età medievale

  1. Il termine e il concetto di medioevo
  2. Periodizzazione esterna e interna
  3. L’Europa latino-germanica
  4. Il mondo franco dopo i carolingi
  5. I poli urbani di una società prevalentemente rurale
  6. Le chiese e le diversità religiose
  7. L’Europa dei secoli XIV e XV: riunificazioni e aperture
1. Il termine e il concetto di medioevo

Tra la metà del secolo XV e l’inizio del secolo XVII vari autori europei usarono espressioni come “media aetas”, “media tempora”, “media tempestas” fino ai più noti e affermati “medium aevum” e “middle age” (gli ultimi due entrambi seicenteschi). L’affermazione successiva dell’aggettivo “medioevale” (o “medievale”, considerato più elegante nell’italiano attuale) ha agevolato il prevalere della definizione “medio evo” rispetto a “età di mezzo”, da principio più usata. Nel 1550, con lo storico dell’arte Vasari, si inaugurò la periodizzazione tripartita a cui siamo abituati (età antica, medievale, moderna), ma in quel momento il termine “medioevo” era già stato usato più volte e, soprattutto, si era già consolidata la nozione di una sorta di età di mezzo, anche se non sempre chiaramente definita. I letterati dell’Umanesimo italiano, fra Tre e Quattrocento, con la sistematica valorizzazione dei classici, fecero spesso ricorso all’idea di un lungo intervallo che separava la grandezza degli antichi dalla rinnovata vivacità culturale del loro presente. Non a caso si considera primo storico del medioevo Biondo Flavio, che in modo annalistico (cioè con un racconto rigorosamente cronologico) espose le vicende dell’umanità dal 412 fino ai suoi tempi, cioè gli anni Quaranta del secolo XV: un periodo molto simile al millennio medievale (anche se l’autore non lo definì mai così) nell’accezione che si è poi consolidata. Quello di medioevo nasce come concetto intrinsecamente negativo. Anche sul piano politico, l’Italia degli anni di Lorenzo il Magnifico (1449-92) era percorsa da idee di equilibrio e di razionalizzazione, e i suoi intellettuali potevano richiamarsi o al mito di Roma antica (se perseguivano sogni di grande unificazione) o a quello della polis greca (se coltivavano gli ideali delle autonomie civiche): miti, entrambi, della classicità, lontani dal bellicismo spontaneo dei “barbari” germani e dal successivo “disordine” legato all’incontro etnico latino-germanico, a cui l’Umanesimo e il Rinascimento italiano non riconoscevano alcun valore positivo. Sul piano culturale c’era disinteresse e disprezzo per le espressioni originali del medioevo, che non veniva dunque accusato di non aver prodotto, quanto di essersi permesso di produrre. L’apprezzamento degli uomini di cultura della prima età moderna andava piuttosto ai Padri della Chiesa, colti rielaboratori del patrimonio classico, o agli operosi e anonimi monaci copisti, che avevano avuto il merito di garantire la trasmissione degli autori antichi: non ai cronisti o agli agiografi, di cui si sottolineava la rozzezza e non si rilevava (come invece oggi avviene) la vivacità (Rinascimento e Umanesimo). Nei secoli successivi le fortune del medioevo sono state alterne. Rivalorizzazioni moderate si ebbero fra Sei e Settecento, soprattutto in intellettuali animati da genuina curiosità per il passato, come Jean Mabillon, Louis de Thomassin, Ludovico Antonio Muratori. A una visione radicalmente negativa tornò l’Illuminismo, che anzi compì un’operazione da cui è caratterizzata ancor oggi la nostra cultura: attribuire al medioevo qualunque bruttura precedente il Settecento maturo, qualunque usanza in conflitto con gli ideali della ragione, della libertà e dell’uguaglianza. E ciò anche se si trattava di usi e soperchierie che si erano invece affermati nel Seicento o addirittura alla vigilia della Rivoluzione francese. L’Ottocento della Restaurazione e del Romanticismo, invece, rivalutò il medioevo: ma non lo valorizzò nei suoi aspetti più autentici, perché ne esaltò elementi foschi e fiabeschi, truculenti e magici, conducendo in fondo una rilettura positiva degli stessi aspetti che l’Illuminismo aveva condannato. Così la cultura diffusa del Novecento ereditò una nozione di medioevo forse più complessa, ma certamente altrettanto negativa di quella elaborata dagli Umanisti. Non è stato così tra gli studiosi. Storici della letteratura e dell’arte hanno compiuto molte e importanti riscoperte, mostrando che Shakespeare e Dante non erano state personalità isolate, o mettendo in rilievo la grandezza di artisti prima trascurati come Piero della Francesca. Gli storici hanno sgombrato il campo da molti luoghi comuni: ad esempio dimostrando l’inesistenza di imposizioni come lo ius primae noctis o di miti come l’attesa dell’anno Mille, o cancellando l’immagine di una società bloccata nella “piramide feudale”. Ma soprattutto, fra gli storici, è ormai viva l’idea che il “medioevo” è una pura convenzione periodizzante. Se ancora storici come Giorgio Falco e Raffaello Morghen, a metà del Novecento, esploravano il senso del millennio medievale, ne cercavano una chiave interpretativa totalizzante, oggi non è più così: c’è chi fa durare il mondo antico fino al secolo X, chi teorizza il “medioevo lungo” fino alla rivoluzione industriale, chi addirittura, pur studiando nella pratica il medioevo, non usa mai l’aggettivo “medievale”.

