Roma antica

  1. Dalle origini alla monarchia
  2. Roma repubblicana
  3. I primi secoli della repubblica: politica interna ed estera
  4. Roma, l’Italia e lo scontro con Cartagine
  5. L’imperialismo romano e la crisi della repubblica
  6. Ottaviano e Antonio
  7. Le riforme e la società di Augusto
  8. L’eredità di Augusto
  9. Le dinastie dei Flavi e degli Antonini
  10. La fine dell’equilibrio augusteo
  11. L’apogeo della crisi
  12. Verso la ripresa: Diocleziano e Costantino
  13. La crisi dell’Occidente
  14. TABELLA: Imperatori romani
1. Dalle origini alla monarchia

In una zona paludosa situata a sud del basso corso del fiume Tevere, attorno all’VIII secolo a.C., si erano andate aggregando alcune comunità di contadini: le due più importanti facevano capo l’una al villaggio di Alba Longa, l’altra agli insediamenti dei colli romani e soprattutto del Palatino dove, secondo una tradizione leggendaria posteriore, fu fondato il quadrato originario della futura città di Roma a opera dei gemelli Romolo e Remo. Dopo la fondazione, nel 754 o 753 a.C. secondo la cronologia tradizionale, Roma avrebbe guidato una lega di comunità latine, ben presto venuta in contrasto con la lega di Alba Longa e con gli insediamenti della popolazione dei sabini sui colli reatini. Dalla successiva fusione di Roma con queste due realtà etniche viciniori nacque molto probabilmente il primo consistente nucleo del futuro stato romano. I primi istituti di governo della nuova realtà statuale furono sicuramente monarchici, anche se la tradizione dei sette re e la relativa successione di figure emblematiche dei monarchi (Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marcio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo), che avrebbero gettato le basi della futura potenza di Roma, sono frutto di un’elaborazione posteriore. Corrisponde certamente a verità storica la dominazione degli etruschi su Roma nel VI secolo a.C., scaturita da una massiccia infiltrazione di elementi di tale etnia fra le classi dirigenti romane e rappresentata dagli ultimi tre re della tradizione. L’egemonia etrusca, che determinò decisivi mutamenti nella vicenda politico-istituzionale e socioculturale romana, si concluse in effetti sullo scorcio del VI secolo, in concomitanza con la crisi della potenza etrusca in Campania, e coincise con la fine della monarchia (509 a.C.).

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2. Roma repubblicana

Come per l’età monarchica, anche sui primi anni della nuova repubblica romana le notizie in nostro possesso sono molto scarse. Sappiamo però che al posto dei re, i romani posero a capo dello stato due magistrati, dapprima scelti fra i comandanti militari col titolo di pretori; in seguito essi assunsero la denominazione definitiva di consoli. Numerose altre magistrature di rango inferiore (pretura, edilità, questura) si occupavano delle varie esigenze dello stato: dalla giustizia ai lavori pubblici, dai problemi pratici della vita cittadina al controllo delle finanze e delle uscite dello stato. Per impedire il pericolo di un’eccessiva concentrazione del potere, tutte le magistrature erano collegiali, elettive e annuali. La principale assemblea popolare della repubblica, in cui, in epoca storica, si radunavano tutti i cittadini maschi adulti, erano i “comizi centuriati”, cosiddetti perché in quell’assemblea i cittadini votavano per gruppi di cento o più individui (centuriae). Membri dell’assemblea erano gli stessi cittadini (che in caso di guerra dovevano armarsi a proprie spese per difendere Roma), divisi, a seconda della loro ricchezza, in cinque classi. I romani più ricchi, i nobili patrizi, che nell’esercito combattevano a cavallo e meglio armati, appartenevano alla prima classe. Le altre classi erano formate da cittadini con mezzi economici via via più modesti. L’ultima classe era costituita dai nullatenenti. I comizi centuriati eleggevano i magistrati più importanti come i consoli e i pretori; l’assemblea aveva inoltre la facoltà di approvare o respingere le leggi proposte dai magistrati. L’articolazione dei comizi era però tale che i ricchi patrizi della prima classe – i soli a poter essere eletti alle cariche più elevate – controllavano la maggioranza assoluta dei voti e imponevano quindi sempre la loro volontà. Nel nuovo stato repubblicano, accanto alle assemblee di popolo, anche il senato, l’assemblea dei patrizi, continuava ad avere il grande peso della prima età monarchica ed era anzi destinato a divenire in futuro il cardine della vita pubblica romana.

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3. I primi secoli della repubblica: politica interna ed estera

Fin dai primi tempi della repubblica si profilò un contrasto sociale e politico molto aspro fra i patrizi e i plebei, cioè fra la ristretta classe di coloro che detenevano il potere e tutte le altre componenti della società romana. L’iniziativa di una vera e propria sfida al potere quasi assoluto dei patrizi partì, con ogni probabilità, dai plebei benestanti, in prevalenza commercianti o artigiani, i quali promossero l’istituzione di assemblee (concili) dei plebei, guidate, con mandato annuale, dai cosiddetti “tribuni della plebe”. La prima conquista dei plebei, che usarono contro i patrizi l’arma della sospensione di ogni prestazione di lavoro e del rifiuto di prestare servizio nell’esercito, fu la promulgazione nel 451 a.C. delle prime leggi scritte di Roma (Dodici Tavole). I plebei ottennero anche il riconoscimento della funzione dei tribuni, dichiarati inviolabili e forniti del diritto di veto rispetto a qualsiasi decisione presa dai magistrati della repubblica che fosse da loro giudicata dannosa o contraria agli interessi della plebe. Solo nella prima metà del IV secolo, tuttavia, i plebei furono ammessi a rivestire le massime magistrature repubblicane ed entrarono quindi a pieno titolo nella realtà politica romana. Sul piano della politica estera la neonata repubblica di Roma fu dapprima coinvolta in una guerra con i latini, ai quali in seguito si alleò in lega per far fronte alla comune minaccia rappresentata da sabini, equi e volsci, sconfitti definitivamente nella seconda metà del V secolo a.C. Seguì la vittoria contro la potente città di Veio. Subito dopo Roma fu travolta dall’invasione delle popolazioni celtiche della Val Padana, che all’inizio del IV secolo a.C. sconfissero la lega latina e penetrarono in Roma (390 a.C. secondo la tradizione). La grave situazione determinatasi dopo il trionfo dei celti costrinse Roma a un faticoso lavoro di riorganizzazione interna dello stato: fu riordinata l’assemblea centuriata e ridefinito il quadro delle magistrature. La cura istituzionale – in cui rientrò anche il sempre maggior peso assunto dai concili plebei – si rivelò efficace e consenti a Roma di affrontare la politica estera con la necessaria tranquillità e autorità.

