidente il 15 giugno 1969. Esponente di punta del neogollismo, Pompidou governò con l’aiuto del primo ministro Jacques Chaban-Delmas che favorì i processi di concentrazione dell’industria (grazie anche all’opera di Giscard d’Estaing alle Finanze) propugnando al tempo stesso la difesa dei minimi salariali. Ciò gli valse l’accusa di essere troppo vicino ai progressisti e provocò la sua sostituzione nel luglio 1972 con Pierre Messmer, rimasto in carica fino al 1974. Nel contempo si rafforzò il Partito socialista guidato, dal 1971, da Mitterrand e unito nelle elezioni del 1973 da un “programma comune” con i comunisti.


Nonostante la vittoria del blocco conservatore di Pompidou, alle elezioni seguì una fase politica assai incerta che si concluse con la morte del presidente il 2 aprile 1974, in un momento di grave recessione economica dovuta alla crisi petrolifera. Il nuovo presidente, Giscard d’Estaing, leader dei repubblicani indipendenti, per recuperare voti a sinistra si impegnò sul piano dei diritti civili con l’abbassamento della maggiore età a 18 anni, la facilitazione del divorzio e la legalizzazione dell’aborto. Le elezioni amministrative del 1976 segnarono tuttavia il fallimento della sua linea politica e la rottura con il leader gollista Jacques Chirac, che costituì il Rassemblement pour la République (RPR) in opposizione ai giscardiani riuniti nell’Union pour la démocratie française (UDF). Nonostante i contrasti le elezioni del 1978 diedero la vittoria a queste due formazioni, grazie anche alla nuova frattura fra socialisti e comunisti: primo ministro fu confermato Raymond Barre, che rimase in carica dal 1977 fino al 1981 e fu fautore di una politica liberistica. La crescita della disoccupazione e il malcontento popolare – oltre all’unione della sinistra – favorì l’elezione nel 1981 di Mitterrand, primo presidente socialista in Francia. Dopo che le elezioni sancirono la vittoria socialista anche in parlamento, Mitterrand nominò Pierre Mauroy primo ministro di un governo cui parteciparono anche i comunisti. Il rafforzamento dell’interventismo statale in opposizione alle tendenze neoliberiste internazionali, la lotta alla disoccupazione, la nazionalizzazione delle imprese, specie nel settore bancario e industriale, improntarono la politica francese sino al 1984, quando il Partito comunista tolse il suo appoggio al governo, che aveva frattanto avviato una politica di austerità per ovviare al disavanzo della bilancia commerciale.


