Stati Uniti d’America

Stato attuale dell’America settentrionale.

  1. Il territorio nel Cinque-Seicento e la rivalità fra le potenze coloniali
  2. Le tredici colonie nel secolo XVIII, il sistema coloniale e la rivoluzione nazionale
  3. La rivoluzione nazionale e la guerra di indipendenza
  4. La Costituzione e il difficile consolidamento degli Stati Uniti
  5. L’avvento della democrazia
  6. La crisi del rapporto nord-sud e la guerra di secessione
  7. Dalla “ricostruzione” alla guerra con la Spagna
  8. Il “progressivismo” di T. Roosevelt e la “nuova libertà” di Wilson
  9. La prima guerra mondiale e l’“età dell’oro”
  10. La grande crisi del 1929 e il New Deal di F.D. Roosevelt
  11. Dall’intervento nella seconda guerra mondiale alla “guerra fredda”
  12. La leadership dell’Occidente
  13. Il ritorno dei democratici: Kennedy e Johnson. La guerra del Vietnam
  14. Da Nixon a Carter. Il declino dell’“impero”
  15. La “rivoluzione neoconservatrice” di Reagan e Bush. Il crollo sovietico e la fine del bipolarismo
  16. Dalla presidenza Clinton alla presidenza Obama. Gli USA unica superpotenza mondiale
  17. TABELLA: Presidenti degli USA (1789-2011)
1. Il territorio nel Cinque-Seicento e la rivalità fra le potenze coloniali

L’immenso territorio degli Stati Uniti al momento dell’inizio delle conquiste coloniali nel secolo XVI era abitato da tribù indiane che ammontavano complessivamente, si ritiene, a circa un milione di persone. Tra esse, le principali erano gli irokesi, i muskhogee e gli algonchini, dediti alla caccia e alla pesca e solo secondariamente all’agricoltura. La colonizzazione europea ebbe il carattere di una conquista progressiva dei territori degli indiani nordamericani e di una loro cacciata da essi: la ragione di ciò fu che, a differenza degli indios sudamericani, gli indiani d’America non si adattarono a un processo di integrazione nel sistema sociale dei bianchi. L’immensa parte del Nord America divenuta poi gli Stati Uniti vide fra i secoli XVI e XVIII la penetrazione di quattro potenze: la Spagna, la Francia, l’Olanda e l’Inghilterra. Gli spagnoli, alla ricerca dell’oro che non trovarono e spinti dall’ansia di convertire alla fede gli indigeni, esplorarono una parte assai ampia del territorio – California, Arizona, Nuovo Messico, Virginia, Carolina, Florida – giungendo a penetrare a fine Settecento anche nel Michigan, dove vennero stabilite colonie e missioni. La colonizzazione francese, iniziata nella prima metà del Cinquecento, si sviluppò fra Cinque e Seicento partendo dal Canada e penetrando nell’Acadia (poi Nuova Scozia), nella baia di Hudson, a Terranova, fino a comprendere l’immensa fascia a ovest del Mississippi – chiamata Louisiana in onore di Luigi XIV – che giungeva fino a Nuova Orléans. L’impero coloniale francese nel territorio che poi divenne degli Stati Uniti fu tuttavia interamente perduto a favore dell’Inghilterra in seguito ai trattati del 1713 e del 1763 che posero fine, rispettivamente, alla guerra di Successione spagnola e alla guerra dei Sette anni. L’Olanda ebbe un ruolo minore ma non certo trascurabile nella regione. Ad essa fu dovuta la costituzione della Nuova Olanda, il cui primo nucleo fu formato da Nuova Amsterdam (dal 1664 New York), fondata nel 1624, che fu popolata anche da protestanti francesi, inglesi e tedeschi. Nel 1667 i possedimenti olandesi, che si erano estesi agli insediamenti svedesi nel Delaware, vennero ceduti all’Inghilterra. L’impronta determinante alle zone della costa orientale che costituirono il nucleo iniziale degli Stati Uniti fu data dalla colonizzazione inglese. La formazione dell’America anglosassone va fatta risalire a cavallo fra i secoli XVI e XVII, con la costituzione, definitivamente conclusa nel 1607, della colonia della Virginia. Poco dopo, nella parte settentrionale della costa atlantica, e cioè nella Nuova Inghilterra, l’arrivo nel 1620 di un centinaio di dissidenti puritani inglesi, i “padri pellegrini”, sbarcati dalla Mayflower nel Massachusetts con l’intento di fondare una società cristiana di eletti, segnò l’inizio di insediamenti che portarono alla creazione di altre colonie quali il New Hampshire, il Connecticut e il Rhode Island (fu in quest’ultima che vennero affermati i principi della libertà politica, della libertà di coscienza e della separazione fra stato e chiesa). Nel 1634 sorse il Maryland. E l’estendersi della colonizzazione portò alla formazione della Carolina, poi divisa nel 1689 fra Carolina del Nord e Carolina del Sud. Nel 1681 William Penn ottenne da Carlo II il territorio che poi prese da lui il nome di Pennsylvania. Nelle colonie inglesi vennero a incontrarsi e a scontrarsi diverse fedi religiose. A nord prevalevano i puritani e i quaccheri (i quali ultimi ebbero la loro roccaforte nel New Jersey); a sud gli anglicani. Una piccola minoranza erano i cattolici. Fu proprio il pluralismo religioso, l’assenza di una consolidata casta aristocratica, la necessità di regolare differenze religiose e culturali e di dare espressione agli interessi emergenti in un territorio aperto e nuovo a favorire il sorgere nelle colonie inglesi d’America di istituti di relativo autogoverno. I quali non vennero scossi neppure dopo che, a partire dalla fine del Seicento, la corona subordinò strettamente l’economia coloniale agli interessi di Londra senza però imporre un controllo burocratico centralistico sulla loro vita politica e sociale.

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2. Le tredici colonie nel secolo XVIII, il sistema coloniale e la rivoluzione nazionale

Alla metà del Settecento, le colonie apparivano divise in tre grandi regioni. Al nord (New Hampshire, Massachusetts, Rhode Island, Connecticut), accanto a una proprietà agricola prevalentemente media e piccola, era assai sviluppata la pesca e il commercio, l’impronta religiosa era data dal puritanesimo e la popolazione era a grande maggioranza inglese. Al centro (New York, New Jersey, Pennsylvania, Delaware), se l’attività economica prevalente era l’agricoltura, il primato sociale era saldamente tenuto dal ceto commerciale; qui risultava maggioritaria la componente non inglese della popolazione (assai forti le componenti tedesca e olandese) e prevalente lo spirito di tolleranza religiosa in relazione alla varietà delle sette protestanti. Al sud (Maryland, Virginia, Carolina del Nord e Carolina del Sud, Georgia), povero di centri urbani, predominava l’economia delle piantagioni e la popolazione bianca, anglicana, dominava sugli schiavi neri. Data la grande disponibilità di terra e di occasioni di lavoro e un grado di libertà religiosa senza paragone maggiore rispetto al Vecchio Mondo, le colonie erano meta di un costante flusso di immigrati alla ricerca di migliori condizioni di vita. Lo sviluppo demografico era intenso, tanto che gli abitanti passarono da meno di 300.000 agli inizi del XVII secolo a 1.700.000 nel cinquantennio successivo. Nel 1790, conquistata l’indipendenza, sarebbero diventati 4 milioni. I neri passarono da circa 20.000 a oltre 400.000. Nel Nuovo Mondo, inoltre, l’impronta sociale dominante era data non dall’aristocrazia di sangue ma da quella del denaro: insomma non dalla nobiltà ma dalla borghesia. Le élites intellettuali mantenevano un forte rapporto di dipendenza dalla cultura europea; ma erano ormai in grado di esprimere una propria intellettualità dotata di una sua spiccata originalità. Il suo più tipico rappresentante fu il grande Benjamin Franklin (1706-1790), uomo fattosi da sé, giornalista, inventore, imprenditore, uomo politico. Inoltre, per la propria formazione, l’élite poteva contare su colleges come Harvard, Yale, Princeton. Assai diffusa era l’istruzione anche media nelle colonie settentrionali e centrali, in maniera superiore che non in Europa. Una caratteristica dominante della vita americana era la spinta verso ovest, alla conquista di nuove terre da occupare e porre a coltura. In questa corsa, i bianchi furono indotti a scontrarsi sistematicamente con gli indiani, i quali, in quanto popolazioni di nomadi e cacciatori, erano ostili all’insediamento nelle proprie terre di popolazioni estranee e sedentarie. Non mancarono i tentativi, anche coronati da successo, di stabilire accordi pacifici; ma per lo più i rapporti fra i bianchi, animati da un senso razzistico di superiorità e dotati di un’assai maggiore forza materiale, e gli indiani, che rifiutavano ogni idea di integrazione nella società dei coloni, furono improntati alla violenza. La totale sconfitta della Francia da parte dell’Inghilterra nella guerra dei Sette anni (1756-63) ebbe l’effetto di liberare definitivamente le colonie dalla minaccia francese. I coloni inglesi, più sicuri di sé, sentirono sempre più acuta l’esigenza di rinegoziare i loro rapporti con la madrepatria, affermando il diritto di parità e quindi di essere rappresentati nel parlamento di Londra. Per contro Londra ritenne di avere la forza e l’autorità per ribadire il rapporto di dipendenza coloniale. Fra il 1763 e il 1765 il governo inglese inasprì il carico fiscale e impose il mantenimento di un esercito stanziale di 10 mila uomini. Una legge sul bollo del 1765 (lo Stamp Act) acutizzò i contrasti. L’avvocato Patrick Henry (1736-99) diede all’opposizione un’ideologia, affermando il principio che erano valide solo le leggi votate da un parlamento in cui si fosse rappresentati. Così i coloni dichiararono di voler scuotere il legame di dipendenza rivendicando il diritto di cittadinanza e di rappresentanza.