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2. Periodizzazione esterna e interna

I confini cronologici del medioevo tramandati dalla tradizione manualistica sono il 476 (deposizione di Romolo Augustolo, ufficialmente ultimo imperatore romano d’Occidente) e il 1492 (scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo). Una certa fortuna – soprattutto fuori dell’Italia – hanno avuto altre date non lontane, come il 410 (il saccheggio di Roma da parte dei vandali) e il 1453 (la conquista di Costantinopoli da parte dei turchi). Altre date di inizio del Rinascimento – e dunque dell’età moderna – sono presenti in singole tradizioni nazionali: in Inghilterra il 1485 (avvento della dinastia Tudor); in Francia il 1494 (inizio delle grandi conquiste di Carlo VIII); in Germania il 1517-19 (ribellione di Lutero ed elezione imperiale di Carlo V). Ma è l’arco cronologico fra i secoli V e XV a essere in ogni caso largamente riconosciuto come “medievale”. Tra gli storici di professione si constata poi che i secoli V e VI sono studiati prevalentemente da esperti del cosiddetto “tardoantico”, mentre il secolo XV è per lo più oggetto d’indagine di modernisti. Gli storici del medioevo (i “medievisti”) studiano dunque in prevalenza i secoli VII-XIV. Anche la periodizzazione interna non è così scontata come in Italia normalmente si crede: non dappertutto si distingue l’“alto medioevo” (dal secolo V all’anno Mille) dal “basso medioevo” (dal Mille al secolo XV), anche se la diffusione della cultura italiana ha conferito una certo successo a questa bipartizione. Spesso, nei paesi di lingua anglosassone, si usa “high Middle Ages” per indicare il “culmine” del medioevo, i secoli XII e XIII. La periodizzazione tedesca usa “Frühmittelalter” (primo medioevo) per indicare i secoli V-VIII; “Hochmittelalter” (alto medioevo) per i secoli intorno al Mille; “Spätmittelalter” (tardo medioevo) per i secoli XII-XV. È questa una tripartizione che ben risponde alla realtà degli studi e a modelli sociali, politici ed economici circoscrivibili: infatti sempre più spesso, anche in Italia, si fa riferimento ai “secoli centrali del medioevo” (IX-XII), come a quelli più caratteristici e dunque più lontani dalle realtà dell’età antica e dell’età moderna.

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3. L’Europa latino-germanica