Il nuovo primo ministro, Laurent Fabius, operò in una fase politica contrastata, al tempo stesso di ripresa economica e di acute tensioni sociali, sino alla sconfitta elettorale dei socialisti alle elezioni politiche del marzo 1986. Fu allora che, con la nomina a primo ministro di Chirac dopo la vittoria di UDF e RPD, ebbe inizio il periodo della “coabitazione” fra un presidente socialista e un primo ministro gollista. Chirac avviò una politica in armonia con il thatcherismo e il reaganismo, improntata ai valori dell’individualismo e del liberismo, mentre nel paese si assisteva a una recrudescenza del terrorismo per opera di Action Directe. Alle elezioni presidenziali del 1988 Mitterrand batté Chirac: dopo lo scioglimento dell’Assemblea le consultazioni politiche sancirono una netta vittoria dei socialisti, che espressero allora il nuovo primo ministro, Michel Rocard. In questa fase Mitterrand si contraddistinse in modo particolare in politica estera per il forte sostegno dato al processo di unificazione europea e alla perestrojka gorbacëviana. Dopo la caduta del governo Rocard nel 1991 per la prima volta in Francia venne nominata primo ministro una donna, Edith Cresson. Il governo socialista, che condusse una politica economica moderata in continuità di fatto con quella di Chirac, si trovò a dover fronteggiare un’alta disoccupazione e il crescente consenso dato al Fronte nazionale di Jean-Marie Le Pen, xenofobo e ostile agli immigrati. I socialisti subirono una severa sconfitta alle elezioni del 1993, così che si formò un governo di centrodestra presieduto da Éduard Balladur. Nel 1995 le elezioni per la presidenza della Repubblica videro Chirac avere la meglio sul candidato socialista Lionel Jospin. Dopo 14 anni ebbe in tal modo fine l’era Mitterrand, che morì nel 1996. Un avvenimento importante fu l’apertura nel 1994 di un canale che, correndo sotto la Manica, univa la Francia all’Inghilterra. Dopo la sua nomina a presidente, Chirac affidò il governo ad Alain Juppé, che, pur contando su una sicura maggioranza parlamentare, non conseguì soddisfacenti risultati economici. Nel 1995-96 un’ondata di sanguinosi attacchi colpì Parigi e altre località a opera del Gruppo islamico armato, intenzionato a far cambiare al governo francese la sua politica di appoggio al governo militare algerino in lotta contro i fondamentalisti musulmani. Nel 1996 un attentato fu messo in atto a Bordeaux da parte presumibilmente del Fronte corso di liberazione nazionale. I propositi del governo di ridurre fortemente le spese per il welfare, di procedere a misure di austerità per rispondere ai criteri di bilancio stabiliti dall’Unione Europea e di riformare il sistema dei trasporti provocarono nel 1995-96 un’ondata di scioperi. Nuove agitazioni furono causate nel 1997 dall’approvazione di leggi restrittive delle quote di ingresso degli immigrati.


Nel 1997 le elezioni volute da Chirac al fine di ottenere dal popolo il consenso alle riforme economiche necessarie per l’adesione della Francia alla moneta unica europea, svoltesi mentre la disoccupazione aveva superato il 12%, diedero una netta vittoria al Partito socialista, che formò con i comunisti un governo guidato da Jospin. Il governo alzò i minimi salariali e fece introdurre, nonostante le resistenze dell’opposizione e degli industriali, la settimana lavorativa di 35 ore, con l’obiettivo di favorire la creazione di nuovi posti di lavoro. La politica di Jospin ebbe positivi effetti sull’economia, così da porre la Francia in condizione di rispondere ai presupposti della moneta unica europea. Le elezioni regionali del 1998 furono un successo per la coalizione di governo. Quando divenne pubblico che cinque candidati conservatori avevano stretto patti con il partito xenofobo di Le Pen, dopo vaste proteste, Chirac impose loro le dimissioni. Quando gli stati membri dell’Unione Europea convennero di affidare all’olandese Wim F. Duisenberg la guida della Banca Centrale Europea per otto anni, Chirac, che aveva invano cercato di far accettare la nomina di un francese, si piegò solo quando ebbe l’assicurazione che l’olandese si sarebbe dimesso dopo quattro anni lasciando il posto a un suo candidato. Le elezioni europee del 1999 segnarono un ulteriore successo dei socialisti. La Francia partecipò attivamente alla guerra condotta dalla Nato contro la Iugoslavia nel 1999. Nonostante i buoni risultati della sua politica economica e sociale, al primo turno delle elezioni presidenziali dell’aprile-maggio 2002, Jospin fu sconfitto dal leader del Fronte nazionale J.-M Le Pen che andò al ballottaggio con il presidente uscente Jacques Chirac. Al secondo turno, anche i voti della sinistra confluirono su Chirac, che ottenne così un consenso plebiscitario. Sull’onda di tale successo, Chirac costituì un raggruppamento politico di centrodestra (Union pour la Majorité Presidentielle poi rinominato Union pour un Mouvement Populaire, UMP), che si affermò largamente alle politiche del giugno successivo.