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3. La rivoluzione nazionale e la guerra di indipendenza

La decisione del governo di Londra di imporre alle colonie nuove tasse, come la legge sul bollo (Stamp Act), senza il loro consenso fece precipitare la situazione. Vi furono movimenti di piazza e fu organizzato il boicottaggio delle merci inglesi. Ma Londra inasprì la sua politica. L’uccisione a Boston di cinque persone il 5 marzo 1770 diede inizio a una fase di scontro aperto. Una legge sul tè (Tea Act) del 1773, che danneggiava gli interessi locali, provocò il 16 dicembre l’assalto a tre navi e la distruzione del loro carico di tè importato. In conseguenza il parlamento inglese approvò leggi repressive (Coercitive Acts) che concentrarono il potere nelle mani delle autorità inglesi, annullando le libertà locali. Di fronte a quelle che furono definite “leggi intollerabili”, i coloni reagirono convocando a Filadelfia nel settembre 1774 il I Congresso continentale, che proclamò nulle le “leggi intollerabili”, organizzò il boicottaggio economico contro l’Inghilterra e diede vita a una Associazione continentale per la politica economica. Le assemblee coloniali incominciarono a costituirsi come poteri indipendenti. Il sovrano Giorgio III fece valere in risposta una linea intransigente. La situazione precipitò con il confronto armato a Lexington nell’aprile del 1775. Il 10 maggio il Congresso continentale organizzò la resistenza armata, pur sperando ancora nella conciliazione con l’Inghilterra. Comandante dell’esercito americano fu nominato George Washington (1732-99). Il 17 giugno uno scontro di vaste proporzioni oppose americani e inglesi nella battaglia di Bunker Hill. Dopo che re Giorgio ebbe fatto proclamare in dicembre gli americani “ribelli”, l’ideologo Thomas Paine (1735-1809) teorizzò apertamente la separazione dall’Inghilterra e l’ideale repubblicano, ottenendo un immenso successo. Nell’aprile 1776 il Congresso invitò le colonie a costituire governi indipendenti. Il 4 luglio fu approvata una “Dichiarazione d’indipendenza”, redatta da Thomas Jefferson (1743-1826), che definiva “usurpazione” il potere monarchico e affermava i princìpi di un governo liberale. La proclamazione dell’indipendenza divise i coloni in rivoluzionari e lealisti, molti dei quali presero le armi a fianco degli inglesi. Nelle file dell’esercito americano si arruolarono europei come il francese La Fayette e l’eroe dell’indipendenza polacca Kosciuszko. Washington, dopo molte difficoltà iniziali, ottenne un’importante vittoria a Saratoga nell’ottobre del 1777. Un aiuto determinante agli americani venne dall’intervento nella guerra della Francia nel febbraio del 1778, della Spagna nel 1779 e dell’Olanda nel 1780. La guerra si concluse nell’ottobre del 1781, dopo che le forze congiunte franco-americane ebbero ottenuto a Yorktown in Virginia una decisiva vittoria. La pace definitiva fu firmata a Versailles il 3 settembre 1783, con il riconoscimento dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America.

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4. La Costituzione e il difficile consolidamento degli Stati Uniti

Il nuovo stato fu il primo stato “borghese” della storia moderna, senza gerarchie nobiliari, con un’idea dell’eguaglianza fondata sugli eguali diritti di tutti alla corsa al benessere, basato su istituzioni parlamentari, sulla subordinazione dei militari al potere civile e sulla separazione fra stato e chiese. Il diritto di voto rimase limitato ai contribuenti. Una grave eredità fu il mantenimento dell’istituto della schiavitù, che stava a fondamento dell’economia degli stati del sud. Dopo aver avuto un’unione debole, di tipo confederale, dal 1781 al 1786, gli Stati Uniti adottarono nel 1787 una Costituzione che stabilì un’unione federale, entrata in vigore nel 1789 e integrata nel 1791 da una “dichiarazione dei diritti” (Bill of Rights). Il potere legislativo fu affidato a un Senato, espressione degli stati, e a una Camera dei rappresentanti, espressione del popolo nel suo insieme. Il potere esecutivo fu attribuito a un presidente eletto ogni quattro anni. Fra i fautori di un forte potere federale si collocarono Washington, Franklin, John Hamilton, James Madison, John Jay, che furono perciò detti “federalisti” di contro agli “antifederalisti”. Nel 1789 il governo andò ai federalisti e Washington fu eletto presidente. Gli Stati Uniti avevano allora poco meno di 4 milioni di abitanti, di cui 700 mila neri schiavi e 60 mila neri liberi. In quello stesso anno divenne operativa la Corte suprema, con il compito di tutelare la costituzionalità delle leggi. Nel nuovo governo assunse un ruolo di spicco Hamilton, ministro del Tesoro, di tendenze centralizzatrici e favorevole al dominio delle minoranze e a un ruolo quasi monarchico della presidenza. Queste tendenze, sostenute attivamente anche dal vicepresidente John Adams, vennero a mano a mano sempre più avversate da Madison e da Jefferson. Andarono così delineandosi due partiti: il federalista, centralista e legato all’aristocrazia finanziaria urbana, e il repubblicano, che mirava a un regime fondato sugli agricoltori indipendenti tutori dello spirito di libertà e della sovranità popolare. A loro volta, la Rivoluzione francese e le guerre europee produssero ulteriori divisioni: in generale i federalisti erano filoinglesi e i repubblicani filofrancesi. Nel 1796 Washington lasciò la presidenza, esortando gli Stati Uniti a non lasciarsi coinvolgere nei contrasti del Vecchio Mondo e ponendo così le basi di un orientamento “isolazionista”, destinato a segnare per oltre un secolo la politica estera statunitense. A lui succedette John Adams (1797-1801). In seguito a una politica di rappresaglie messa in atto dalla Francia, che accusava gli americani di appoggiare l’Inghilterra, il paese evitò a stento la guerra. Ma il governo varò nel 1798 una serie di leggi contro gli stranieri e i sediziosi (filofrancesi), che, se pure vennero applicate con moderazione, accesero lo scontro politico interno fra i due partiti. Dopo una lacerante campagna elettorale nel 1800, Thomas Jefferson fu eletto presidente nel quadro di quella che fu definita la “rivoluzione del 1800”. In quello stesso anno la capitale venne trasferita da Filadelfia a Washington. Jefferson mise subito in atto una politica di riconciliazione interna. La sua politica estera fu assai attiva. Nel 1803 gli Stati Uniti acquistarono da Napoleone la Louisiana. Rieletto nel 1804, il presidente stroncò nel 1805 una cospirazione interna organizzata dal suo oppositore Aaron Burr. Un suo deciso avversario fu il presidente della Corte suprema John Marshall, federalista e intransigente fautore del primato del governo federale sui singoli stati. Di fronte all’ostilità dell’Inghilterra, che, violando la neutralità americana, non esitava a controllare e bloccare le navi americane, tra il 1807 e il 1809 le relazioni fra i due paesi peggiorarono al punto di far temere la guerra, che però venne evitata. Gli Stati Uniti decretarono l’embargo generale nel commercio con l’estero, sospeso però nel 1809 per i danni che ad essi derivavano. A Jefferson succedette un altro repubblicano, James Madison (1809-17), eletto nel 1808 e rieletto nel 1812. I rapporti con l’Inghilterra, in seguito alla rinnovata volontà di questa di non rispettare la neutralità americana, peggiorarono questa volta fino alla guerra, dichiarata nel giugno del 1812. L’impreparazione militare degli americani era grave. Essi fallirono nel tentativo di invadere il Canada. Il nord filoinglese, che aveva fortissimi interessi al commercio con la Gran Bretagna, minacciò la secessione. Nell’agosto del 1814, truppe britanniche attaccarono la stessa capitale. Ma il generale Andrew Jackson ottenne una brillante vittoria nel gennaio del 1815 a New Orleans, quando già la pace era stata formalmente firmata a Gand il 24 dicembre 1814. Intanto, a partire dalla fine del secolo, gli americani avevano iniziato una vasta azione espansiva a danno degli indiani, in molti casi appoggiati da inglesi e spagnoli, sottraendo loro le terre e massacrandone la popolazione. La spinta verso ovest fu tale da spostare intorno al 1830 la frontiera della colonizzazione oltre la barriera del Mississippi. Nel 1810 la Spagna cedette agli Stati Uniti la Florida occidentale. La guerra con l’Inghilterra ebbe un duplice effetto: da un lato favorì lo sviluppo della borghesia industriale degli stati della Nuova Inghilterra; dall’altro segnò il declino politico del partito federalista, accusato di atteggiamento filoinglese. Finite le grandi guerre europee con la caduta di Napoleone, gli Stati Uniti, del tutto ostili ai tentativi di ripresa di influenza da parte delle potenze del vecchio continente sulle Americhe, sotto la presidenza del repubblicano James Monroe (1817-25) emisero nel 1823 la “Dichiarazione di Monroe”, secondo la quale essi non avrebbero tollerato nuove colonie nel Nuovo Mondo e interferenze politiche esterne.