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4. Roma, l’Italia e lo scontro con Cartagine

Tra la seconda metà del IV e l’inizio del III secolo a.C., dopo una lunga e dura guerra contro i sanniti, popolazione dell’Appennino abruzzese e campano, Roma estese la propria egemonia su quasi tutta l’Italia peninsulare. Sconfitta definitivamente, nel 275 a.C., anche la città greca di Taranto e il suo potente alleato, il re dell’Epiro Pirro, un sovrano ellenistico con scoperte ambizioni di potenza, Roma si affacciò decisamente sul Mediterraneo e venne per la prima volta a contatto diretto e in competizione di interessi con la maggior potenza economica e commerciale che allora su quel mare operava, Cartagine. Città nordafricana di fondazione fenicia, Cartagine controllava direttamente la Corsica, la Sardegna e la Sicilia (meno Siracusa e Messina), e soprattutto manteneva il controllo sulle rotte commerciali che univano il Mediterraneo occidentale con quello orientale. Lo scontro di interessi fra Cartagine e Roma si trasformò ben presto in scontro armato. Un primo conflitto – la “prima guerra punica” – fu provocato da Roma e durò dal 264 al 241 a.C.: combattuta soprattutto sul mare, la guerra si concluse con la completa vittoria di Roma, che acquisì il controllo della Sicilia, della Sardegna e della Corsica, le prime provinciae romane. Seguì un ventennio di pace fra i due contendenti, di cui Roma approfittò per estendere il proprio controllo a parte dell’Italia settentrionale e per avviare un rapporto più intenso con le città della Grecia. Anche Cartagine, sotto la guida politica della famiglia dei Barca, si risollevò dalla disfatta e nel 225 a.C. stipulò con Roma un nuovo trattato che fissava precise sfere di influenza fra le due potenze. Poco tempo dopo però Roma ruppe volutamente l’accordo ed ebbe inizio la “seconda guerra punica” (218-201 a.C.). II condottiero cartaginese Annibale Barca prese di sorpresa l’avversario, attraversando le Alpi occidentali e portando l’esercito cartaginese in Italia. Una serie di battaglie perdute (al Ticino e alla Trebbia nel 218, presso il lago Trasimeno nel 217, a Canne nella piana dell’Ofanto in Puglia nel 216) condussero Roma sull’orlo della disfatta, evitata soltanto per l’impossibilità da parte di Annibale di sferrare l’attacco decisivo. Costretto Annibale a ritornare in patria, fu Roma a far sbarcare un esercito in Africa: i romani, guidati da Scipione Africano, travolsero i cartaginesi a Zama nel 202. Per Cartagine si trattò del disastro definitivo.

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5. L’imperialismo romano e la crisi della repubblica

La vittoria nella seconda guerra cartaginese proiettò Roma verso dimensioni di potenza egemone nel mondo occidentale e la spinse – non senza forti contrasti politici circa l’opportunità di tale strategia – a rivolgere la sua attenzione verso l’Oriente. Una serie di guerre vittoriose contro gli stati ellenistici di Macedonia (200-196 a.C.) e di Siria (192-189 a.C.) rese i romani padroni assoluti dell’intero Mediterraneo. La potenza di Roma fu ribadita nel 146 a.C. dalla distruzione di Cartagine – la “terza guerra punica” – e di Corinto, due atti imperialistici non giustificati se non come manifestazioni dissuasive di forza. La trionfale espansione militare coincise tuttavia per Roma con un periodo di gravi difficoltà interne. La classe dirigente romana era allora formata da due categorie di persone che traevano la maggior parte della loro ricchezza, e quindi il loro potere, rispettivamente dalla proprietà fondiaria o dalle attività mercantili. Il prevalere degli interessi dell’uno o dell’altro gruppo condizionava le scelte politiche della repubblica. Accanto alla classe senatoria latifondista si era progressivamente accresciuta la forza della “nuova” classe dei cavalieri, che monopolizzava il commercio e godeva della lucrosa esclusiva degli appalti delle opere pubbliche e della riscossione delle tasse. Mentre al vertice si consolidava tale situazione, problemi ben più gravi investivano i gradini inferiori della scala sociale e soprattutto la massa dei contadini, che costituiva la stragrande maggioranza della popolazione attiva romana: la crisi economica e produttiva determinata dal prolungarsi delle campagne militari aveva provocato la rovina di moltissimi piccoli proprietari terrieri e diffuso la disoccupazione. In un clima di sempre più gravi e pericolose tensioni intestine le riforme, pur non rivoluzionarie, tentate a distanza di circa dieci anni l’uno dall’altro (tra il 133 e il 121 a.C.) dai fratelli tribuni della plebe Tiberio Gracco e Caio Gracco, fallirono a causa della miopia politica e dell’egoismo di classe dei gruppi di potere. Alla fine del II secolo a.C. il dominio consolidato di Roma comprendeva, oltre all’ltalia, sette province (Asia, Africa, Macedonia, Spagna Citeriore e Ulteriore, Sicilia, Sardegna e Corsica). A dispetto di un’apparente solidità, lo stato romano soffriva però di una profonda debolezza, provocata dai problemi sociali e da una lotta intestina per il potere che era giunta ormai ai limiti della guerra civile. Il I secolo a.C. fu caratterizzato in effetti dal progressivo esaurirsi delle istituzioni repubblicane, dalla personalizzazione del potere e dalla transizione verso forme di governo autoritarie e tendenzialmente monarchiche. Le redini della politica finirono allora nelle mani di uomini forti, che approfittarono della debolezza dello stato per imporre la loro volontà: si trattò in prevalenza di generali che negli anni delle guerre di espansione avevano stretto con le loro truppe legami saldissimi fino a farne dei veri e propri eserciti personali. Gli eserciti, d’altra parte, erano ormai composti da soldati di mestiere, fedeli al comandante che offriva loro le migliori opportunità di guadagno e disposti a seguirlo anche qualora infrangesse le leggi della repubblica. Nei primi due decenni del secolo lo scontro tra Caio Mario e Lucio Silla si concluse con il trionfo di quest’ultimo, che per quattro anni (83-79 a.C.) governò da dittatore con il pieno sostegno del senato. Alla sua morte, nel 78 a.C., la crisi della repubblica precipitò ulteriormente. Le rivolte di Sertorio in Spagna e la rivolta schiavile di Spartaco (73-71 a.C.) in territorio italico furono soltanto gli episodi più gravi di una situazione di guerra civile permanente, che non risparmiava nessuna area geografica e sociale dello stato romano. Sulla scena politica comparvero allora Gneo Pompeo e Giulio Cesare. Il primo, generale sillano, creò la sua fortuna politica eliminando il flagello dei pirati che sconvolgevano i traffici commerciali di tutto il Mediterraneo e conquistando stabilmente per Roma l’intero Medio Oriente fino al confine con il regno dei parti. Il secondo, patrizio di simpatie mariane, avrebbe acquisito a Roma l’intera Gallia con una campagna di conquista durata dal 59 al 50 a.C. In quegli anni, mentre la crisi sociale ed economica in Italia toccava l’apice e strati sempre più ampi della popolazione delle campagne e delle città formavano ormai una massa indifferenziata di indigenti, il senato non era più in grado di affrontare la situazione. Per alcuni anni la guida dello stato passò allora di fatto nelle mani di un triumvirato (60 a.C.) formato da Pompeo, da Cesare e dal ricco senatore Crasso, che svolsero una politica moderata di sostanziale equidistanza dal senato e dalla plebe. Mentre però Cesare era ancora impegnato in Gallia, morto Crasso in Oriente durante una guerra contro i parti (53 a.C.), Pompeo si riavvicinò decisamente al senato e ruppe l’alleanza con Cesare. La guerra civile che ne seguì si protrasse fino al 48 a.C., quando l’esercito di Cesare sconfisse quello di Pompeo a Farsalo. Pompeo, fuggito in Egitto, vi trovò la morte. Ritornato a Roma nel 46 a.C., Cesare governò dando corpo a un organico piano di riforme che avviarono a soluzione alcuni nodi della crisi ormai secolare della repubblica. Ma il suo potere di monarca occulto, sostenuto dal consenso popolare, risultò intollerabile per gli interessi dei senatori e per i sostenitori più intransigenti della tradizione repubblicana: Cesare fu assassinato in senato il 15 marzo del 44 a.C., le idi di marzo secondo il calendario romano.