I grandi movimenti di popoli (germani, slavi, ugro-finnici, arabi e berberi) che attraversarono l’Europa e il Mediterraneo nei primi secoli del medioevo produssero sia scontri violenti sia scambi e integrazioni di civiltà. Il cristianesimo si propose, in gran parte del bacino mediterraneo, come linguaggio comune – culturale forse ancor più che religioso – di un ceto dominante romano o ispirato a modelli romani: un ceto che aveva nel possesso fondiario il proprio indicatore di eminenza sociale. Questa “aristocrazia senatoria” ebbe modo, all’interno o ai margini dei grandi regno latino-germanici, di instaurare contatti stabili con l’aristocrazia germanica, che aveva invece i propri indicatori di eminenza sociale nel valore bellico e nelle capacità di comando. Pur nel sovrapporsi dei più diversi flussi etnici, fu l’incontro fra le due civiltà latina e germanica a segnare l’infanzia dell’Europa. Tra le popolazioni germaniche i goti (visigoti in Aquitania e penisola iberica; ostrogoti in Italia) svilupparono forme di integrazione frenata, in cui ai latini si riconoscevano funzioni anche importanti sul piano culturale e amministrativo. Le responsabilità militari rimanevano tuttavia prerogativa esclusiva dei germani. La distinzione era anche segnata da una diversità religiosa: cristiani ma nella versione “ariana” i germani (arianesimo), cattoliche le popolazioni locali in Italia, Spagna e Gallia meridionale. I franchi, formatisi dalla convergenza di varie tribù della Germania settentrionale, ebbero invece sviluppi diversi grazie a due fattori: 1) una tradizionale disponibilità agli incontri etnici (dei regna Francorum facevano parte a pari titolo popoli germanici diversi, come alamanni e burgundi); 2) la conversione diretta dal politeismo al cattolicesimo, operata da Clodoveo al principio del secolo VI, e l’irrilevanza quindi di quelle differenze religiose di cui i goti ariani si erano fatti quasi una bandiera. Con queste precondizioni, l’insediamento dei franchi fece della Gallia un vero laboratorio di integrazione etnico-culturale: i rapporti dell’aristocrazia franca con l’aristocrazia galloromana furono intensi, con una progressiva e produttiva confusione di ruoli. Membri delle bellicose famiglie franche intrapresero carriere ecclesiastiche; discendenti dell’aristocrazia galloromana divennero capi militari. Su queste basi prima la dinastia merovingia, poi i maestri di palazzo carolingi (detti così da Carlo Martello, ma noti anche come Pipinidi o Arnolfingi), infine i re della medesima dinastia carolingia misero insieme una compagine coordinata di regni franchi che assoggettò gran parte dell’Europa e le impose i propri schemi di governo. In questi schemi la tradizione germanica e seminomadica del potere su persone (ogni capo sapeva su chi comandava, non su quale territorio), si fondeva con la concezione territoriale del potere romano (e quindi con l’uso di articolare le dominazione in province). L’impero costruito da Carlo Magno era un’impalcatura imperfetta e con molti vuoti, ma condizionò a lungo l’Europa dei secoli successivi. Il titolo imperiale fu più formale che sostanziale (contava soprattutto la carica regia), ma servì a Carlo sia per emulare il prestigio dell’imperatore di Bisanzio, sia per stabilire rapporti privilegiati con il vescovo di Roma e quindi presentarsi come difensore della cristianità.

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4. Il mondo franco dopo i carolingi

Il vescovo di Roma non era ancora il vero superiore gerarchico della cristianità occidentale, ma aveva già una sorta di primato “d’onore” che lo metteva in grado di conferire carisma ai potenti. Dal secolo IX in poi, la corona imperiale fu sempre conferita dal papa a chi era titolare della corona d’Italia: un regno italico che comprendeva allora l’area padana e gran parte dell’Italia centrale. Soltanto nel secolo XI l’imperatore e re d’Italia fu stabilmente la stessa persona, titolare anche delle corone di Germania e di Borgogna; e soltanto da allora questo personaggio fu normalmente un tedesco. Ma ormai i re e i loro eserciti erano una presenza solo intermittente nella concreta vita sociale e politica delle popolazioni dell’Europa continentale. Inoltre gli imperatori non furono mai riconosciuti in Francia. L’Europa carolingia non si era dissolta perché Ludovico I il Pio (814-40) aveva diviso i regni fra i suoi figli; né perché conti e marchesi avevano acquisito autonomia. Si era dissolta in misura molto maggiore e obbedendo ad altre dinamiche: il potere si era pluralizzato o in principati territoriali o addirittura in molte piccole signorie rurali; i legami vassallatico-feudali (feudalesimo) prima non erano stati sufficienti a frenare le tendenze alla dispersione, poi bastarono appena a dare copertura formale e un minimo di raccordo a poteri che erano cresciuti dal basso, fondandosi sul possesso fondiario e sulla capacità di proteggere e opprimere le popolazioni locali con milizie e castelli. Solo ai margini del mondo di tradizione franca (in Inghilterra e nell’Italia meridionale) i normanni conferirono un inquadramento feudale omogeneo ai loro domini, per cui ogni potente locale era effettivamente un vassallo del re. Ma nella maggior parte dell’Europa (Francia, Germania, Italia centro-settentrionale, regni slavi collegati con il regno teutonico) i poteri signorili (quindi non “feudali”, non delegati dall’alto) erano i soli costantemente riconosciuti dalle popolazioni, in un intreccio non sempre chiaro fra signorie locali (che si occupavano della protezione e della giustizia quotidiana), principati territoriali (che organizzavano le maggiori spedizioni militari e amministravano l’“alta giustizia”, quella dei reati più gravi) e sporadici passaggi dei re e dei loro emissari. Sopravvissero a lungo, invece, i modelli carolingi. Come nel secolo IX, anche nei secoli X-XII si chiamavano “placiti” le sedute dei tribunali, come allora erano “pedaggio”, “albergaria” e “fodro” alcune delle tasse riscosse dai signori e, inoltre, si autodefinivano conti e marchesi tutti i potenti che avevano tra i propri antenati un ufficiale pubblico, anche se nessuno di essi governava più una circoscrizione pubblica. In questo quadro assunsero particolare rilievo quei re che tentarono in modi diversi di ridare dignità e vigore al potere centrale: Ottone I, Ottone II, Ottone III, Enrico IV, Federico I e Federico II nei regni inclusi nell’impero; Filippo II Augusto e Luigi IX in Francia. Ma tutti dovettero tentare strade di compromesso: al massimo potevano presentarsi come coordinatori, mentre i meccanismi concreti del potere – pur in forme talora caotiche e spesso violente – rispondevano a loro modo a esigenze locali di funzionamento.