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5. L’avvento della democrazia

Le elezioni del 1828 portarono al potere un uomo nuovo, il generale Andrew Jackson, rimasto al potere dal 1829 al 1837, che determinò la fine del vecchio notabilato politico formatosi all’epoca della rivoluzione, che aveva la sua base di sostegno sociale nell’aristocrazia del denaro. Jackson fu l’eroe delle masse popolari (agricoltori, operai, piccoli borghesi) che da un lato rivendicavano il diritto al suffragio e dall’altro attaccavano il predominio dei ricchi. Egli diventò il leader carismatico di un nuovo partito democratico, che, giovandosi di un uso spregiudicato del sistema delle “spoglie” (spoils system) e dell’appoggio di agitatori professionisti al suo servizio, portò a un radicale ricambio del personale politico. Jackson attaccò inizialmente il sistema protezionistico che favoriva l’industria del nord e per questa via ottenne anche l’appoggio dei grandi proprietari di piantagioni del sud, interessati come i ceti popolari ai prodotti meno cari provenienti dall’Europa. Ma ben presto rovesciò questa politica. Sicché nel 1832 la Carolina del Sud – dando così espressione al contrasto più generale del sud con il nord – minacciò persino la secessione, se non si fosse giunti alla riduzione delle tariffe doganali. Jackson procedette alla riduzione, ma al tempo stesso piegò energicamente le velleità separatiste. Un momento cruciale della lotta contro la cittadella oligarchica fu l’abolizione della Banca degli Stati Uniti. La domanda di allargamento del suffragio venne soddisfatta, tanto che negli anni Trenta il suffragio universale maschile fu introdotto quasi in tutti gli stati. L’azione rivolta contro gli affaristi del nord ebbe però come contraltare la crescita di peso dell’altra ala dell’oligarchia, quella degli agrari sudisti “democratici”, interessati a una politica di espansione territoriale che consentisse l’allargamento del sistema schiavistico. Interprete di questa linea fu un loro esponente, James Polk, presidente dal 1845 al 1849. Durante le sua presidenza, a conclusione di una guerra con il Messico (1846-48) il Texas fu inglobato negli Stati Uniti, unitamente al Nuovo Messico e alla California, nella quale la scoperta di ricchissimi giacimenti auriferi scatenò la corsa all’oro. Nel 1846 fu la volta dell’Oregon.

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6. La crisi del rapporto nord-sud e la guerra di secessione

Intorno al 1850 gli Stati Uniti mostravano da un lato di essere globalmente una potenza in costante ascesa, dall’altro di dover fare i conti in maniera sempre più aspra con le contraddizioni generate dal dualismo fra il nord – in rapido sviluppo industriale (nel 1860 si contavano circa 1.300.000 operai), basato sulla cultura e sullo spirito del capitalismo moderno e sui liberi rapporti fra datori di lavoro e operai – e il sud – dominato da una aristocrazia agraria conservatrice e fondato sul sistema della schiavitù che opponeva 6 milioni di bianchi a oltre 3 milioni di neri, in cui vigevano il culto del tradizionalismo e il razzismo. A partire dagli anni Venti le tensioni fra le due parti del paese erano diventate a mano a mano più acute, fino a che nel 1861 scoppiò la guerra civile. Il compromesso del Missouri, che nel 1820 aveva tracciato la linea di demarcazione fra mondo dello schiavismo e mondo del lavoro libero, era risultato una semplice tregua. Nel nord andò prendendo vigore il movimento “abolizionista”, che patrocinava la fine dello schiavismo e trovò la sua Bibbia popolare nel romanzo La capanna dello zio Tom (1852) di Harriet Beecher Stowe. Nel 1850 la California, collocata geograficamente nella zona della schiavitù, ne aveva respinto l’istituto e il Kansas-Nebraska Act del 1854 fece della regione del Kansas il teatro di conflitti continui fra schiavisti e coloni liberi per il controllo del territorio. L’opposizione al Partito democratico, divenuto la roccaforte dei sudisti, fu guidata dal Partito repubblicano, sorto nel 1854. Fattore di divisione tra le due parti del paese era l’interesse del nord al protezionismo in difesa dell’industria statunitense e quello opposto del sud a tariffe doganali basse per poter comprare i meno cari prodotti industriali europei ed esportare cotone e tabacco. A fare da catalizzatore per lo scoppio della guerra civile fu l’elezione a presidente nel 1860 del repubblicano Abraham Lincoln (1861-65). Il 20 dicembre 1860 la Carolina del Sud prese l’iniziativa della secessione, cui fece seguito quella degli altri dieci stati meridionali, i quali formarono una propria Confederazione con presidente Jefferson Davis. La guerra vera e propria iniziò in seguito al bombardamento da parte delle truppe sudiste di Fort Sumter il 12 aprile 1861. Le due parti erano di forze assai ineguali. Il nord aveva una popolazione di 22 milioni; il sud di 5,5. Il primo era dotato di una potente base industriale; il secondo doveva dipendere per gli armamenti dalle importazioni, fortemente ostacolate dal blocco navale. La guerra, che assunse il carattere di una crociata ideologica, fu quanto mai aspra, e costò oltre 600.000 morti e la devastazione di grandi territori. Nel 1863 Lincoln stabilì la liberazione di tutti gli schiavi nei territori ribelli (la schiavitù fu formalmente abolita solo nel dicembre 1865). Guidato da un genio militare, il generale Robert Lee, l’esercito sudista ottenne grandi successi iniziali; ma infine la schiacciante superiorità materiale del nord ebbe il sopravvento. Nel 1863 il generale nordista Ulysses Grant conquistò Vicksburg e tagliò in due la Confederazione; e i sudisti persero la battaglia di Gettysburg per la conquista della Pennsylvania. Il colpo finale al sud venne inferto nel 1864 dalle armate di William Sherman. Il 9 aprile 1865 Lee si arrese nel villaggio di Appomattox. Rieletto nel 1864, Lincoln, intenzionato a una pace moderata, fu assassinato da un attore sudista il 14 aprile.

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7. Dalla “ricostruzione” alla guerra con la Spagna