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6. Ottaviano e Antonio

L’assassinio di Cesare segnò in modo drammatico la conclusione della plurisecolare esperienza di Roma repubblicana. La sua morte provocò immediatamente gravi scontri fra opposte fazioni a Roma e in Italia. Le classi popolari e i veterani si sollevarono contro i congiurati rappresentanti della nobiltà più conservatrice: fu portato insomma alle estreme conseguenze quel conflitto di interessi e di potere che ormai da decenni contrapponeva da un lato l’aristocrazia tradizionalista e dall’altro i ceti emergenti, la nuova aristocrazia dell’espansione e del commercio, le classi medie in rapida mobilità, la complessa e articolata fascia dei ceti inferiori e gli elementi politicamente più intelligenti della stessa nobiltà senatoria. Le idi di marzo sgombrarono inoltre ogni illusione circa la possibilità di risolvere la crisi senza trovare preventivamente uno sbocco stabile al conflitto sociale e istituzionale. Ben presto i cesaricidi e i loro seguaci constatarono di non essere in grado di aggregare ampi consensi. Molti senatori preferirono prudentemente fuggire da Roma. La reazione dei veterani e della piazza romana stroncò ogni loro velleità. La rabbia popolare aumentò anzi ulteriormente quando venne letto pubblicamente da Marco Antonio, amico di Cesare, il testamento di questi, che lasciava a ogni plebeo di Roma una somma considerevole di denaro. I congiurati abbandonarono Roma e la lotta contro di loro fu condotta, oltre che da Marco Antonio, dal diciottenne Ottaviano (il futuro Augusto), pronipote e figlio adottivo dello stesso Cesare. Prima di risolvere il conflitto però, Marco Antonio e Ottaviano, insieme a Lepido, provvidero a stringere un accordo ufficiale che istituiva un triumvirato con il compito di guidare la città, di sconfiggere gli assassini di Cesare e di rimettere ordine nelle istituzioni di Roma. Ottaviano e Antonio si trasferirono oltre Adriatico, dove nel 42 a.C., in Macedonia, sconfissero i capi della congiura anticesariana Bruto e Cassio nella battaglia di Filippi. Seguì un periodo oscuro di vendette e assassini politici, mentre i vincitori si spartivano lo stato: Marco Antonio si assicurò il controllo di tutta la parte orientale dello stato romano; a Ottaviano venne assegnata la Spagna e l’Italia, mentre Lepido ebbe il governo dell’Africa. Marco Antonio, alleatosi con la regina d’Egitto, Cleopatra, dominò l’Oriente con atteggiamenti da re assoluto, assai sgraditi al senato romano. La propaganda di Ottaviano accreditò anzi l’immagine di un Antonio intenzionato a stabilirsi definitivamente in Oriente e a regnare da lì sull’intero stato romano. Venne allora organizzata una spedizione contro di lui e Cleopatra: nel 31 a.C. ad Azio, nel mar Ionio, si combatté una grande battaglia navale fra le due forze in campo. Ottaviano ottenne una vittoria schiacciante, mentre Antonio e la regina fuggirono in Egitto dove si diedero poi la morte. Ottaviano restò così l’unico padrone di Roma.

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7. Le riforme e la società di Augusto

Accingendosi a compiere la sua complessa riforma istituzionale, Ottaviano evitò brusche rotture con il passato. Egli indirizzò anzi ogni suo sforzo al fine di presentare se stesso come restauratore della repubblica, sottoponendo il proprio programma al controllo del senato e del popolo di Roma. Accreditare un nuovo ordinamento come ricomposizione di un ordine antico e mascherare da restaurazione quella che era di fatto una rivoluzione furono gli obiettivi di un’audace scommessa, che Ottaviano giocò e vinse. Ottaviano aveva ben presenti nella memoria gli esempi da non imitare di Cesare e di Antonio, cioè di un potere personale giunto al culmine e crollato tragicamente allorché stava per trasformarsi in vera e propria monarchia. La linea di intervento che egli scelse fu quindi quella di individuare gli strumenti utili per condizionare l’intera attività legislativa dello stato, senza rivestire direttamente cariche elevate. Per raggiungere il suo obiettivo occorreva però compiere comunque un percorso obbligato attraverso le istituzioni ancora in vigore: in effetti, dal 31 al 23 a.C., Ottaviano si fece eleggere ogni anno al consolato, rivestendo la magistratura suprema per tutto il tempo necessario ai fini della definizione della nuova figura del “principe”. Nel 27 il senato gli attribuì l’appellativo onorario di Augusto, dai pregnanti contenuti politico-religiosi. Accanto a tale titolo, che da allora in poi avrebbe accompagnato tutti gli imperatori romani, e al patronimico “figlio del dio Cesare” (divi Caesaris filius), Ottaviano non accettò altri titoli oltre a quello di princeps (= primo fra i cittadini), che già in passato era stato utilizzato per designare personaggi benemeriti dello stato. Nel 27 a.C., mentre già procedeva al riordino delle carriere dei senatori e dei cavalieri, Augusto mise in atto una grande riforma amministrativa: delle 41 province che componevano l’impero quelle nelle quali era necessaria la presenza costante di truppe furono poste sotto il diretto controllo del principe. Le province già pacificate, prive di truppe, rimasero invece sotto il controllo del senato, che le amministrava tramite governatori eletti con il sistema tradizionale. Mediante tale riforma Augusto acquisiva di fatto il comando di tutto l’esercito, poi sancito nel 23 a.C. dall’attribuzione dell’imperium proconsulare maius, e non scontentava troppo i senatori giacché le province rimaste sotto il loro controllo erano quelle nelle quali essi avevano i più consolidati interessi economici. Nello stesso 23 il principe assunse anche la tribunicia potestas, secondo cardine del suo potere: essa comportava l’assunzione di tutte le prerogative proprie degli antichi tribuni della plebe: l’inviolabilità, il diritto di veto, il diritto di convocare il popolo in assemblea. Augusto abbandonò allora definitivamente il consolato: imperio proconsolare massimo e potestà tribunizia gli consentivano infatti di dirigere da posizioni di forza, senza rivestire direttamente cariche magistratuali, quella che ancora si chiamava la “repubblica romana”. Il nuovo ordinamento di Augusto coincise in larga parte con il riassetto delle carriere pubbliche e degli uffici amministrativi centrali e provinciali. Egli procedette a una trasformazione della carriera senatoria, senza abolire nessuna delle magistrature repubblicane che dovevano anzi obbligatoriamente essere rivestite da chi volesse in seguito assumere funzioni di potere effettivo e di grande rilievo. Alla carriera senatoria Augusto affiancò una carriera equestre completamente rinnovata, che consentiva ai cavalieri, tradizionali avversari politici dei senatori e perciò più propensi a seguire le direttive imperiali, di ottenere potenza e prestigio sociale pari a quello dei senatori. La “rivoluzione” di Augusto ebbe effetti notevoli anche sulla struttura sociale dello stato romano. La sua azione riformatrice e pacificatrice determinò una forte ripresa economica e portò alla diffusione di un discreto benessere presso tutti i ceti; l’economia riprese a fiorire; la produzione agricola crebbe in tutto l’impero; i commerci conobbero un grande sviluppo; gli allevamenti si arricchirono. Non mancava però qualche dato contraddittorio: ad esempio, la conclusione delle guerre influì negativamente sul mercato degli schiavi; a sua volta la carenza di schiavi determinò la nascita del colonato e del bracciantato agricolo libero, cioè la formazione di una nuova classe inferiore su cui si sarebbero in futuro scaricati gli effetti più dannosi delle crisi economiche. In ogni caso la pace e altre realizzazioni di grande impatto psicologico su larghissimi strati dell’opinione pubblica, nonché l’azione propagandistica culturale e politica sostenuta dagli intellettuali al servizio del principe, aggregarono attorno ad Augusto un consenso sociale vastissimo e tale da stroncare ogni velleità di rivincita da parte di alcuni settori dell’aristocrazia senatoria.