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5. I poli urbani di una società prevalentemente rurale

Esempio di questi compromessi è la pace che nel 1183 Federico I Barbarossa raggiunse con i comuni italiani: l’imperatore e re d’Italia acconsentì che i comuni della Lega Lombarda continuassero a riscuotere le “regalie” (cioè le imposte di competenza pubblica) in cambio del giuramento con cui i comuni si riconoscevano vassalli collettivi del re. In nessun’altra regione d’Europa le città avevano creato altrettante difficoltà ai poteri regi. In Italia il gruppo di famiglie che aveva dato origine al comune poteva essere aristocratico o borghese: ma in entrambi i casi aveva dato luogo a nuclei politici di grande forza propulsiva. Per tutta l’Europa si può parlare di comuni, ma solo per l’Italia e, in parte, per la Francia meridionale si può parlare di città-stato. I cives di questi comuni non si accontentavano di avere autonomia entro le proprie mura (come le città imperiali tedesche o i grandi comuni borghesi delle Fiandre), ma assoggettavano in modo più o meno ampio il contado circostante, di cui il comune diventava “signore collettivo”. In un mondo prevalentemente rurale, in cui quasi solo presso i mari settentrionali e, soprattutto, presso il Mediterraneo, c’erano grandi città, le regole della convivenza erano prevalentemente quelle del mondo rurale: e non deve stupire se gli organismi politici e sociali più innovativi, i comuni cittadini, si collocavano in una rete collaudata che era feudale verso l’alto (i comuni come vassalli collettivi del re) e signorile verso il basso (i comuni come signori collettivi del contado). Eppure il prestigio delle sedi urbane era forte anche nel medioevo: lo determinavano la tradizione di centralità ereditata dal mondo antico, la vivacità economica dei ceti urbani mercantili e finanziari, il carisma delle autorità vescovili presenti nelle città (civitas era appunto il centro abitato con un suo vescovo). In città troviamo i duchi longobardi e i conti franchi; nelle città cercavano di imperniare il loro potere (più spesso di quanto un tempo si pensasse) le stesse dinastie principesche e signorili di età postcarolingia; nelle città sorsero prima le più importanti scuole religiose (quelle dei canonici delle grandi cattedrali) poi le università; le città accolsero le vivacissime corti regie e principesche in cui poteva forgiarsi l’identità nazionale (come nella Parigi capetingia) e in cui potevano anche realizzarsi i più spregiudicati incroci fra culture diverse (come nella Palermo di Federico II). Fu più urbana la civiltà del tardo medioevo, ma sarebbe riduttivo interpretare la dialettica città-campagna come una dialettica arretratezza-progresso. I grandi latifondi, le armi, il potere sulla campagne hanno dettato le regole per quasi tutto il medioevo: suggerendo gerarchie sociali e fissando i modi della politica. Ma sempre usando le città come propri punti di riferimento: la città era il mercato, il luogo d’inurbamento delle famiglie aristocratiche, la sede in cui si diventava vassalli del vescovo. La convivenza urbana, poi, filtrava e riproiettava all’esterno esperienze rivisitate. L’innovazione, insomma, aveva nella città il proprio centro propulsore, ma rielaborava materiali che erano pur sempre quelli – decisivi per il millennio medievale in Europa – dell’incontro latino-germanico.