La vittoria del nord pose fine alla secessione. Al tempo stesso ricostituì l’Unione sulla base di un nuovo nazionalismo e diede libero corso allo sviluppo capitalistico, tanto che nel quarantennio successivo gli Stati Uniti si posero alla testa del capitalismo mondiale. In politica interna, la ricostruzione politica del paese dopo l’assassinio di Lincoln fu assai travagliata. Il presidente Andrew Johnson mise in atto una politica moderata che, pur abolita la schiavitù, comportava negli stati del sud una sorta di restaurazione del potere tradizionale dei bianchi. Nel 1866 aveva fatto la sua comparsa il Ku Klux Klan, un’organizzazione segreta diretta a mantenere i neri in uno stato di emarginazione mediante la violenza. Al programma di Johnson reagì la maggioranza radicale del Congresso, che impose leggi favorevoli all’integrazione politica dei neri; ma questa tendenza venne contrastata e infine rovesciata nel corso degli anni Settanta, durante le presidenze di Ulysses S. Grant (1869-77) e di Rutheford B. Hayes (1877-81), così che il Partito democratico poté costruire nel sud un rinnovato sistema di segregazione civile e politica dei neri, destinato a durare per quasi un secolo. La guida politica del paese si trovava saldamente nelle mani da un lato del Partito democratico, che aveva il suo centro politico nel sud agrario e antiprotezionista, e dall’altro del Partito repubblicano, dominato dagli industriali e dagli affaristi del nord. Il predominio politico del secondo, radicato nella guerra civile, ebbe fine nel 1884 con la vittoria del democratico Grover Cleveland (1885-89), il quale invano cercò di ottenere la revisione delle tariffe doganali. Il suo successore, il repubblicano Benjamin Harrison (1889-93), ribadì l’indirizzo protezionistico. L’approvazione nel 1890 dello Sherman Anti-Trust Act, volto a contrastare il monopolismo industriale, rimase senza sostanziali effetti ed ebbe più che altro il carattere della consapevolezza della protesta emergente in ampi strati popolari contro la “dittatura” del mondo degli affari. Il trentennio seguente la guerra di secessione vide proseguire e completarsi la colonizzazione dei territori a ovest del Missouri, con la definitiva cacciata degli indiani, accompagnata da stermini e dalla loro collocazione in “riserve”. L’economia dell’allevamento in grande stile, che ebbe il suo centro nel Texas, divenne una delle maggiori risorse del paese. Gli immensi spazi dell’Unione furono collegati dalla più imponente rete ferroviaria del mondo, che a fine secolo aveva raggiunto le 190.000 miglia. Ricchissimi di risorse di ogni genere, gli Stati Uniti conobbero un tale impulso nell’industrializzazione da collocarli al primo posto nel mondo agli inizi del Novecento. Tra XIX e XX secolo emersero vere e proprie dinastie di “eroi del capitalismo”, come i “baroni delle ferrovie” J. Gould, C. Vanderbilt, J. Hill, i “re dell’acciaio” A. Carnegie e J.P. Morgan, il “re del petrolio” J.D. Rockefeller, la cui influenza sui governi era schiacciante. L’impressionante crescita economica favoriva le applicazioni scientifiche e lo sviluppo tecnologico. Si aprì l’era dell’aratro d’acciaio, della mietitrice-trebbiatrice meccanica, del telefono di Bell, della macchina per scrivere, delle scoperte in campo elettrico e della lampada di T. Edison, della prima automobile a motore a scoppio di Ford (1893). Terra di grandi opportunità di lavoro e di ascesa sociale, più che mai gli Stati Uniti furono meta di grandi ondate di immigrazione dall’Europa, tanto che si calcola che a fine secolo su 76 milioni di abitanti, 10 erano nati fuori dai confini e 26 erano figli di immigrati. La richiesta di un ordinamento democratico più sensibile agli interessi popolari e agli ideali della giustizia sociale trovò la sua espressione nel 1892 nel programma del Partito populista, diretto da William J. Bryan, il quale fu però sconfitto alle elezioni del 1896 dal repubblicano William McKinley (1897-1901). Negli Stati Uniti la lotta contro lo strapotere delle oligarchie dominanti aveva quale obiettivo non già l’abolizione della proprietà privata e il socialismo, come invece in Europa, ma una democrazia più aperta e tale da favorire la mobilità sociale. Se il socialismo restò una forza secondaria, importante fu invece la crescita dei sindacati. Nel 1886 Samuel Gompers fondò l’American Federation of Labor (AFL) come sindacato degli operai qualificati. La lotta di classe scoppiò in varie occasioni anche violenta, andando incontro a dure repressioni, non di rado sanguinose. Durante l’amministrazione McKinley, gli Stati Uniti iniziarono una politica apertamente espansionistica. Nel 1867 avevano acquistato dalla Russia l’Alaska. Ma essi erano ansiosi di misurarsi con il moribondo impero spagnolo, mirando a Cuba, grande produttrice di zucchero. Nel febbraio 1898 scoppiò la guerra; e gli spagnoli furono completamente battuti. La pace di Parigi (dicembre 1898) fece di Cuba un protettorato degli Stati Uniti e delle Filippine e di Portorico loro domini. Poco dopo essi ottennero dalle potenze europee il pieno riconoscimento dei propri interessi economici in Cina.

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8. Il “progressivismo” di T. Roosevelt e la “nuova libertà” di Wilson

Agli inizi del XX secolo l’Unione si presentava sulla scena come la più grande potenza economica mondiale. Nel 1914 la sua popolazione aveva raggiunto i 95 milioni, di cui oltre 14 erano immigrati giunti dopo il 1900. Nel settembre 1901 un anarchico uccise il presidente McKinley, cui succedette Theodore Roosevelt (1901-1909). Questi diede voce all’ansia delle classi medie e popolari di avere un governo capace di contrastare l’onnipotenza dei ricchi e di sottoporre a controllo i trusts. Il presidente diventò l’esponente del “progressivismo”, il cui nucleo ideologico era l’aspirazione a un “capitalismo democratico”, e di un “nuovo nazionalismo” teso a rafforzare i poteri del governo federale. In effetti si ottenne l’elezione popolare dei senatori (prima eletti dai parlamenti degli stati); si sviluppò la campagna per il voto femminile (ottenuto nel 1920); ebbe inizio un’organica legislazione sociale. Dopo la forte presidenza Roosevelt e quella di William Taft (1909-1913), nel 1912 vinse le elezioni un’altra personalità forte: Woodrow Wilson (1913-21), che si fece patrocinatore di una “nuova libertà”, anch’essa diretta a contrastare il potere dei grandi centri economici e ad avviare un corso di basse tariffe (nella giusta convinzione che ormai l’economia statunitense fosse in grado di vincere la concorrenza). L’industria americana era più che mai forte; e la razionalizzazione del lavoro conobbe un salto di qualità con l’introduzione della “catena di montaggio” e del “taylorismo”. Alle elezioni del 1912 il Partito socialista di Eugene Debs ottenne quasi un milione di voti, ma non riuscì a diventare un fattore politico di determinante importanza. In campo sindacale, in contrasto con l’AFL di Gompers, che tutelava solo gli operai qualificati, sorse nel 1905 l’Industrial Workers of the World (IWW), di carattere politicamente radicale, presto orientatasi in senso sindacalista-rivoluzionario, la quale prese a organizzare operai non qualificati e immigrati, andando incontro a pesanti discriminazioni e repressioni.

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9. La prima guerra mondiale e l’“età dell’oro”

Quando nel 1914 scoppiò la grande guerra europea, gli Stati Uniti tennero ferma la linea isolazionistica. Questa venne tuttavia rovesciata quando nel febbraio del 1917 la Germania fece ricorso alla guerra sottomarina illimitata. In effetti gli USA non potevano tollerare l’ipotesi di una vittoria tedesca. Per l’Intesa l’aiuto americano, giunto nel momento in cui stava crollando la Russia, ebbe un valore decisivo. Wilson, rieletto nel 1916, portò il paese all’intervento sotto il manto di un’ideologia democratica, la quale prometteva al mondo libertà politica, indipendenza ai popoli oppressi e libertà di commerci. Queste finalità furono solennemente ribadite nei 14 “punti” in cui Wilson riassunse la sua linea strategica l’8 gennaio 1918. Il presidente credeva in un primato statunitense nel mondo ottenuto in forza della democrazia e dell’economia e tale da trovare il suo punto politico focale in una Società delle Nazioni. Wilson, per queste sue posizioni, ottenne in Europa un consenso popolare entusiastico; ma al tavolo delle trattative di Parigi (1919) dovette cedere alla logica della “pace cartaginese” dettata dall’Inghilterra e dalla Francia. Sicché il suo principale contributo non fu quello di garantire le fondamenta di una pace durevole ma di appoggiare i nazionalismi che nell’Europa orientale spazzarono via i grandi imperi. Il fallimento più grave di Wilson fu che il Congresso, ribadendo l’orientamento isolazionista interrotto nel 1917, non approvò l’ingresso degli Stati Uniti nella Società delle Nazioni. Le elezioni del 1920 sanzionarono la sconfitta del wilsonismo e la vittoria del repubblicano Warren G. Harding (1921-23), il cui programma era di dare via libera agli affari all’interno senza interferenze statali e di abbandonare l’Europa a se stessa. Questo programma fu ripreso dal suo successore Calvin Coolidge (1923-29), il cui potere coincise con uno straordinario boom dell’economia, iniziato nel 1922 e destinato a durare fino al 1929. Nel 1928 fu eletto un altro repubblicano, Herbert Hoover. Il primo decennio del dopoguerra fu improntato a un duplice isolazionismo: economico e politico. Si affermarono il protezionismo, l’individualismo affaristico, il rifiuto di lasciarsi coinvolgere nelle rinnovate tensioni europee, limitazioni all’immigrazione, l’esaltazione dello spirito americano. La legge che nel 1920 impose il proibizionismo – e cioè il divieto di fabbricazione e smercio degli alcolici (che rimase in vigore fino al 1933) – diede espressione all’ondata di moralismo conformistico puritano (immigrati e neri in particolare erano accusati di favorire attraverso l’abuso degli alcolici la degradazione fisica e morale del paese). In economia la potenza dei trusts trionfò, mentre il movimento sindacale si indebolì enormemente. Fu questa una vera e propria “età dell’oro”. In campo internazionale, gli Stati Uniti investirono però grandi capitali in Germania, cui diedero forti prestiti che contribuirono in maniera determinante alla ripresa di questo paese con i piani Dawes (1924) e Young (1928).