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8. L’eredità di Augusto

La struttura attorno a cui Augusto aveva costituito il suo potere non prevedeva un criterio obbligato di successione. L’opinione pubblica romana era però consapevole del fatto che la figura del principe, governante e garante insieme, era il perno insostituibile del nuovo sistema. Occorreva quindi scegliere comunque un successore. Ragioni di opportunità politica convinsero Augusto a ricercarlo nell’ambito della propria gens e a indicare per tempo all’opinione pubblica l’erede designato. A causa della morte di altri eredi prima designati, la scelta cadde infine su Tiberio, figlio di primo letto della sua terza moglie Livia, che gli succedette nel 14 d.C. Giunto al potere all’età di 56 anni, Tiberio regnò, almeno nei primi tempi, con intelligenza politica, mantenendo un atteggiamento di sostanziale rispetto delle prerogative e del prestigio dell’ordine senatorio; operò inoltre interventi di politica finanziaria organici ed efficaci. Più tardi, tuttavia, una serie di circostanze alterarono l’equilibrio della condotta di Tiberio, che iniziò allora a subire in modo sempre più palese l’influenza del prefetto del pretorio Seiano. Alle coorti pretorie, composte di alcune migliaia di effettivi, era stato affidato da Augusto il compito di salvaguardia della persona del principe: esse costituivano l’unica forza militare organizzata e addestrata presente sul territorio italico e per questo per quasi tutti i primi tre secoli dell’impero svolsero nel bene e nel male un ruolo di condizionamento dell’azione politica dei principi. Nel 27 Tiberio, che si era ormai alienato sia la benevolenza del senato sia l’appoggio dell’opinione pubblica, abbandonò Roma e si ritirò a vivere a Capri: da allora in poi egli si impegnò, fino alla morte (37), in una sistematica repressione di veri o presunti attentatori del suo potere. A Tiberio, successe Gaio, soprannominato Caligola (37-41) dal nome delle piccole calzature militari (caligulae) che portava da bambino. Caligola regnò per quattro anni in maniera tirannica e incoerente, pretendendo che la sua persona e quella dei suoi familiari fossero oggetto di culto divino e compiendo atti irresponsabili sia in politica interna sia in politica estera, fino a quando fu eliminato dai pretoriani. Assai più equilibrato risultò il regno del suo successore Claudio (41-54). Fino ad allora estraneo alla vita politica, colto studioso di storia preromana, Claudio fu acclamato imperatore dal senato su iniziativa dei pretoriani, che lo consideravano individuo facilmente manipolabile. In realtà la personalità di Claudio si rivelò tutt’altro che debole e negli anni in cui fu al potere resse l’impero con acume e intraprendenza: la sua attenzione si rivolse in particolare alle province, di cui favorì la romanizzazione. Egli permise l’ingresso in senato anche a ricchi rappresentanti dell’aristocrazia fondiaria di una provincia fra le più avanzate nel processo di romanizzazione, la Gallia sudorientale. Fu questo un provvedimento assai impopolare presso gli ambienti conservatori della nobiltà senatoriale di Roma, che temevano sia la fine del loro monopolio di potere sia la concorrenza dei latifondisti galli. Grande impulso Claudio diede ai lavori pubblici su tutto il territorio dell’impero, dalla rete stradale agli acquedotti, dai canali alle imprese di bonifica, all’edificazione di nuovi porti (Ostia). Il regno di Claudio fu interrotto tragicamente dalla moglie Agrippina, che, in accordo col prefetto del pretorio Afranio Burro avvelenò Claudio al fine di insediare sul trono il proprio figlio di primo letto Nerone. Il regno di Nerone (54-68) espresse in maniera politicamente assai concreta la contraddizione di un potere sempre più incerto, a distanza di circa mezzo secolo dal principato di Augusto, fra la tentazione della monarchia assoluta e la difficile salvaguardia dell’equilibrio fra i ceti e del consenso di tutti. In effetti fra il 54 e il 59 Nerone, ispirato dal filosofo Seneca, governò in accordo con il senato; successivamente, però, con un deciso cambio di orientamento politico-ideologico, egli preferì assumere comportamenti propri di un monarca assoluto orientale. Il nuovo indirizzo di governo gli inimicò le classi dirigenti, ma gli conciliò in compenso il favore del popolo, che apprezzava sia la pompa sfarzosa di cui l’imperatore si circondava, sia le ripetute elargizioni, sia l’allestimento di sontuosi spettacoli, sia il largo impiego di disoccupati nella megalomane opera di ricostruzione seguita al disastroso incendio di Roma del 64. Nerone non fu in grado però di gestire un mutamento così profondo di linea politica: egli commise infatti molti errori di prospettiva e misura, rendendo vano quanto di positivo pure aveva fatto. Le sue iniziative megalomani e la repressione violenta degli oppositori aristocratici scatenarono fermenti di ribellione: nel 68, ormai in totale disgrazia, tentò una breve fuga per poi scegliere il suicidio.

