Yemen

Stato attuale dell’Asia sudoccidentale. L’odierna repubblica dello Yemen, collocata nel triangolo sudoccidentale della penisola arabica e confinante a est con l’Oman, nacque dall’unione dello Yemen del Nord con la Repubblica democratica popolare dello Yemen del Sud (1990). Dal 1994 è di nuovo in preda a una violenta guerra civile di carattere secessionista. Corrisponde solo riduttivamente alla più grande regione dello “Yemen storico”, rispetto alla quale andò perduto nel 1934 l’altopiano settentrionale dell’Asir a favore dell’Arabia Saudita.

Abitato fin dalle più antiche epoche da popolazioni dedite all’agricoltura e alla pastorizia, lo Yemen fu la sede del mitico regno di Saba, legato da traffici commerciali – lungo la via carovaniera che portava dalla Siria all’Oman e all’India – con i paesi circostanti. I romani lo definirono Arabia felix. Di fatto lo Yemen sabeo mantenne la sua unità e indipendenza finché, sottoposto a invasioni provenienti dall’Etiopia nel III e IV secolo d.C., finì per cadere definitivamente in soggezione dell’impero persiano sasanide nel 575. Fu poi tra i primi territori toccati dall’espansione islamica (628). Tuttavia l’integrazione nel mondo musulmano avvenne in modo contrastato, stante l’adesione delle regioni montane interne del Serat alla setta sciita zaidita (dietro cui si celava la lotta vittoriosa per l’autonomia rispetto al califfato), mentre sulla costa prevalevano potentati sunniti. Lo Yemen visse in posizione marginale gli eventi che interessarono i califfati omayyade e abbaside, venendo poi inglobato nel dominio della dinastia degli Ayyubidi egiziani e dei Mamelucchi tra il XII e il XIII secolo. A tale situazione reagì intorno al 1300 la dinastia autoctona dei Rasulidi, che per quasi un secolo e mezzo riconquistò l’unità e l’indipendenza e mise in atto un moto espansionistico che influenzò quasi tutta l’Arabia, riportando il paese agli antichi fasti. Nel XVI secolo seguì una nuova fase di decadenza. Dapprima i portoghesi cercarono di insediarsi ad Aden e, nel 1517, i turchi dell’impero ottomano si affermarono come potenza della quale l’imanato yemenita riconobbe il protettorato. Non cessò però la spinta autonomista che condusse nel 1638 alla conquista della piena indipendenza. L’unità del paese rimase però compromessa da una disgregazione di tipo feudale. Nel 1728 Aden si proclamò sultanato autonomo, avviando a consolidamento la spaccatura tra le zone rivierasche e l’interno settentrionale del paese. Quest’ultimo resistette libero fino al 1871, anno in cui fu rioccupato dagli Ottomani.

Aden fu conquistata dall’impero britannico nel 1839. Gli altri principati delle regioni costiere riconobbero via via nella seconda metà dell’Ottocento il protettorato britannico. Tale condizione coloniale o semicoloniale si protrasse per lo Yemen del Nord fino al crollo dell’impero turco nel 1918 (a seguito del quale riprese il potere l’antica dinastia zaidita), mentre per il sud continuò fino al 1963, quando la Gran Bretagna concesse ad Aden l’indipendenza. L’estremo conservatorismo della monarchia zaidita, che nel 1945 aveva aderito alla Lega araba, ebbe come conseguenza l’assassinio dell’imam Yahya (1948) nel corso di una congiura di palazzo, alla quale seguì un tentativo di modernizzazione e di più stretto collegamento con i settori più dinamici del mondo arabo rappresentati dall’Egitto di Nasser e dalla Siria baathista, con i quali lo Yemen del Nord si riunì in federazione nel 1958 nella RAU. Alla dissoluzione della RAU (1961) si aprì un periodo di guerra civile, durato fino al 1967, avviato da un colpo di stato promosso da elementi filonasseriani nel 1962, con la conseguente proclamazione della repubblica e l’invio di un corpo di spedizione egiziano a suo sostegno. Raggiunto un accordo tra le fazioni filoegiziane e realiste nel 1970, il problema maggiore rimase il contrasto tra la repubblica sostanzialmente moderata del Nord e il regime radicale di sinistra fondato nel 1967 nello Yemen del Sud (denominato nel 1970 Repubblica democratica popolare) dal movimento di liberazione nazionale d’ispirazione marxista-leninista. Tale contrasto si appianò, almeno apparentemente e dopo fasi alterne di tentativi di cooperazione e di tensioni con scontri di confine, con il trattato d’unione del 1990.

In realtà una contestata presa di posizione filoirachena durante la guerra del Golfo (1991) e la sconfitta di Saddam Hussein, insieme agli effetti del fondamentalismo islamico – con il riacutizzarsi dei conflitti tra le sette e dei persistenti squilibri socioeconomici interni – riaprirono una fase di gravi conflitti interni. Nel 1993, in seguito alle prime elezioni svoltesi dopo l’unificazione e alla vittoria del partito del presidente Ali Abdallah Salih, il Congresso generale del popolo (GPC), si costituì un governo di coalizione. Ma nel 1994 scoppiò la guerra civile tra il Nord e il Sud inteso a combattere contro il dominio del primo. La guerra si concluse con la presa di Aden da parte delle truppe governative del Nord. Al che fece seguito la vittoria di Salih alle elezioni presidenziali del 1999, dalle quali era stato escluso il candidato socialista. In seguito all’attacco suicida contro la nave americana USS Cole nel 2000 e alle stragi dell’11 settembre 2001, Salih e il suo partito dovettero affrontare una situazione estremamente delicata, cercando, da un lato, di dare il proprio sostegno agli USA nella guerra contro il terrorismo e, dall’altro, di non suscitare il malcontento dell’opinione pubblica interna, fortemente orientata in senso antiamericano. Nonostante il rafforzamento dell’opposizione islamica nel nord del paese, il GPC riconquistò la maggioranza nelle elezioni parlamentari del 2003 e Salih fu riconfermato alla presidenza nel 2006. Le tensioni politiche restarono tuttavia molto alte e nel 2008, con gli attentati al quartiere diplomatico di Sanaa, degenerarono in aperta violenza.


Nel gennaio del 2011, nel quadro delle grandi manifestazioni di massa che sconvolsero l’intera regione nordafricana e mediorientale, il regime di Salih fu sottoposto a nuove forti pressioni. Nonostante le concessioni di Salih, tra cui quella di non ricandidarsi alle elezioni del 2013 e la promessa di una nuova costituzione, gli scontri tra i manifestanti e le forze di polizia continuarono anche nei mesi successivi, suscitando forti reazioni da parte dell’esercito, che si dichiarò pronto a intervenire in difesa della popolazione civile. Furono allora intavolate trattative tra il governo e le opposizioni, le quali tuttavia, a causa della mancata disponibilità da parte di Salih a dimettersi, non ebbero successo, lasciando il paese in una situazione di grave incertezza. Dopo un fallito attentato, al quale sopravvisse pur riportando gravi ferite, nel novembre 2011 Salih accettò infine di cedere il potere al suo vice, Adb al-Rab Mansur al-Hadi, che si impegnò a riformare la costituzione e a indire nuove elezioni.