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6. Le chiese e le diversità religiose

Nell’alto medioevo Roma fu – insieme con Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme – una delle sedi metropolitiche che guidavano la società cristiana. Il vescovo di Roma, tuttavia, era l’unico del mondo occidentale ad avere peso dirimente nelle questioni teologiche (e in questo sostanzialmente consisteva il suo “primato d’onore”) e pertanto all’eredità di Pietro poteva aggiungere – a quegli alti livelli – l’assenza di concorrenti. Fino al secolo XI, peraltro, la vita concreta delle comunità cristiane non fu condizionata dal papa. Le decisioni che contavano erano prese da concili o sinodi di vescovi delle diverse regioni, le cui deliberazioni potevano essere diverse da zona a zona d’Europa. Il potere civile del medioevo non era organizzato in modo piramidale: allo stesso modo è sbagliata l’idea di una grande e ordinata gerarchia ecclesiastica. Il papa divenne un vero superiore dei vescovi solo con le riforme di Gregorio VII e con il concordato di Worms (1122), fra i secoli XI e XII. In ciò fu agevolato dai monasteri che, per non obbedire ai vescovi, si richiamavano a una diretta dipendenza da Roma; dalla capacità di coordinare l’evangelizzazione nei paesi di frontiera (che, come la Polonia, una volta cristianizzati mantenevano un rapporto privilegiato con la sede papale); dai movimenti religiosi popolari che, vedendo la mondanità vicina dei vescovi e non quella lontana della curia papale, indebolivano inconsapevolmente i primi e rafforzavano la seconda. Dunque è solo per gli ultimi tre-quattro secoli del medioevo che ha senso parlare della chiesa di Roma come di un potere universale: ed è solo in questa fase e in queste condizioni che acquistarono concretezza le concorrenze ecclesiastico-imperiali, il papato avignonese, l’enorme espansione della curia pontificia e della rete di controllo ecclesiastico, i conflitti che condussero al gallicanismo in Francia e alla nascita della chiesa anglicana in Inghilterra. Invece per tutto il medioevo, e non solo per i suoi secoli finali, ebbero importanza le chiese al plurale e i monasteri. I vescovi si ritagliarono spazi di dominio temporale o ricevettero dai re, ufficialmente, le immunità dal potere civile. Essi dovettero cedere il passo ai comuni solo fra XI e XII secolo e in alcuni casi (così in Germania e in Inghilterra) poterono mantenere in vita duraturi principati vescovili. I monasteri, anch’essi dotati di immunitas, furono protagonisti di alcune delle più importanti signorie territoriali del medioevo, almeno fino al secolo XIII. Tutti furono in grado di fornire alle famiglie aristocratiche prestigiose carriere alternative a quelle militari. Il medioevo occidentale fu cristiano e in esso società civile e societas Christiana si sovrapposero, ma non con il governo ferreo e capillare di una chiesa monarchica. Roma riuscì a realizzare progressivamente quel governo. E non a caso nella parte finale del medioevo condusse l’evoluzione al punto di rottura (il cui sbocco principale, dopo tante eresie represse, fu la Riforma protestante). Ma prima, e nel frattempo, la pratica religiosa era capillare perché la società dei cristiani era policentrica, e i luoghi che impartivano sacramenti erano considerati servizi per l’anima come gli ospedali erano servizi per il corpo. Per questo le “chiese private”, fatte costruire dai potenti, non erano una degenerazione del costume, bensì una realtà antichissima dell’Occidente cristiano: un servizio, appunto, di cui le società locali erano grate alle famiglie che le edificavano, le mantenevano e per cui sceglievano i sacerdoti. Laboratores, bellatores e oratores erano i tre “ordini” della società teorizzati dal vescovo Adalberone di Laon nel secolo X. Dalla loro armonica coesistenza dipendeva la salute della società. Era tuttavia evidente, in quello schema emerso fra gli intellettuali ecclesiastici, la superiorità di coloro “che pregano” rispetto non solo a coloro “che faticano” ma anche rispetto a coloro “che combattono”. La cultura cristiana aveva sempre ritenuto addirittura normale che i sacerdoti si battessero, a cavallo e spada in pugno, se ciò serviva a difendere i fedeli o a convertire gli infedeli: si era visto bene nelle spedizioni dei carolingi contro i sassoni. Con la teorizzazione degli “ordini”, con la diffusione della cultura cavalleresca, con le distinzioni di Bernardo di Chiaravalle fra guerre “giuste” e “ingiuste”, con l’affermazione in atto della chiesa di Roma come chiesa superiore, i vertici ecclesiastici delegarono sempre più ai laici la normalizzazione, e quindi la cristianizzazione, del mondo. Le società medievali non furono caratterizzate da una forte sensibilità etnica – anzi, poiché da incontri etnici erano nate, si possono considerare tolleranti e aperte – ma certamente la fortissima sensibilità religiosa condizionava l’idea di diversità. L’“altro” da combattere per principio – e non solo perché ostacolava o aggrediva – era il non cristiano, l’infedele. E l’infedele era essenzialmente il musulmano. La grande mobilitazione di massa e le sensibilizzazioni di vertice che la chiesa riuscì a indirizzare sulle crociate (a parte gli interessi non religiosi e i calcoli politici che in esse si convogliarono) hanno pochi confronti nella storia mondiale, e sono paragonabili solo alla più lenta (ma alla lunga efficace) Reconquista operata dalla cristianità sul fronte spagnolo.