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10. La grande crisi del 1929 e il New Deal di F.D. Roosevelt

Nell’ottobre del 1929 il crollo della Borsa di New York investì come un ciclone l’economia statunitense, spazzandone via la prosperità e determinando una recessione paurosa, che colpì frontalmente anche l’Europa. Le cause principali della grande crisi erano da rintracciarsi nel divario fra l’enorme aumento della capacità produttiva industriale e agricola e l’insufficiente capacità di assorbimento del mercato interno, dovuta alla debolezza dei redditi degli operai e degli agricoltori e in generale degli strati salariati. Ad essa contribuì l’insufficienza del commercio internazionale. La crisi conobbe il suo apice tra il 1929 e il 1932, trascinando con sé, con effetti sociali e politici catastrofici, l’economia tedesca, assai dipendente da quella degli Stati Uniti. La produzione industriale crollò del 50% e la disoccupazione dilagò in maniera impressionante, generando una povertà diffusa nelle città e nelle campagne. La politica repubblicana improntata all’illimitata libertà degli affari e allo “stato minimo” venne messa sotto accusa, così che Hoover nel 1932 fu clamorosamente battuto dal democratico F.D. Roosevelt (1933-45). Questi lanciò un “nuovo corso”, il New Deal, che poggiava su due presupposti fondamentali: assicurare al paese una forte direzione politica nell’ora della crisi e varare un piano di riforme, centrate sull’iniziativa dello stato federale, per rilanciare l’economia. L’azione di Roosevelt fu fortemente osteggiata dai conservatori e da potenti settori del padronato, ma ottenne nondimeno notevoli successi, soprattutto ridando al paese la fiducia nelle proprie possibilità. Nel 1937, dopo che Roosevelt era stato trionfalmente rieletto nel 1936, si contavano ancora oltre 7 milioni di disoccupati, ma la grande crisi era domata. Nel periodo rooseveltiano i sindacati conobbero un forte sviluppo e il Committee for Industrial Organization (CIO), sorto nel 1935, diede un notevole appoggio alla politica del presidente.

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11. Dall’intervento nella seconda guerra mondiale alla “guerra fredda”

Scoppiata la seconda guerra mondiale in Europa nel settembre 1939, gli Stati Uniti si attennero inizialmente a una linea di neutralità, ribadendo il proprio isolazionismo. Ma i forti vincoli di interesse e di amicizia con la Gran Bretagna e la solidarietà con le potenze democratiche li spinsero progressivamente prima ad attenuare e poi a capovolgere questa posizione iniziale. Dopo che nel settembre 1940 gli USA ebbero concesso rilevanti aiuti all’Inghilterra assediata dai tedeschi, in novembre Roosevelt fu rieletto per la terza volta. Forte della vittoria, il presidente intraprese la strada che doveva fare del paese l’“arsenale della democrazia”. Nel marzo del 1941 fu varata la legge “affitti e prestiti”, che fu il mezzo per assicurare agli inglesi un flusso ininterrotto di mezzi militari e finanziari. La solidarietà fra le due grandi potenze atlantiche si espresse clamorosamente nell’agosto 1941, quando Roosevelt e Churchill fecero una dichiarazione comune, la “Carta atlantica”, che fissava i termini fondamentali per una ricostruzione dell’ordine mondiale su base democratica e antifascista. L’ingresso in guerra degli Stati Uniti contro le potenze dell’Asse, formalizzato l’11 dicembre 1941, fu determinato dal proditorio attacco giapponese contro la base navale statunitense di Pearl Harbor, nelle isole Hawaii. Lo sforzo militare americano fu diretto nel corso della guerra soprattutto in Asia contro il Giappone; ma fondamentale fu il suo apporto anche in Africa e in Europa. Gli Stati Uniti fornirono aiuti enormi non solo alla Gran Bretagna, ma anche all’Unione Sovietica. Il peso della loro macchina industriale ebbe un valore decisivo nella vittoria alleata, raggiunta nel maggio 1945 in Europa e in settembre in Asia. Proprio alla vigilia della vittoria, dopo essersi incontrato con Churchill e Stalin a Jalta (febbraio 1945), dove venne concordato l’intervento russo contro il Giappone e furono discusse le linee della divisione dell’Europa postbellica in sfere di influenza facenti capo alle potenze occidentali da un lato e all’URSS dall’altro, Roosevelt morì il 12 aprile 1945. Il suo successore Henry Truman (1945-48), per abbreviare la guerra in Asia, decise allora il lancio di due bombe atomiche contro le città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto), che indussero il Giappone a firmare il 2 settembre la capitolazione. L’intervento statunitense ebbe un peso ancora più determinante di quello, pur decisivo, avuto nella prima guerra mondiale. Il lancio delle due bombe atomiche sul Giappone divenne il tragico simbolo della potenza militare e del primato scientifico e tecnologico degli Stati Uniti.

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12. La leadership dell’Occidente

La fine della seconda guerra mondiale lasciò gran parte dell’Europa e il Giappone umanamente e materialmente devastati, mentre sugli Stati Uniti non era caduta neppure una bomba. Annientati la Germania e il Giappone, ridotte a potenze di secondo rango Gran Bretagna e Francia, gli Stati Uniti divisero con l’Unione Sovietica il peso del predominio mondiale, avendo però su quest’ultima una schiacciante superiorità economica. Palestra della leadership delle due superpotenze diventarono le Nazioni Unite (ONU). Ma i veicoli della leadership stabilita dagli Stati Uniti sull’Occidente nella seconda metà degli anni Quaranta – periodo in cui il mondo occidentale e il campo socialista si contrapposero rigidamente nel quadro della guerra fredda – furono essenzialmente due: il grande piano di aiuti economici lanciato nel 1947 dal segretario di stato Marshall, che ebbe un ruolo determinante nella ricostruzione dell’Europa occidentale, e la costituzione nel 1949 del Patto atlantico: un’alleanza militare cui l’URSS rispose nel 1955 con il Patto di Varsavia. La potenza imperiale statunitense poggiava sull’unione di forza economica e forza militare, ma anche su un’ideologia che esaltava il capitalismo democratico in contrapposizione non solo al comunismo, ma anche al connubio avvenuto in Europa fra capitalismo e fascismo. Mentre all’interno l’economia vedeva la piena occupazione, lasciando così alle spalle la crisi degli anni Trenta, la scena internazionale presentava punti assai oscuri per gli Stati Uniti. In Europa la tensione con l’URSS, giunta a un punto critico nel 1948 con il blocco di Berlino e il sostegno dato alla Iugoslavia comunista staccatasi dal blocco sovietico, era continua; in Cina nel 1949 il comunista Mao Tse-tung andò al potere sconfiggendo nella guerra civile i nazionalisti appoggiati dagli Stati Uniti; nel giugno 1950 le truppe comuniste della Corea del Nord invasero la Corea del Sud, dando inizio a una travolgente avanzata. Sotto l’egida delle Nazioni Unite e con il minore concorso di altre nazioni, gli Stati Uniti intervennero in Corea in forze, giungendo nel 1951 a scontrarsi con le truppe cinesi intervenute a fianco della Corea del Nord. Nel luglio di quell’anno fu stabilito un armistizio, che ristabiliva sostanzialmente lo status quo. Le ripercussioni sul clima politico interno dello scontro mondiale col comunismo furono assai forti. Si diffuse la caccia al comunista e al criptocomunista, alimentata dal senatore McCarthy, tanto che venne coniata l’espressione “maccartismo”. In questo contesto cadde il processo e poi la condanna a morte contro i coniugi Rosenberg, accusati di aver fornito segreti atomici ai sovietici. Il maccartismo e la prosperità economica favorirono l’elezione nel 1952 del generale repubblicano Dwight D. Eisenhower, uno dei grandi condottieri della seconda guerra mondiale. Egli scelse come proprio segretario di stato John Foster Dulles, che divenne l’interprete della dottrina del roll back, vale a dire della riconquista delle posizioni perdute nei confronti dell’URSS, in sostituzione di quella del “contenimento”. Il maccartismo trionfò, perdendo il senso di ogni limite, tanto da determinare infine una decisiva reazione quando giunse a mettere sotto accusa gli stessi vertici militari. Trionfalmente rieletto nel 1956, Eisenhower si trovò ad affrontare, in una situazione economica peggiorata, l’esplodere della questione razziale nel sud. Dopo che nel 1954 la Corte suprema aveva condannato la segregazione scolastica messa in atto negli stati meridionali e di fronte alla reazione aspramente negativa dei bianchi, scoppiarono disordini che culminarono nel 1957 nell’Arkansas, il cui governatore si oppose alla sentenza della Corte. Il presidente inviò truppe federali, imponendo la legge. In quello stesso periodo l’economia peggiorò notevolmente per l’effetto congiunto da un lato della ripresa industriale del Giappone e dell’Europa occidentale e dall’altro delle conseguenze dell’automazione, che diminuiva l’occupazione. I disoccupati nel 1958 superarono i 5 milioni. Il 1957 introdusse un altro elemento di crisi, legato ai successi spaziali dei sovietici, nel frattempo diventati una grande potenza atomica, i quali inviarono nei cieli il primo satellite artificiale (lo Sputnik), dando l’impressione di aver raggiunto il primato scientifico-tecnologico. Questo vero e proprio trauma provocò l’energica risposta degli Stati Uniti, che non solo già nel 1958 inviarono un loro satellite, ma diedero un grande impulso alle ricerche scientifiche. In campo internazionale, la diplomazia di Dulles operò infaticabilmente per contenere il pericolo comunista. Nel 1954 fu costituita la SEATO (Organizzazione del trattato dell’Asia del Sud-Est) e nel 1955 il Patto di Baghdad, diretti a completare il Patto atlantico. Una delle costanti più significative della politica statunitense fu l’appoggio dato a Israele di fronte all’ostilità del mondo arabo sostenuto dall’URSS. Se non che alla fine degli anni Cinquanta appariva evidente la necessità per le due superpotenze di prendere atto della vanità di ogni tentativo di alterare qualitativamente i reciproci rapporti di forza. Occorreva passare a una “coesistenza pacifica”, seppure costellata da periodiche tensioni. Questa coscienza venne sanzionata dall’incontro fra Kruscëv e Eisenhower a Camp David nel settembre 1959. Uno scacco gravissimo per gli Stati Uniti fu la costituzione di un regime comunista a Cuba a opera di Fidel Castro, salito al potere nel gennaio del 1959. La politica statunitense, volta a proteggere ad ogni costo la dominazione economica della società nordamericana United Fruit Company, contribuì in maniera determinante a fare di Castro un comunista alleato dei sovietici.