Il primo ministro socialista Lionel Jospin fu quindi sostituito dal gollista Jean-Pierre Raffarin, che rimase in carica sino al 2005. Sul piano internazionale, il secondo mandato presidenziale di Chirac fu segnato a fondo dalla contrapposizione con gli Stati Uniti in relazione all’invasione dell’Iraq del 2003 e dal risultato negativo del referendum indetto nel 2005 per l’approvazione della costituzione europea. All’indomani di quella votazione, Raffarin fu sostituito da Dominique de Villepin, al quale di lì a poco toccò affrontare prima l’ondata di violenti proteste scatenata dai giovani immigrati di origine nordafricana e poi le dure contestazioni di massa organizzate dai sindacati contro l’introduzione di misure volte ad agevolare la flessibilità del mercato del lavoro. Costretto a ritirare tale norma, nel 2006 Chirac annunciò, a fronte della propria crescente impopolarità, di non volersi ricandidare per le successive presidenziali, nelle quali l’ex ministro degli interni e candidato dell’UMP Nicolas Sarkozy si impose nettamente sulla socialista Ségolère Royal.


Nonostante gli sforzi tesi a ridurre la disoccupazione e ridurre la spesa sociale, la situazione economica francese restò incerta, sicché negli anni successivi l’UMP di Sarkozy andò incontro a un vistoso calo di consensi, che si tradusse nella dura sconfitta elettorale subita alle regionali del 2010. Nello stesso anno il paese fu attraversato da una nuova ondata di scioperi di massa cui si aggiunsero le dure critiche da parte dell’UE per i severi provvedimenti intrapresi dal governo nei confronti delle comunità di rom residenti nei campi abusivi.
Sul piano del dibattito interno ebbe vasta risonanza il voto del senato con cui, nel settembre 2010, fu proibito l’uso del velo nei luoghi pubblici: benché non facesse esplicito riferimento al velo islamico, il provvedimento fu percepito dall’opinione pubblica come una misura connotata in senso anti-islamico.
A fronte delle difficoltà interne, nel 2011 Sarkozy si impegnò a rafforzare il peso della Francia sul piano internazionale, sia svolgendo un ruolo di primo piano nel corso della crisi libica, sia rivendicando apertamente la propria leadership a livello europeo, in occasione dei numerosi incontri bilaterali franco-tedeschi volti a individuare adeguati strumenti di superamento della crisi finanziaria globale. Il sostanziale insuccesso sul piano economico dell’asse con Berlino fu all’origine sia della conquista della maggioranza al Senato da parte dei socialisti, sia della sua sconfitta alle elezioni presidenziali del 2012, che segnarono l’affermazione di François Hollande. Il buon risultato elettorale dei socialisti fu confermato poco dopo, con la conquista della maggioranza dei seggi anche all’Assemblea nazionale. Il nuovo presidente si segnalò sin da subito per l’accento posto non più sulle politiche di rigore, bensì sulle politiche di stimolo della crescita.

Top

100. TABELLA: Presidenti francesi

Presidenti della Terza Repubblica
Adolphe Thiers 1871-1873
Marshal MacMahon 1873-1879
Jules Grévy 1879-1887
Sadi Carnot 1887-1894
Jean Casimir-Périer 1894-1895
François Félix Faure 1895-1899
Emile Loubet 1899-1906
Armand Fallières 1906-1913
Raymond Poincaré 1913-1920
Paul Deschanel 1920
Alexandre Millerand 1920-1924
Gaston Doumergue 1924-1931
Paul Doumer 1931-1932
Albert Lebrun 1932-1940
Presidenti della Quarta Repubblica
Vincent Auriol 1947-1954
René Coty 1954-1959
Presidenti della Quinta Repubblica
Charles de Gaulle 1958-1969
Georges Pompidou 1969-1974
Giscard d’Estaing 1974-1981
François Mitterrand 1981-1995
Jacques Chirac 1995-2007
Nicolas Sarkozy 2007-2012

François Hollande 2012-

Top