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7. L’Europa dei secoli XIV e XV: riunificazioni e aperture

I due secoli finali del medioevo sono sempre stati molto importanti per l’immagine che del medioevo si è successivamente consolidata. Gli uomini della prima età moderna conoscevano infatti quel medioevo e interpretavano allo stesso modo anche i secoli precedenti. Le carestie fecero immaginare (e fanno immaginare ancora oggi) un medioevo molto più affamato di quanto non fu in realtà; i processi di ricomposizione territoriale, avviati tutti con strumenti feudali, hanno fatto erroneamente ritenere feudalizzati tutti i secoli precedenti. È un medioevo a tinte forti e con contrasti violenti quello che finisce: il Trecento ebbe terribili pestilenze (la più devastante fu quella del 1348) eppure non si fermarono i commerci a lunga distanza e le grandi fiere; le guerre furono numerose e gravi, eppure diminuì il bellicismo endemico legato alla precedente minuta frantumazione signorile; al potere giungevano più raramente avventurieri privi di legittimazione, eppure le rivolte contadine aumentarono; erano ormai numerose le aperture verso nuovi mondi, la cultura era in espansione, eppure sopravvissero tutte le superstizioni e si fecero più dure le persecuzioni religiose. Nel Duecento i comuni italiani avevano inventato i politici di professione, i podestà: esperti di diritto e di arte oratoria, espletavano le loro funzioni in città via via diverse, non erano più espressione diretta e brutale delle forze dominanti ma elaboravano e suggerivano tecniche di gestione del potere. Nei nuovi stati nazionali (Francia, Inghilterra e Spagna) e regionali (in Germania e in Italia) diveniva sempre più importante una categoria di “officiali” che garantivano, con mansioni e competenze specifiche, i funzionamenti politico-amministrativi. Quasi dovunque i potenti locali scelsero di mettersi sotto l’ala di un re o di un principe, donando i propri territori per vederseli restituiti come feudi ereditari, muniti di poteri legittimati dall’alto: la ricomposizione era feudale, quindi più formale che sostanziale, ma i centri di potere diminuirono di numero e si arricchirono di funzioni. Queste ricomposizioni implicano, sul piano dei grandi equilibri, che il passaggio dall’età medievale all’età moderna risulti come il passaggio dalla microconflittualità fra gli uomini alla macroconflittualità fra gli stati. Su tutti gli altri piani furono gli uomini del medioevo a determinare il proprio superamento e a seminare equivoci su se stessi. Furono tipiche espressioni del medioevo quelle corti in cui si progettarono le grandi esplorazioni, si arricchirono le conoscenze scientifiche, si vissero le nuove e più raffinate esperienze artistiche. Il medioevo produsse gli innovatori, e ciò è ovvio in ogni transizione: ma in questo caso un periodo storico generò i propri stessi denigratori, coloro che consegnarono ai posteri una definizione non solo negativa ma anche statica, come se gli Umanisti non fossero figli di un tormentato ma ricco percorso millenario, bensì discendenti diretti di un’astratta memoria dell’antico. [Giuseppe Sergi]

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