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13. Il ritorno dei democratici: Kennedy e Johnson. La guerra del Vietnam

Nel 1960 il partito repubblicano puntò su Richard Nixon, sperando nella popolarità lasciata da Eisenhower. Ma questi venne battuto per pochi voti da un giovane democratico cattolico, di origini irlandesi, appartenente a una della famiglie più ricche del paese, John Fitzgerald Kennedy (1961-63), il quale infiammò gran parte del paese chiamandolo a combattere per una “nuova frontiera” ideale, sociale e politica, rivolta a contrastare la miseria e a difendere la libertà e la democrazia. Kennedy dovette subito fare i conti con dure realtà all’esterno e all’interno. All’America Latina lanciò l’Alleanza per il progresso, promettendo grandi aiuti materiali e sostegno nella lotta per la democratizzazione; ma gli effetti pratici furono quanto mai modesti. Deciso a combattere l’influenza comunista sul continente latinoamericano, enormemente accresciuta dalla vittoria della rivoluzione castrista a Cuba, Kennedy appoggiò il tentativo fallimentare di abbattere Castro mediante uno sbarco di esuli anticastristi alla Baia dei Porci, compiuto nell’aprile 1961. Pochi mesi dopo, in agosto, i sovietici fecero erigere il “muro di Berlino”; il che peggiorò i rapporti tra le due superpotenze. Questi giunsero alla massima tensione nell’ottobre 1962, in relazione a Cuba. Qui Kruscëv aveva fatto installare missili sovietici; il che costituiva una minaccia senza precedenti per gli Stati Uniti. Kennedy ordinò il blocco navale dell’isola, inducendo i sovietici a ritirare i missili in cambio della promessa di non tentare nuove invasioni di Cuba. In luogo dello sviluppo della distensione, apparivano nuovi duri contrasti. Un terreno di confronto sempre più minato diventò il Vietnam, dove gli Stati Uniti, dopo il fallimento del progetto di unificazione del paese, avevano sostituito in prima persona i francesi nella lotta contro i comunisti del nord e nel sostegno a governi fantoccio. Kennedy compì il primo passo nella direzione di un coinvolgimento su vasta scala, portando la presenza degli americani sul territorio vietnamita a circa 30 mila unità. Anche la politica interna di Kennedy si accompagnò ai più gravi contrasti. Le promesse in campo sociale non furono sostanzialmente mantenute; al tempo stesso il presidente, in un clima contrassegnato da gravi disordini specie nel Mississippi, agì risolutamente per favorire l’integrazione civile dei neri del sud. Divenuto oggetto, per la sua ideologia progressista, di odi profondi Kennedy fu assassinato il 22 novembre 1963 a Dallas, in Texas, in un attentato le cui responsabilità non sono mai state accertate. Gli succedette il vicepresidente Lyndon B. Johnson (1963-69), che riprese le finalità progressiste del predecessore risalendo alle radici del New Deal e lanciando l’ideologia della “grande società”. Nel 1964 furono varate leggi importanti dirette da un lato a sostenere gli strati più deboli e dall’altro a porre fine definitivamente a ogni discriminazione fra bianchi e neri. Ma le reazioni non mancarono. Di fronte alle forti resistenze alla politica di integrazione, scoppiarono tumulti in varie parti del paese e gruppi estremisti organizzati di neri diedero origine ad azioni di vera e propria guerriglia, con numerosi morti. In politica estera, temendo il collasso del Vietnam del Sud, Johnson portò la presenza militare americana a livelli sempre più alti, fino a raggiungere il mezzo milione di uomini, facendo così della guerra vietnamita una guerra americana. Volendo la vittoria a ogni costo, Johnson arrivò a far bombardare nel 1965, senza dichiarazione di guerra, il Vietnam del Nord, allargando la guerra a quest’ultimo, in un contesto di violenze inaudite. Gli Stati Uniti si trovarono in una condizione di crescente isolamento internazionale; e all’interno il paese si divise fra gli oltranzisti e i loro oppositori. Infine, Johnson, prendendo atto che il Vietnam del Nord non crollava e constatando la forza persistente dei partigiani comunisti nel sud, nel maggio 1968 diede inizio a Parigi a trattative. I tremendi contrasti interni trovarono ulteriori espressioni nell’assassinio nell’aprile 1968 del leader nero del movimento non violento per i diritti civili Martin Luther King e in quello in giugno di Robert Kennedy, fratello di John e candidato democratico alla presidenza.

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14. Da Nixon a Carter. Il declino dell’“impero”

Le elezioni del novembre 1968 furono vinte dal repubblicano Richard Nixon (1969-74). Questi, in fama di conservatore accesamente anticomunista, si dimostrò per contro un politico assai realista proprio nei confronti del mondo comunista, fiancheggiato dal segretario di stato Henry Kissinger. Dopo aver tentato una estrema escalation militare contro il Vietnam del Nord e aver fatto invadere la Cambogia, vistone il fallimento ordinò nel marzo del 1973 il ritiro degli americani dall’Indocina. La guerra vietnamita finì nell’aprile 1975, con il collasso del regime vietnamita del sud e la riunificazione del paese. Del pari Nixon riprese i contatti con la Cina, che visitò nel 1972, e in quello stesso anno si recò a Mosca, firmando un accordo per la limitazione degli armamenti nucleari. Trionfalmente rieletto nel 1972, nell’agosto 1974 fu indotto alle dimissioni per essere stato travolto in un caso di spionaggio politico nella sede di Watergate del Partito democratico a Washington. Gli succedette il vicepresidente Gerald Ford. Un ruolo determinante ebbe l’amministrazione Nixon nell’appoggiare nel 1973 la caduta del socialista Allende in Cile e l’ascesa al potere del generale reazionario Pinochet. Il caso Watergate, che ebbe una ripercussione profondissima sull’opinione pubblica, ebbe un peso determinante nel favorire l’elezione del democratico Jimmy Carter (1977-81), che inaugurò la sua presidenza all’insegna dei “buoni sentimenti” e dei buoni costumi in politica. Carter, trovatosi a fronteggiare gli effetti della crisi energetica internazionale del 1973-74, tentò un piano, che non ebbe successo, di limitazione dei consumi energetici e di potenziamento delle risorse interne. Sulla scena internazionale, Carter, sostenuto dal suo consigliere Brzezinski, si fece paladino dei “diritti umani”, condannando i paesi autoritari che li violavano. Facendo leva sugli accordi in materia sottoscritti a Helsinki nel 1975, il presidente diede in particolare un aperto sostegno ai dissidenti sovietici perseguitati. In politica estera, Carter in un primo tempo ottenne notevoli successi, favorendo nel 1978 la pace fra Israele ed Egitto e realizzando la normalizzazione dei rapporti con la Cina nel 1979; in un secondo tempo, a causa della sua linea verso la rivoluzione iraniana, andò incontro a un grave insuccesso che doveva costargli la rielezione. Poiché, per protesta contro la politica americana avversa all’ayatollah Khomeini, le guardie della rivoluzione iraniana avevano occupato l’ambasciata statunitense a Teheran e preso in ostaggio nel novembre 1979 il suo personale, Carter autorizzò un’operazione di commando diretta alla loro liberazione; quando questa fallì, Carter venne travolto dalle critiche. Ciò contribuì ad aprire la strada all’elezione nel 1980 del repubblicano Ronald Reagan, un ex attore, già governatore della California.