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9. Le dinastie dei Flavi e degli Antonini

Con Nerone si esaurì la dinastia della famiglia di Augusto. I disordini iniziati nell’ultima fase del suo regno continuarono con violenza nel 69: dopo un anno di duri scontri civili, un generale di origine sabina, Vespasiano, riuscì a prendere le redini del potere (69-79). L’impero che Vespasiano ereditava, nonostante le follie neroniane, era un organismo sostanzialmente prospero, caratterizzato sul piano sociale ed economico da due fenomeni paralleli: la crescita e l’intraprendenza dei ceti medi e l’importanza sempre maggiore delle province rispetto all’Italia. Vespasiano assecondò entrambi i fenomeni, occupandosi in particolar modo della valorizzazione del ruolo dei provinciali in ogni settore della vita pubblica dell’impero. Oculato amministratore delle finanze statali, Vespasiano si occupò anche con successo di limitare il peso e l’ingerenza politica dell’esercito e fece approvare dal senato una definizione per legge delle sfere di competenza e delle prerogative di governo del principe e del senato. A Vespasiano succedettero, nell’ordine, i figli Tito e Domiziano. Il primo, che sotto l’impero del padre aveva condotto la spedizione in Palestina contro i ribelli ebrei distruggendo Gerusalemme, regnò per soli due anni, dal 79 all’81, lasciando un buon ricordo di sé. Il suo regno fu segnato da gravi sciagure come l’eruzione del Vesuvio (79) che distrusse Pompei, Ercolano e Stabia. Domiziano (81-96), ripeté invece molti errori già compiuti da Caligola e da Nerone, ai quali si sommarono insuccessi pesanti in politica estera. Finì assassinato da una congiura di senatori, i quali insediarono sul trono Nerva (96-98). Nel II secolo, comunemente considerato la stagione più felice dell’impero, Roma trovò un forte equilibrio interno che durò senza scosse per circa ottant’anni, grazie anche al nuovo meccanismo di successione imperiale introdotto da Nerva. L’anziano principe rivelò appena eletto un’energia insospettata, riuscendo a conciliare la piena autonomia decisionale del principe con una politica che gli accattivò il favore sia delle classi elevate sia del popolo. Il suo capolavoro politico fu appunto l’invenzione del meccanismo dinastico della “adozione”: egli adottò pubblicamente, designandolo come suo erede, il generale spagnolo Traiano. La libera scelta del successore, che veniva adottato come figlio, rispondeva a una duplice esigenza: da un lato salvaguardava il principio, caro al senato, della “scelta del migliore” alla guida dell’impero, mentre dall’altra ribadiva il concetto dell’ereditarietà dinastica ben accetto al popolo. Traiano succedette a Nerva nel 98 e rimase al potere fino al 117. Il tratto saliente del suo impero furono le campagne militari vittoriose che egli condusse contro i daci, i parti e gli arabi nabatei. In particolare la campagna che portò all’annessione della Dacia permise a Roma di acquisire le enormi risorse minerarie, soprattutto aurifere, di quella regione. L’afflusso dell’oro dei daci nelle casse dello stato consentì a Traiano di compiere una seria politica finanziaria, sgravi fiscali, provvedimenti di tipo assistenziale e umanitario, importanti lavori pubblici; egli si occupò inoltre del riordino delle amministrazioni cittadine, necessario in un periodo di forte urbanizzazione. La grande campagna militare contro i parti fu resa anch’essa possibile dalla prosperità economica dell’impero, mentre la conquista dell’Arabia, a sud-est del mar Morto, consentì ai romani di controllare tutte le vie commerciali carovaniere che collegavano l’Occidente con l’India e con l’Estremo Oriente. Salito al trono non senza qualche ombra circa il modo della sua adozione da parte di Traiano, Adriano (117-38), di origine spagnola come il suo predecessore, perseguì una politica tesa in primo luogo a consolidare i confini dell’impero, di cui non riteneva utile un’ulteriore espansione. Al contrario di Traiano, Adriano favorì il decentramento e valorizzò ampiamente il ruolo delle province. Iniziò il reclutamento regionale degli eserciti, mentre si provvide a una grande riforma amministrativa dello stato, con l’impiego sempre più massiccio dell’ordine equestre nella burocrazia. Adriano viaggiò molto in Grecia e in Oriente dove le sue inclinazioni per la cultura ellenistica trovavano largo apprezzamento. Durante il suo regno una grave ribellione ebraica venne stroncata nel sangue e Gerusalemme fu nuovamente distrutta e trasformata in colonia imperiale. Gli succedette Antonino (138-61), poi detto Pio, originario della Gallia: egli regnò nel periodo in assoluto più pacifico per lo stato romano, risiedendo stabilmente a Roma, in una corte affollata di intellettuali. La sua azione politica, come era logico in un periodo di pace, fu tesa soprattutto al miglioramento delle condizioni di vita della società romana, che si realizzò nell’estensione del diritto di cittadinanza a molti provinciali, in una legislazione umanitaria e nella promozione dell’istruzione pubblica.

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10. La fine dell’equilibrio augusteo

