America

Uno dei cinque continenti, così chiamato dal geografo tedesco Martin Waldseemüller intorno al 1520 in onore di Amerigo Vespucci.

  1. L’America prima della scoperta
  2. La scoperta e la conquista
  3. L’indipendenza
1. L’America prima della scoperta

Popolata da ondate migratorie giunte dall’Asia attraverso lo stretto di Bering durante l’ultima glaciazione (tra i 35.000 e i 20.000 anni fa), l’America vide lo sviluppo di culture sparse e molto diverse a seconda delle condizioni ambientali. Le culture più antiche databili con certezza risalgono al X-VIII millennio a.C. e si dividono, nel Nord America, in culture dei grandi cacciatori e culture del deserto; l’agricoltura comparve nel Messico alla fine dell’VIII millennio, ma divenne la principale fonte di sussistenza all’inizio del II millennio. All’arrivo degli europei la popolazione era ancora molto sparsa e composta in maggioranza da primitive tribù di indiani dedite alla caccia o all’agricoltura. Soltanto in due zone, l’America centrale e la regione andina centro-settentrionale, si svilupparono (a partire dal I millennio a.C., e fino al XIV secolo d.C.) delle grandi civiltà, tra cui gli incas in Perú, i chibcha in Colombia, i toltechi, gli zapotechi, gli aztechi, gli olmechi e i maya in Messico (civiltà precolombiane). Malgrado l’elevato sviluppo della religione, delle scienze e arti e delle strutture politiche, il basso livello dell’agricoltura e della metallurgia e l’ignoranza di alcuni elementi fondamentali della civiltà europea (la ruota, la volta, l’uso degli animali da sella e da tiro) resero queste civiltà inermi di fronte alla penetrazione dei conquistatori europei, che ne provocarono la rovina quasi totale.

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2. La scoperta e la conquista

Benché sia ormai certo che intorno al 1000 l’America settentrionale fu raggiunta da navigatori scandinavi, è solo con i viaggi di Cristoforo Colombo (1492-1502) che il continente si aprì alla scoperta da parte europea. Dopo Colombo, i principali viaggiatori furono Giovanni e Sebastiano Caboto (Nuova Scozia e Nuova Inghilterra, 1498), Amerigo Vespucci (Brasile, 1499 e 1501), Pedro Cabral (Brasile, 1500), Vasco Núñez de Balboa (istmo di Panamá e Oceano Pacifico, 1513) e Ferdinando Magellano (Terra del Fuoco, 1519). Con il trattato di Tordesillas (1494) i territori americani furono spartiti tra Spagna e Portogallo, che divennero le prime e più grandi potenze coloniali nel continente, a spese soprattutto dei regni indigeni (conquista degli imperi azteco e maya a opera di Hernán Cortés, 1519-21; conquista dell’impero inca a opera di Francisco Pizarro, 1532-36). Soprattutto la Spagna, mossa da ideali di grandezza imperiale, dal desiderio di sfruttare le grandi ricchezze del Nuovo Mondo e dallo spirito missionario di conversione dei pagani al cristianesimo, creò un grande impero organizzato e centralizzato, che se da un lato favorì la diffusione della lingua, della cultura e della religione, dall’altro asservì buona parte delle popolazioni indigene al lavoro coatto nelle terre dei coloni e nelle miniere di oro e argento del Perú e del Messico, favorendo anche la tratta degli schiavi africani (schiavitù). Lo sviluppo dei rapporti economici tra America ed Europa e i conseguenti scambi di prodotti causarono numerosi mutamenti nei due continenti. Nel XVII secolo furono fondate dai francesi colonie nel Canada e nelle Antille, e tentativi furono fatti anche da svedesi e olandesi (che nel 1625 fondarono Nuova Amsterdam, divenuta nel 1664 New York). Ma il fattore decisivo nella colonizzazione dell’America del Nord fu costituito dall’emigrazione inglese, che tra il 1629 e il 1733 portò alla fondazione di tredici colonie abitate da dissidenti politici e religiosi, che alla fervente fede democratica univano un’altrettanto fervente e austera religiosità e una spiccata etica del lavoro. Tra il 1689 e il 1763 Francia e Inghilterra si affrontarono per la supremazia nel Nord America; la vittoria inglese comportò la totale esclusione dal continente della Francia, che conservò soltanto qualche isola dei Caraibi e la Louisiana, che passò agli USA nel 1803.

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3. L’indipendenza

I costi della guerra franco-inglese spinsero l’Inghilterra ad aumentare la pressione fiscale e doganale sulle sue colonie americane, la cui protesta diede origine alla rivoluzione che costituì l’atto di nascita degli Stati Uniti (1773-83). Questo evento ebbe immediate ripercussioni sulle colonie spagnole, che, oppresse dal centralismo e dal mercantilismo della metropoli, aspiravano anch’esse all’emancipazione. La cacciata dei Borbone dal trono di Spagna a opera di Napoleone (1808) diede inizio alla rivolta, che durò con varie fasi fino al 1825 e vide emergere alcuni abili capi militari e politici, come Simón Bolìvar in Venezuela e Colombia, José de San Martin in Argentina, Cile e Perú, Augustin de Itúrbide in Messico; nel 1822 il Portogallo concesse pacificamente l’indipendenza al Brasile. Nel corso dell’Ottocento, mentre con la continua espansione nel Nord America gli Stati Uniti ponevano le basi della loro futura potenza politica ed economica, l’America centrale e meridionale conobbe lunghi periodi di instabilità politica causati dall’inesperienza delle nuove classi dirigenti di fronte ai problemi economici e sociali ereditati dalla dominazione coloniale. Grazie al ruolo avuto nelle guerre antispagnole (e in diverse guerre intestine), l’esercito divenne l’unico fattore di stabilità e dal suo seno emersero capi miranti unicamente al potere personale (caudillismo). Dittatura militare e presidenzialismo rimasero, fino a ben oltre la metà del Novecento, i tratti dominanti dei sistemi politici del Centro e del Sud America, spesso sostenuti dagli Stati Uniti per evitare la nascita di governi comunisti o comunque contrari ai loro consistenti interessi economici. A ciò si aggiunsero i gravi problemi originati dalla supremazia dei capitali statunitensi ed europei in questi paesi, fino in tempi recenti rimasti produttori di materie prime agricole e minerarie, ma privi di industrie di trasformazione. Il predominio economico e sociale di oligarchie fondiarie contribuì ad aggravare ulteriormente il problema, tipico del Terzo Mondo, della miseria dei contadini e del crescente divario tra città e campagna. Solo sul finire del Novecento si avviò un intenso processo di progressiva democratizzazione che favorì in maniera significativa la stabilità politica ed economica dei paesi centro e sudamericani. Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, dopo decenni di regimi autoritari e di politiche neoliberali, il continente registrò infatti, nel contesto di una normale alternanza democratica, l’affermazione di un numero crescente di governi o di presidenti di sinistra, a partire dal caso più controverso di Hugo Chavez in Venezuela sino a quelli di Evo Morales in Bolivia, di Lula e, più recentemente, di Dilma Roussef in Brasile. Nonostante il permanere di alcuni gravi problemi, tra cui la condizione degli indios, lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, la presenza di una forte criminalità organizzata legata al traffico internazionale degli stupefacenti e l’indebitamento internazionale, negli anni più recenti il continente conobbe anche un significativo rilancio economico, così come testimonia per esempio il tasso di sviluppo del Brasile, secondo solo a quello cinese.

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