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15. La “rivoluzione neoconservatrice” di Reagan e Bush. Il crollo sovietico e la fine del bipolarismo

La presidenza Reagan (1981-89) rappresentò una svolta profonda nella vita americana. Essa assunse un indirizzo ideologico accesamente conservatore, che in politica interna si pose come scopo la restaurazione dei valori dell’individualismo e un indirizzo economico liberistico, molto vicino al thatcherismo in Inghilterra, basato sulla lotta contro l’interventismo statalistico proprio dei democratici, sulla diminuzione del carico fiscale, sugli incentivi agli investimenti privati. Dopo gli anni iniziali di forte ottimismo nei confronti della reaganomics (l’indirizzo economico neoliberista di Reagan), il bilancio risultò fortemente contraddittorio e per alcuni aspetti sociali decisamente negativo. Furono sì rilanciati gli investimenti e l’innovazione tecnologica; ma il debito pubblico, per l’inadeguatezza della pressione fiscale nei confronti dei ceti più abbienti, salì enormemente; del pari la riduzione delle spese sociali e la disoccupazione aumentarono di molto l’emarginazione sociale e la fascia della povertà. Per contro grandi successi riportò la politica estera di Reagan. Questi si era impegnato, dopo la presidenza Carter, a rilanciare nel mondo l’immagine di un’America forte. Attuando una strategia decisamente interventista, volta a combattere su tutti i fronti l’URSS, da lui definito l’“impero del male”, Reagan sostenne l’azione delle forze delle guerriglia impegnate contro il regime comunistico del Nicaragua; fece invadere Grenada nel 1983 abbattendo il governo filocubano; contrastò duramente il dittatore libico Gheddafi accusato di sostenere il terrorismo internazionale, sino a far bombardare Tripoli; inviò navi nel Golfo Persico nel 1987 per proteggere gli interessi occidentali durante la guerra tra Iran e Iraq; diede un sostegno determinante alla guerriglia antisovietica in Afghanistan; appoggiò senza tentennamenti Israele. Nel 1983 Reagan, deciso a un confronto globale con l’URSS, lanciò il progetto fantascientifico Strategic Defence Initiative (SID), detto anche “guerre stellari”, avente quale obiettivo la costruzione di uno scudo protettivo globale contro ogni minaccia missilistica sovietica. L’alternativa lanciata da Reagan era una nuova corsa al riarmo su vasta scala oppure il rilancio della distensione. L’URSS, nella quale era salito al potere Gorbacëv nel 1985, scelse la seconda strada, anche perché consapevole, data la grave crisi economica interna, di non poter sostenere la sfida. Nel novembre del 1985 un incontro Reagan-Gorbacëv diede inizio a un nuovo corso nelle relazioni fra le due superpotenze. Un capitolo assai negativo per Reagan fu lo scandalo Iran-Contras Affair scoppiato nel 1986, che mise in luce la concessione di fondi neri ai guerriglieri in lotta con il Nicaragua ottenuti vendendo illegalmente armi al regime iraniano, che anche per questo aveva liberato gli ostaggi americani. Le elezioni del 1988 portarono alla presidenza George Bush (1989-93), già vicepresidente con Reagan. La sua amministrazione in qualche modo ripeté il modulo di quella del suo predecessore: bilancio insoddisfacente in politica interna e notevoli successi in politica estera. Tutti i mali dell’economia statunitense continuarono ad aggravarsi, e in primo luogo il debito pubblico e la condizione dello strato dei nuovi poveri, in un quadro di politica sociale accentuatamente conservatrice. Sulla scena internazionale Bush dovette confrontarsi anzitutto con i problemi enormi posti dalla crisi e poi dalla dissoluzione dell’impero sovietico; il che fece con energia e prudenza. Nella prima fase egli, proseguendo la linea di Reagan, ebbe numerosi incontri con Gorbacëv, favorendo la politica di distensione e il trapasso verso la democrazia nell’URSS (evitando di appoggiare oltre un certo limite i processi scissionistici per timore di un caos internazionale non controllabile); nella seconda fase, caduto Gorbacëv, diede il suo appoggio a Eltsin, con cui nel 1993 firmò un accordo che portò gli armamenti nucleari al livello di trent’anni prima. Un’azione quanto mai decisa Bush intraprese contro il dittatore iracheno Saddam Hussein, dopo che le truppe dell’Iraq ebbero invaso nell’agosto 1990 il Kuwait per impadronirsi delle sue enormi risorse petrolifere. Sotto l’egida dell’ONU e con l’appoggio militare secondario di altri paesi sia occidentali sia arabi, gli Stati Uniti intervennero cacciando gli iracheni dal Kuwait. Anche verso l’America Latina la politica di Bush fu assai attiva. Nel dicembre 1989 un intervento militare statunitense fu determinante nel provocare la caduta del dittatore di Panamá Manuel Noriega, uno dei capi del traffico mondiale della droga. Bush diede anche un appoggio fermo alla lotta contro i narcotrafficanti in Colombia. Un successo fu la caduta nel febbraio 1990 del regime sandinista in Nicaragua, rimasto isolato in conseguenza del crollo del comunismo sovietico. Se non che la diffusa insoddisfazione per la situazione economica interna fu determinante nel favorire la vittoria alle elezioni del 1992 del democratico Bill Clinton, rieletto poi nuovamente nel 1996.

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16. Dalla presidenza Clinton alla presidenza Obama. Gli USA unica superpotenza mondiale