Ad Antonino Pio subentrò nel 161 Marco Aurelio, uomo di vasta cultura filosofica. Egli dovette subito affrontare con il fratello Lucio Vero, associato al trono, una guerra contro i parti. Il conflitto fu vittorioso, ma il successo non poté essere consolidato per la necessità di far fronte alle popolazioni germaniche e iraniche dei marcomanni, dei quadi e degli iazigi, che avevano varcato il limes e dilagavano in territorio romano. Inoltre i soldati che provenivano dall’Oriente diffusero in tutto l’impero una terribile epidemia di peste: i morti si contarono a centinaia di migliaia, con pesanti ripercussioni demografiche ed economiche. Nel frattempo l’invasione era penetrata profondamente verso sud fino alle rive dell’Adriatico settentrionale. Soltanto nel 175 Marco Aurelio riuscì a ricacciare i barbari oltre il confine. Contemporaneamente però, in Oriente, il generale Avidio Cassio si era ribellato, proclamandosi imperatore. Domata nel 176 la ribellione, ripresero le ostilità sul fronte danubiano. Nel 180, mentre guidava le truppe contro marcomanni e quadi, Marco Aurelio morì a causa di una malattia improvvisa, forse la stessa peste. Contravvenendo al principio dell’adozione del migliore Marco Aurelio aveva scelto come successore Commodo, ultimo sopravvissuto dei suoi dodici figli naturali. Nei dodici anni di regno di Commodo (180-92) non furono né affrontati in modo efficace né tanto meno risolti i diversi problemi che affliggevano l’impero: inflazione, crisi economica, conseguenze della peste, sollevazioni sociali e religiose, nuove invasioni barbariche. Per mantenere il proprio potere il nuovo imperatore si comportò tirannicamente, facendo nel contempo ricorso a forme rozze ma efficaci di propaganda. L’ostilità del senato, accresciuta dalla scelta monarchica di Commodo e dalla sua pretesa di essere adorato come un dio, sfociò in una congiura di palazzo che nel 192 pose fine all’esistenza dell’ultimo rappresentante della dinastia degli Antonini. Seguì un periodo d’incertezza politica e di lotte fra vari pretendenti al trono imperiale. Nel 193 risultò vincitore e divenne padrone dell’impero Settimio Severo, un cavaliere originario dell’Africa proconsolare. Uomo d’armi e insieme profondo conoscitore delle realtà locali dell’impero, nelle quali spesso più viva si faceva sentire la crisi, Settimio Severo mutò decisamente politica rispetto ai predecessori. In primo luogo egli si preoccupò di rafforzare l’esercito e di portarne a compimento il processo di completa provincializzazione. Tale scelta, d’altro canto, comportò una crescita progressiva degli stipendi militari con conseguenze pesanti sul bilancio statale. La provincializzazione si estese anche ai quadri dell’amministrazione pubblica. Il senato vide restringersi ulteriormente i propri spazi di potere: un consiglio di fiducia del principe, ispirato dai più grandi giuristi della storia di Roma, assunse di fatto funzioni e autorità superiori a quelle dell’assemblea senatoria. Ben poco Settimio Severo poté fare invece contro la crisi di produzione agricola, che, salvo poche realtà locali come la prospera provincia dell’Africa occidentale, affliggeva l’impero. Nel 211 gli successe il figlio Caracalla. Egli emanò una “costituzione”, in base alla quale il diritto di cittadinanza romana veniva esteso praticamente a tutti i residenti entro i confini dello stato (212). Ispirato da esigenze di semplificazione amministrativa e dalla necessità di un maggior controllo e ampliamento delle entrate fiscali, il provvedimento si inseriva nella linea politica di attenzione alle province inaugurata da Settimio Severo. Per la prima volta, almeno dal punto di vista dei doveri e dei diritti civili, tutti i sudditi dell’impero divenivano uguali. Caracalla fu ucciso nel 217 a Carre, mentre si accingeva a una campagna contro i parti. Gli anni successivi furono caratterizzati dalla grande influenza esercitata sulla scena politica romana da un gruppo di donne di origine siriaca della famiglia dei Severi, che per la prima volta nella storia di Roma misero in discussione il monopolio maschile del potere. A Caracalla succedette il prefetto del pretorio che l’aveva ucciso, Macrino (217-18), a sua volta eliminato pochi mesi dopo da una congiura. Salì allora sul trono il giovanissimo Avito Bassiano. Questo impose a Roma, assumendone egli stesso il nome, il culto di Elagabalo, una religione solare che avevano portato con loro dalla Siria le donne dei Severi. Tale culto si basava sulla credenza nella superiorità del dio Sole su tutti gli altri dei. L’imperatore era il suo rappresentante in terra, secondo un’ideologia regale che mirava ad attribuire un fondamento divino al potere del principe, al pari del Sole unico vero sovrano. Anche Elagabalo fu ucciso in seguito a una congiura di pretoriani nel 222. Gli succedette il cugino Severo Alessandro. Il nuovo imperatore, pur privo di adeguate doti di comando e di governo e perciò affiancato dalla madre nella gestione dell’impero, seppe tuttavia conciliarsi i consensi di larghi strati della società romana regnando secondo principi umanitari e di tolleranza religiosa. Inoltre la felice decisione di inserire nel suo consiglio sedici senatori contribuì ad attenuare il risentimento accumulato dal senato nei confronti della dinastia severiana. Ma i fantasmi incombenti della crisi economica e della guerra sui fronti renano-danubiano e orientale, lo portarono alla rovina. Nel 235 mentre si trovava a Magonza, sul limes, fu ucciso insieme alla madre dalle legioni pannoniche in rivolta. Gli stessi reparti acclamarono imperatore un loro comandante, Massimino il Trace (235-38). Con la morte di Severo Alessandro si apriva il drammatico periodo dell’anarchia militare, riflesso politico della grande crisi globale del III secolo.

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11. L’apogeo della crisi

Nel cinquantennio che seguì all’esaurirsi della dinastia severiana, l’esercito si presentava ormai come l’unica forza reale in un impero tormentato dai problemi economici e minacciato dai nemici lungo tutto il confine. Le legioni usarono questa forza per acclamare e deporre gli imperatori, che spesso restarono in carica per brevissimo tempo. Non di rado accadde in quegli anni che diverse legioni proclamassero contemporaneamente i loro rispettivi comandanti imperatori, scatenando così lotte violente per l’acquisizione della completa legittimità e del potere in una situazione di grave disordine e di sostanziale anarchia. Verso la metà del III secolo le sorti dell’impero parevano segnate: lo stato si divise in tre tronconi. A est e a ovest si formarono due stati indipendenti: il primo in Gallia, il secondo in Siria, dove regnavano i signori dell’importantissima città commerciale di Palmira, Odenato e la moglie Zenobia. Gli imperatori “legittimi” di allora, che controllavano ormai soltanto il centro dell’impero, non ebbero la forza per reagire e dovettero accettare il fatto compiuto della divisione. La minaccia ai confini intanto si faceva sempre più concreta. Nel 251 l’imperatore Decio – primo persecutore sistematico del cristianesimo (249) che andava allora sempre più diffondendosi quale rifugio di speranza in un’età di angoscia – fu sconfitto e ucciso in battaglia dai goti, una popolazione germanica che proveniva dall’estremo nord dell’Europa. Pochissimo tempo dopo un altro imperatore, Valeriano (253-60), fu fatto prigioniero in Oriente, deportato e poi eliminato dai persiani. In Asia, nel grande impero dei parti, era in effetti salita al potere una nuova dinastia, quella dei Sasanidi, molto più bellicosa e meno disposta a trattare con Roma. I Sasanidi, imbevuti di nazionalismo religioso di marca zoroastriana, intendevano ricreare il grande impero storico di Ciro, di Dario e Serse, e per questo erano disposti anche a una guerra totale contro l’impero, allora fortemente indebolito dalla crisi. Essi furono tuttavia frenati nei loro propositi, più che dagli eserciti romani, dalla presenza del regno siriaco di Palmira, che poteva allora mettere in campo risorse superiori a quelle di Roma. La gravità della crisi che attraversò l’impero romano nel III secolo non riguardava però soltanto l’aspetto militare. Era diventato molto più aspro in quegli anni anche il contrasto fra imperatore e senato: l’imperatore Gallieno, verso la metà del secolo, tolse ai senatori il comando delle legioni, che essi detenevano da sempre e che nemmeno Augusto aveva avuto il coraggio di mettere in discussione. Dal punto di vista economico poi la situazione era ancor più drammatica: mentre l’inflazione cresceva a ritmi vertiginosi, molti piccoli proprietari terrieri, artigiani, cittadini, che negli anni del benessere conducevano un’esistenza abbastanza agiata, rovinati dalla crisi, dovettero vendere le loro terre o le loro botteghe e furono costretti a cercare lavoro a bassissimi salari come braccianti nelle grandi aziende agricole dei senatori. La moneta non valeva più nulla; si tornò così in alcuni casi al sistema del baratto e a forme di economia naturale tipiche delle società meno evolute. Una crisi di simili proporzioni provocò anche numerosi fenomeni di violenza: cittadini ridotti alla fame e senza alcuna speranza per il futuro scelsero la via del crimine per migliorare la loro condizione; si formarono così bande di briganti e di sbandati, che rapinavano i carri e i viandanti lungo le strade: le famose vie dell’impero, vanto dell’ingegneria romana e spina dorsale del commercio, divennero troppo pericolose per essere praticate e i traffici mercantili subirono una forte riduzione, aggravando ulteriormente il quadro. Anche i soldati, spesso con la complicità dei loro comandanti, si comportarono in molte circostanze come banditi, più che come difensori della popolazione, saccheggiando e depredando i loro stessi concittadini indifesi. Incapaci di frenare simili fenomeni di violenza e inermi di fronte alla crisi, alcuni imperatori attribuirono la colpa del disastro a maghi e stregoni, che erano assai numerosi in Roma, oppure ai seguaci di sette religiose: gli ormai numerosi seguaci della religione cristiana furono uno dei bersagli preferiti di questo tentativo di distrarre la popolazione dalle vere cause e dai veri responsabili della situazione.

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12. Verso la ripresa: Diocleziano e Costantino

Nella seconda metà del III secolo apparvero tuttavia i primi segni di una lenta ripresa. Nel 270 l’imperatore Claudio II il Gotico (268-70) sconfisse i goti. Pochi anni dopo un altro imperatore soldato, Aureliano (270-75), ricostituì l’unità dell’impero sconfiggendo gli stati autonomi dell’Oriente e delle Gallie. L’opera di restaurazione di Aureliano proseguì anche all’interno con il fine principale di ridare prestigio alla figura dell’imperatore. La sua politica si fondava su un rapporto privilegiato con l’esercito, cementato anche dall’adesione di Aureliano al culto del Sole Invitto; tale culto venne imposto come religione comune dell’impero e diede all’imperatore nuova autorità in senso monarchico-orientale. La recuperata autorevolezza permise ad Aureliano di cominciare ad affrontare i gravissimi problemi economici dello stato. Egli non riuscì però a portare a termine la sua opera, perché nel 275 fu assassinato. Seguì ancora un decennio di sostanziale anarchia finché, nel 285, venne acclamato imperatore un generale illirico, Diocleziano. Ottenuto il potere, in primo luogo Diocleziano associò al trono un suo collega, Massimiano, affidandogli la gestione dell’Occidente. Qualche anno più tardi la diarchia si trasformò in “tetrarchia”. Diocleziano e Massimiano adottarono Galerio e Costanzo I Cloro. I quattro imperatori si ritagliarono precise sfere di influenza in quattro settori diversi dello stato romano. Per far fronte alla crisi economica e frenare l’inflazione Diocleziano operò su più fronti: monetario, tariffario, fiscale. Particolarmente efficace fu l’azione compiuta per rendere più razionale l’amministrazione del fisco attraverso un nuovo sistema di imposizione e di esazione della tassa annuale fondiaria. Tale sistema, seppur rigido e sostanzialmente ingiusto, si rivelò comunque utile per combattere il disordine impositivo che aveva imperato nel III secolo. Altrettanto significativa fu la riforma amministrativa, che a quella fiscale era strettamente connessa e che prevedeva una nuova articolazione dell’impero in prefetture, diocesi e province. Diocleziano era inoltre convinto che la rinascita dell’impero dovesse anche fondarsi sulla restaurazione della religione tradizionale di Roma. A tal fine egli scatenò una persecuzione generale particolarmente dura e sanguinosa contro i cristiani. Il sostanziale insuccesso rispetto agli obiettivi che ispirarono tale atto avrebbe tuttavia convinto i successori di Diocleziano a mutare definitivamente atteggiamento di fronte al cristianesimo, una realtà religiosa e sociale ormai ineliminabile con la forza. Nel 305 Diocleziano sorprendentemente abdicò, convincendo anche Massimiano a compiere il medesimo gesto. Si aprì immediatamente un lungo conflitto fra pretendenti più o meno legittimi. Dopo anni di scontri, la contesa per il potere si restrinse a quattro protagonisti: in Occidente, Costantino e Massenzio; in Oriente Massimino Daia e Licinio. Nel 311, Costantino, che già controllava la Britannia, la Gallia e la Spagna, attraversò le Alpi per attaccare Massenzio, impegnato a Roma nel tentativo di riportare la capitale all’antico splendore. In una grande battaglia sul Tevere (312), a Saxa Rubra presso il ponte Milvio, Costantino sconfisse Massenzio, che morì. Pochi mesi dopo, nella primavera del 313, Licinio si liberò di Massimino Daia. I due imperatori superstiti restarono insieme al potere per circa un decennio, fino a che nel 324 scoppiò fra loro una guerra risoltasi a favore di Costantino. A quasi vent’anni dall’abdicazione di Diocleziano, tutto l’impero tornava dunque nelle mani di un solo sovrano, Costantino, che nel frattempo aveva maturato una decisione di enorme importanza storica in cui coinvolse anche Licinio. All’inizio del 313 i due imperatori emanarono infatti il celebre “editto di tolleranza”, che concedeva piena libertà di culto ai seguaci di qualsiasi religione e cancellava con un colpo di spugna l’abbondante legislazione repressiva, all’origine, fra l’altro, di tutte le persecuzioni anticristiane. Con l’editto Costantino recuperava alla fedeltà alle istituzioni, ormai non più nemiche, una quota sempre più considerevole di cittadini. I cristiani divennero ben presto i principali sostenitori della politica di Costantino, che a sua volta non esitò ad appoggiarsi apertamente ad essi. Da tempo ormai Roma non era più il centro politico, economico e culturale dell’impero, che era andato progressivamente spostandosi verso Oriente: Costantino ne prese atto e trasformò l’antica città greca di Bisanzio sul Bosforo, ribattezzata Costantinopoli, nella nuova capitale dell’impero. Costantino provvide anche ad accentuare la sacralità del potere imperiale; la struttura del governo centrale fu razionalizzata con la creazione di grandi uffici ministeriali e di un corpo di burocrati che svolgeva compiti di segreteria. L’esercito fu posto sotto il comando di due magistri militum e venne sancita la definitiva separazione fra potere civile e potere militare. Gli interventi di Costantino in campo economico rappresentarono anch’essi una novità sostanziale: in particolare egli coniò una nuova moneta d’oro, il sòlidus, e ne fece il perno di un sistema destinato a rimanere inalterato nel mondo romano e poi bizantino fino al XIII secolo. La riforma ebbe però sul piano sociale effetti negativi, accentuando la divaricazione fra classi ricche e classi povere ed esasperando quei fenomeni di clientelismo e corruzione da un lato e di eversione dall’altro che costituirono il tratto costante della realtà del tardo impero.