Clinton si era presentato come fautore di una “nuova democrazia”, con un programma teso a far presa sia sui ceti medi, cui promise una politica di rigore finanziario, sia sugli strati popolari, a favore dei quali auspicò in particolare una seria riforma del sistema sanitario nazionale. Questa importante riforma, fortemente sostenuta dalla moglie del presidente Hillary, venne però vanificata dalla vittoria dei repubblicani alle elezioni del 1994, la quale diede loro per la prima volta dopo 40 anni il pieno controllo del Congresso. Perduta questa battaglia, Clinton fece oscillare il pendolo della sua politica in senso moderato, con una riforma del welfare introdotto da Roosevelt nel periodo del New Deal: in base al Personal Responsibility and Work Opportunity Reconciliation Act, si stabilì che nessuno potesse godere di sostegno economico da parte dello stato per più di cinque anni nel corso della sua vita e per più di due anni consecutivi. Inoltre furono ridotti i benefici agli immigrati. La presidenza Clinton poté godere di una eccezionale ripresa dell’economia americana, che consentì di risanare il debito lasciato in eredità dalle amministrazioni repubblicane e di ridurre la disoccupazione a un tasso che non aveva precedenti nel secolo. Nel 1998 Clinton rischiò l’impeachment dopo che, venuto alla luce un suo legame extraconiugale nel corso di un’inchiesta di carattere finanziario sulla sua attività precedente alla presidenza, mentì al procuratore incaricato delle indagini e venne accusato di ostacolarne il corso. Ma nel febbraio del 1999 il Senato respinse la richiesta di impeachment, già votata dalla Camera dei rappresentanti. Lo slancio dell’economia americana durante la presidenza Clinton fu favorito dal varo nel 1994 del North American Free Trade Agreement (NAFTA), che estese al Messico l’accordo firmato nel 1988 con il Canada per la creazione di una zona di libero scambio. In politica estera la presidenza Clinton fu la prima della storia americana ad essere caratterizzata dal ruolo assunto dagli USA di prima potenza mondiale senza rivali. Nei confronti della Federazione russa Clinton svolse una politica di appoggio senza incertezze a Eltsin, considerato il garante della transizione dal comunismo al capitalismo e il punto di equilibrio fra comunisti e nazionalisti di destra. Un ruolo molto attivo Clinton ebbe nei negoziati che portarono nel 1994 alla firma del trattato di pace tra Israele e l’OLP, che instaurò una zona di autogoverno palestinese a Gaza e Gerico. Una parte importante ebbero inoltre gli USA nel raggiungimento nel 1995 di un accordo con la Corea del Nord, in base a cui questa rinunciò a produrre armi nucleari. In relazione alla guerra civile scoppiata in Bosnia tra il 1992 e il 1995, gli USA tennero una atteggiamento di cautela, mentre essi assunsero decisamente la guida della guerra condotta nel 1999 dalla NATO contro la Iugoslavia per la questione del Kosovo. La campagna elettorale per le presidenziali del 2000 fu disputata tra il democratico Al Gore, vicepresidente in carica, e il repubblicano George W. Bush, figlio dell’omonimo ex presidente. Lo scrutinio fu deciso in favore di Bush dopo un contrastato spoglio dei voti nello stato della Florida e una serie di ricorsi alla magistratura. La nuova amministrazione avviò una politica economica marcatamente liberista (taglio delle tasse e dei servizi sociali, sostegno alle scelte dei monopoli) e neoisolazionista (rilancio dei progetti militari di sistemi antimissile, disimpegno dalla questione palestinese, disdetta degli accordi di Kyoto sulla riduzione dei gas responsabili dell’effetto serra), trovandosi spesso in contrasto con Cina, Fed. Russa, UE e Giappone. In seguito agli attentati terroristici dell’11.9.2001 a New York e Washington, che provocarono circa 3000 vittime, Bush avviò una guerra internazionale contro il terrorismo che raccolse il sostegno di gran parte della comunità internazionale. Dopo aver attaccato l’Afghanistan (ottobre 2001), accusato di ospitare basi dell’organizzazione al Qaeda, ritenuta responsabile degli attentati, gli USA minacciarono gli “stati canaglia” sospettati di sostenere il terrorismo internazionale. La gestione della guerra ebbe effetti sulla situazione interna (limitazione dei diritti politici e incremento dei consensi verso il Partito repubblicano che, nelle elezioni di metà mandato del 2002, conquistò la maggioranza in entrambi i rami del Congresso) e sulla politica estera, mostrando la determinazione degli USA ad agire anche al di fuori delle deliberazioni dell’ONU. Nel corso del 2002, nonostante il peggioramento della situazione economica, l’amministrazione Bush si concentrò prevalentemente sulla politica estera, esprimendo la ferma intenzione di porre fine al regime di Saddam Hussein in Iraq, considerato una grave minaccia alla stabilità internazionale, non solo perchè accusato di mantenere rapporti con al-Qaida, ma anche perché sospettato di essere in possesso di armi di distruzione di massa.
[Massimo L. Salvadori]
Intorno alla metà del marzo 2003, dopo il rifiuto opposto da Saddam all’ultimatum lanciato da Bush, ebbero quindi inizio le operazioni militari (Operation Iraqui Freedom) che, nonostante alcune difficoltà iniziali per via dell’inattesa resistenza da parte delle truppe irachene, si conclusero alla fine del mese successivo con l’occupazione di Baghdad e la conseguente caduta del regime del rais. Nonostante la fine del conflitto vero e proprio e la cattura di Saddam verso la fine dell’anno, le ostilità non si arrestarono e anzi continuarono, impegnando le forze americane in un’estenuante guerra di guerriglia che sarebbe costata svariate migliaia di vittime da ambo le parti. La questione irachena, il mancato ritrovamento delle armi di distruzione di massa e il continuo aumento delle vittime tra i militari americani furono al centro della campagna presidenziale del 2004, che vide contrapporsi Bush al candidato democratico John Kerry. Inaspettamente Bush fu riconfermato per un secondo mandato consecutivo, annunciando di essere intenzionato ad avviare un processo di riforma strutturale dell’economia americana, riducendo il debito e la disoccupazione. La popolarità di Bush fu tuttavia duramente colpita in occasione del devastante uragano (Katrina) che colpì duramente gli stati meridionali dell’Alabama, della Floria, della Luisiana e in particolare la città di New Orleans. L’amministrazione Bush fu accusata di inefficienza nell’opera di soccorso alle vittime e soprattutto di non prestare, per via della crisi irachena, sufficiente attenzione alle emergenze interne. La crescente disaffezione dell’elettorato verso Bush si tradusse nella vittoria dei democratici nelle elezioni di metà mandato del 2006, che riconquistarono la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Nelle successive elezioni presidenziali, impostando la propria campagna presidenziale sulla necessità di un rilancio dell’immagine americana nel mondo e di una politica socio-economica maggiormente attenta ai bisogni delle classi meno abbienti, nel novembre 2008 Obama si impose col 53% dei consensi sul senatore repubblicano John McCain, diventando così il 44esimo presidente degli Stati Uniti e il primo afroamericano a rivestire tale incarico. Tra i suoi primi atti rientrò, sul piano internazionale, la distensione dei rapporti con il mondo islamico. Dopo gli iniziali successi in politica estera e il consolidamento della propria popolarità, Obama dovette però fare i conti con le conseguenze disastrose provocate dalla crisi finanziaria globale del 2008, con l’emergenza ambientale scatenata nel 2010 dallo scoppio di una piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico e infine, divenendo oggetto di aspre critiche per via della perdurante stagnazione economica, della disoccupazione e della riforma sanitaria (infine approvata nel marzo 2010), con la crescente opposizione dei conservatori raccolti nel movimento del Tea Party. A queste difficoltà sul piano interno si aggiunsero poi quelle determinate sul piano internazionale dall’aggravarsi della situazione in Afghanistan, che comportò, a dispetto delle promesse elettorali, un rafforzamento del contingente militare statunitense, e dall’ondata di proteste di massa che, nel 2011, dopo aver determinato la caduta dei regimi di Ben Alì in Tunisia e di Mubarak in Egitto, degenerarono in guerra civile in Libia, dove gli Stati Uniti, pur prendendo parte alla coalizione, affidarono la gestione della crisi alla Nato. Rientrò nella medesima strategia di progressivo disimpegno militare, l’annuncio, nel dicembre del 2011, del completo ritiro dall’Iraq delle forze d’occupazione statunitensi. A fronte alle perduranti difficoltà interne, legate soprattutto alle incertezze economiche e alla forte polarizzazione tra repubblicani e democratici, emersa con forza in occasione della votazione del bilancio statale, rappresentò invece ragione di ampi consensi nel maggio 2011 l’annuncio dell’assassinio, per mano di un commando di marines statunitensi, di Osama bin Laden. Nell’estate dello stesso anno prese forma un vivace movimento di protesta, denominato “occupy Wall Street”, polemico nei confronti della grande finanza, accusata di essere la principale responsabile della crisi globale scatenatasi a partire dal 2008.
[Federico Trocini]

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100. TABELLA: Presidenti degli USA (1789-2011)

George Washington 1789-1793
George Washington 1793-1797
John Adams 1797-1801
Thomas Jefferson 1801-1805
Thomas Jefferson 1805-1809
James Madison 1809-1813
James Madison 1813-1817
James Monroe 1817-1820
James Monroe 1820-1825
John Quincy Adams 1825-1829
Andrew Jackson 1829-1832
Andrew Jackson 1832-1837
Martin Van Buren 1837-1841
William Henry Harrison Mar.-Apr. 1841
John Tyler* 1841-1845
James K. Polk 1845-1849
Zachary Taylor 1849-1850
Millard Fillmore* 1850-1853
Franklin Pierce 1853-1857
James Buchanan 1857-1861
Abraham Lincoln 1861-1865
Abraham Lincoln Gen.-Apr. 1865
Andrew Johnson* 1865-1869
Ulysses S. Grant 1869-1873
Ulysses S. Grant 1873-1877
Rutherford B. Hayes 1877-1881
James A. Garfield 1881-1885
Grover Cleveland 1885-1889
Benjamin Harrison 1889-1893
Grover Cleveland 1893-1897
William McKinley 1897-1901
William McKinley Gen.-Sett. 1901
Theodore Roosevelt* 1901-1905
Theodore Roosevelt 1905-1909
William H. Taft 1909-1913
Woodrow Wilson 1913-1917
Woodrow Wilson 1917-1921
Warren G. Harding 1922-1923
Calvin Coolidge 1923-1925
Calvin Coolidge 1925-1929
Herbert Hoover 1929-1933
Franklin D. Roosevelt 1933-1937
Franklin D. Roosevelt 1937-1941
Franklin D. Roosevelt 1941-1945
Franklin D. Roosevelt Gen.-Feb. 1945
Harry Truman* 1945-1949
Harry Truman 1949-1953
Dwight D. Eisenhower 1953-1957
Dwight D. Eisenhower 1957-1961
John F. Kennedy 1961-1963
Lyndon B. Johnson* 1963-1965
Lyndon B. Johnson 1965-1969
Richard Nixon 1969-1973
Richard Nixon 1973-1974
Gerald Ford* 1974-1977
James Earl (Jimmy) Carter 1977-1981
Ronald Reagan 1981-1985
Ronald Reagan 1985-1989
George Bush 1989-1993
William J. (Bill) Clinton 1993-1997
William J. (Bill) Clinton 1997-2001
George W. Bush 2001-2009
Barak Obama 2009-
*Presidenti entrati in carica per successione e non per elezione
Segretari di Stato degli USA (1929-2011)
Henry L. Stimson 1929-1933
Cordell Hull 1933-1944
Edward R. Stettinius 1944-1945
James F. Byrnes 1945-1947
George C. Marshall 1947-1949
Dean G. Acheson 1949-1953
John Foster Dulles 1953-1959
Christian A. Herter 1959-1961
D. Dean Rusk 1961-1969
William P. Rogers 1969-1973
Henry A. Kissinger 1973-1977
Cyrus R. Vance 1977-1980
Edmund S. Muskie 1980-1981
Alexander M. Haig 1981-1982
George P. Shultz 1982-1989
James A. Baker 1989-1992
Lawrence S. Eagleburger 1992-1993
Warren M. Christopher 1993-1997
Madeleine K. Albright 1997-2001
Colin L. Powell 2001-2005
Condoleezza Rice 2005-2009
Hillary Clinton 2009-

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