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13. La crisi dell’Occidente

Scomparso Costantino nel 337, si accesero immediatamente violente dispute fra gli eredi, che culminarono in stragi di palazzo e in vere e proprie guerre. Dopo un’estenuante gara a eliminazione rimase solo al potere, in Oriente, Costanzo II, figlio di Costantino, al quale però ben presto le legioni occidentali contrapposero, acclamandolo imperatore, il cugino Giuliano. Intellettuale e filosofo formatosi nelle scuole neoplatoniche di Atene, Giuliano si sforzò di applicare l’editto di tolleranza di Costantino secondo i suoi reali principi ispiratori, attuando cioè una rigorosa equidistanza da tutte le religioni e ribadendo la laicità dello stato. Le sue simpatie si rivolgevano più al paganesimo che al cristianesimo, e ciò gli costò l’odio dei cristiani. L’illusione di Giuliano, soprannominato l’Apostata, di creare uno stato laico fallì miseramente scontrandosi contro un’ostilità diffusa che forse non fu estranea alla sua morte violenta (363). Nella seconda metà del IV secolo le tensioni religiose e politico-religiose fra cristiani e pagani, fra cristiani ortodossi e cristiani eretici, fra pagani innovatori e pagani tradizionalisti furono ancora molto aspre. I successori di Giuliano, Gioviano e Valentiniano I continuarono a perseguire una politica di tolleranza religiosa, mentre la morte del fratello minore di Valentiniano, Valente, di fede ariana, in un grande battaglia ad Adrianopoli contro i goti (378), fu presentata dai cristiani come un segno divino della necessità per il potere imperiale di accostarsi e difendere sempre più l’ortodossia cristiana. In effetti la cristianizzazione dell’impero si faceva sempre più profonda. Il figlio di Valentiniano, Graziano emanò una serie di leggi penalizzanti nei confronti dei pagani. Pochi anni più tardi, nel 391, il cristianesimo veniva proclamato dall’imperatore Teodosio, religione di stato: si suggellava così una realtà di fatto, che nemmeno i tentativi di reazione rabbiosa e violenta di una parte dell’aristocrazia più tenacemente attaccata al paganesimo poterono modificare. Intanto la pressione dei popoli germanici, slavi e asiatici andava sempre più scaricandosi sulle frontiere di Roma. I barbari, come erano chiamati per rimarcare la loro diversità rispetto ai cittadini romani, si erano riversati a centinaia di migliaia all’interno dell’impero, mentre molti altri si affacciavano con forza ai confini; alcuni corpi militari romani erano ormai formati in toto da elementi barbarici, i quali accedevano anche ai posti di comando fino alle cariche supreme dell’esercito e della burocrazia. Alcuni anni prima, il popolo nomade degli unni, proveniente dalle lontane steppe asiatiche, aveva attaccato alle spalle alani, ostrogoti e visigoti. Questi ultimi, cercando scampo, passarono il Danubio con il consenso di Valente, ma le condizioni di vita inumane loro imposte li portarono a ribellarsi. Affrontati dall’esercito romano, i visigoti con l’appoggio di ostrogoti e alani sbaragliarono i romani ad Adrianopoli in Tracia (378): Valente, ferito, arse vivo nella capanna in cui aveva invano cercato rifugio. Lo shock di Adrianopoli fu enorme in tutto l’impero: il mito di Roma eterna vacillava. I pagani imputarono la sconfitta all’abbandono del culto degli dei, i cristiani se la presero con la fede eretica di Valente, ma tutti dovettero, almeno inconsciamente, percepire che il trionfo dei goti poteva rappresentare il segnale della fine dell’impero. Un’esperienza traumatica analoga si ebbe circa trent’anni dopo, nel 410, quando ancora i visigoti, sotto la guida del re Alarico, assediarono ed espugnarono Roma, mettendola a sacco. Verso la fine del IV secolo, un grande imperatore, il generale di origine spagnola Teodosio, riuscì a ritardare con la sua opera efficace l’agonia dell’impero. Dal 379 al 395 egli salvaguardò l’unità dello stato, sedando fenomeni di ribellione, sconfiggendo usurpatori sostenuti dall’aristocrazia senatoria pagana di Roma, sottomettendosi talvolta, con grande senso di opportunità politica, alla chiesa e al potentissimo vescovo di Milano Ambrogio. Poco prima della sua morte, nel 395, Teodosio divise l’impero fra i due figli Arcadio (395-408) e Onorio (395-423), affidando loro, rispettivamente, l’Oriente e l’Occidente. Fu la separazione definitiva: da allora in poi i due imperi avrebbero avuto storia a sé. Gli ultimi decenni dell’impero d’Occidente, segnati da ripetute invasioni barbariche – dal già citato sacco di Roma del 410 a quello analogo dei vandali di Genserico nel 455, alla calata in Italia degli unni di Attila – furono caratterizzati da una fitta successione di imperatori su cui generali e capi barbari esercitavano un’influenza sempre più condizionante. Gli ultimi imperatori d’Occidente divennero così strumenti di un nuovo potere prevaricante che li manovrò a proprio piacimento. Tanto irrilevante divenne a un certo punto la loro funzione, che il generale sciro Odoacre, uomo forte dell’impero, dopo aver deposto nel 476 l’ultimo imperatore, il giovinetto Romolo Augustolo, rimise le insegne imperiali all’imperatore d’Oriente, affermando che un solo imperatore poteva bastare. Nessun imperatore fu da allora in poi eletto in Occidente. L’impero di Roma finiva in sordina, in singolare contrasto rispetto all’importanza e alla grandezza dell’esperienza storica che aveva rappresentato. La data fatidica del 476 non rappresentò in realtà quasi nulla per i contemporanei: essa non modificò la sostanza di un impero occidentale ormai diviso a pelle di leopardo in territori di conquista delle popolazioni barbariche. La storia dell’impero proseguiva invece in Oriente, dove una compagine sociale più compatta, una classe dirigente più dinamica, un più forte consenso attorno all’imperatore avevano permesso di risolvere il problema dei barbari e di gettare le fondamenta di un nuovo stato destinato a sopravvivere per un altro millennio: l’impero bizantino. [Sergio Roda]

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100. TABELLA: Imperatori romani

Dinastia Giulio-Claudia
Augusto 31 a.C.-14 d.C.
Tiberio 14-37
Caligola 37-41
Claudio 41-54
Nerone 54-68
Galba 68-69
Otone 69
Vitellio 69
Dinastia Flavia
Vespasiano 69-79
Tito 79-81
Domiziano 81-96
Dinastia degli Antonini
Nerva 96-98
Traiano 98-117
Adriano 117-138
Antonino Pio 138-161
Marco Aurelio 161-180
Commodo 180-192
Pertinace 193
Didio Giuliano 193
Pescennio Nigro 193
Clodio Albino 193
Dinastia dei Severi
Settimio Severo 193-211
Caracalla 211-217
Geta 211-212
Opellio Macrino 217-218
Dinastia dei Severi
Elagabalo 218-222
Severo Alessandro 222-235
Massimino 235-238
Gordiano I e Gordiano II,
Pupieno e Balbino 238
Gordiano III 238-244
Filippo l’Arabo 244-249
Decio 249-251
Triboniano Gallo 251-253
Emiliano 253
Valeriano 253-260
Gallieno 260-268
Ingenuo, Regaliano, Postumo, Odenato,
Macriano, Quieto, Memore, Aureolo
Claudio II il Gotico 268-270
Quintillo 270
Aureliano 270-275
Tacito 275-276
Probo 276-282
Caro 282-283
Carino e Numeriano 283-284
Diocleziano 284-305
Massimiano 284-305 e 306-310
Costanzo I Cloro 305-306
Galerio 305-311
Massimino Daia 305-313
Severo 305-307
Massenzio 306-312
Licinio 307-323
Dinastia Flavia-Costantina
Costantino 306-337
Costantino II 337-340
Costante 337-350
Costanzo II 337-361
Giuliano l’Apostata 361-363
Gioviano 363-364
Valentiniano 364-375
Valente 364-378
Graziano 375-383
Valentiniano II 375-392
Teodosio il Grande 379-395
Onorio 395-423
Valentiniano III 425-455
Petronio Massino 455
Avito 455-456
Maggioriano 457-461
Libio Severo 461-465
Antemio 467-472
Olibrio 472
Glicerio 473-474
Giulio Nepote 474-475
Romolo Augustolo 475-476

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