Iugoslavia

  1. La formazione dello stato
  2. Dal 1918 al 1945
  3. Il regime comunista
  4. Dalla dissoluzione della Iugoslavia alla Repubblica federale di Iugoslavia
1. La formazione dello stato

La Iugoslavia sorse come stato nel dicembre 1918. Essa comprendeva la Serbia e il Montenegro, che avevano costituito in precedenza dei regni indipendenti, e la Slovenia, la Croazia e la Bosnia-Erzegovina, che avevano fatto parte dell’impero austroungarico. La nascita del nuovo stato fu una delle conseguenze della sconfitta delle potenze centrali nella prima guerra mondiale. Era stata la Serbia – dove il 28 giugno del 1914 era stato assassinato l’arciduca austriaco Francesco Ferdinando, facendo così scoccare la scintilla che doveva provocare la prima guerra mondiale – a guidare il movimento per l’unificazione. Nel luglio del 1917, in una conferenza tenuta in Grecia, le popolazioni slave del sud manifestarono l’intenzione di costituire uno stato unitario sotto la monarchia serba. Nel dicembre del 1918 fu costituito il Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni, con re Pietro I. La denominazione “Iugoslavia”, che significa “stato degli slavi del sud”, venne formalmente adottata solo nel 1929.

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2. Dal 1918 al 1945

Lo stato appena formato, molto arretrato, con una dominante agricoltura povera e un’industria quanto mai fragile, si trovò a dover far fronte a due gravi pericoli: da un lato le tensioni politiche e regionali interne, dall’altro le minacce esterne. All’interno esso riuniva popolazioni di varie religioni e confessioni (cattolici, ortodossi e musulmani), regioni con un assai differente grado di sviluppo economico e tradizioni politiche e amministrative molto diverse. Dall’esterno si facevano sentire le rivendicazioni territoriali dell’Ungheria e della Romania. Assai tesi erano poi i rapporti con l’Italia, poiché alla fine della guerra, i nazionalisti italiani pretendevano non soltanto di annettere Fiume, ma anche gran parte della Dalmazia. Per affermare l’unità dello stato, il cui nucleo era costituito dalla Serbia, il serbo Pasic, capo del governo, fece approvare nel 1921 una costituzione che imponeva un forte centralismo. Essa però suscitò forti reazioni soprattutto in Croazia, dove sorse un movimento autonomista guidato da Radic, che venne assassinato nel 1928. Nel 1921 a Pietro I era succeduto Alessandro I, il quale, deciso a far valere un’intransigente politica centralistica, tanto più dopo che i croati nel 1928 avevano costituito un loro parlamento autonomo e che anche in Macedonia era sorto un movimento nazionalista, nel 1929 dissolse il parlamento e impose la propria dittatura. Questa dittatura durò formalmente fino al 1931; ma una nuova costituzione che ristabiliva il regime parlamentare fu congegnata così da consegnare il potere alle forze politiche filogovernative. Il sovrano venne assassinato nel 1934 a Marsiglia. In politica estera, molte tese furono fin dall’inizio le relazioni con l’Italia. Le ambizioni di questa sulla Dalmazia furono frustrate dal mancato appoggio anzitutto degli Stati Uniti. Restava un problema aperto la questione di Fiume, città a maggioranza italiana. Nel dicembre del 1919, con un’azione apertamente illegale ma sostenuta accesamente dai nazionalisti italiani, Gabriele D’Annunzio con i suoi legionari occupò la città, che venne però fatta sgombrare dal governo Giolitti nel dicembre del 1920. Il trattato di Rapallo stabilì la costituzione di Fiume in stato libero; ma nel 1924 il governo Mussolini ottenne l’annessione all’Italia. Intanto, per consolidare la sua precaria posizione internazionale, la Iugoslavia era entrata in stretti rapporti di alleanza con la Cecoslovacchia e la Romania, costituendo la Piccola Intesa sotto la protezione francese. Ad Alessandro succedette nel 1934 il figlio Pietro II, sotto la reggenza del principe Paolo. Questi si trovò anch’egli a dover fronteggiare non solo l’autonomismo croato di orientamento democratico, ma anche una politica di sovversione interna, diretta contro l’egemonia serba nello stato, appoggiata dall’Ungheria e dall’Italia e avente il suo referente politico nel movimento filofascista degli ustascia capeggiato da Ante Pavelic. Sicché il reggente nel 1939 dovette concedere ai croati quell’autonomia che il re Alessandro aveva loro negato. Iniziato il secondo conflitto mondiale nel settembre 1939, la reggenza, subendo la sempre maggiore influenza dell’Italia e della Germania, nel marzo del 1941 portò il paese ad aderire all’Asse italo-germanico. Ma le forze armate, nelle quali erano forti gli orientamenti dei nazionalisti serbi, che avversavano la politica di Germania e Italia, tesa alla disgregazione della Iugoslavia, reagirono con un colpo di stato che destituì il reggente e proclamò la neutralità della Iugoslavia. La reazione dei tedeschi fu fulminea. Essi invasero il paese, che subì un processo di smembramento. Mentre il re Pietro II creò un governo in esilio, Pavelic diede vita in Croazia, inglobando anche la Bosnia, a uno stato fantoccio con sovrano Aimone di Savoia-Aosta; un altro governo filotedesco venne installato in Serbia; e il resto del paese venne spartito tra Germania, Italia, Ungheria e Bulgaria. La resistenza agli invasori tedeschi e italiani si fece a mano a mano più forte. Essa aveva due centri: a capo dell’uno vi era Mihajlovic, leader dei cetnici e collegato con il monarca in esilio; a capo dell’altro si trovava Tito, il leader dei comunisti, con le sue basi di appoggio in Serbia e Montenegro. La repressione tedesca fu durissima. A loro volta gli ustascia al loro servizio misero in atto crudeltà spaventose. La lotta di Resistenza, la più ampia sviluppatasi in Europa, rafforzò sempre più la leadership di Tito – che ne divenne il capo ufficiale in seguito all’esplicito appoggio non solo sovietico, ma anche inglese – e l’influenza dei comunisti sulle masse. Al contrario quella di Mihajlovic risultò irrimediabilmente compromessa dalla collaborazione più volte stabilita con le forze nemiche per odio verso i comunisti. Nell’ottobre del 1944 i tedeschi furono costretti a lasciare la Iugoslavia, che, liberata dalle forze partigiane, cadde sotto il controllo di Tito. Un governo di coalizione tra i comunisti e le forze monarchiche venne rapidamente meno. Le elezioni del novembre 1945 diedero tutto il potere ai comunisti, che introdussero una nuova costituzione. I comunisti cercarono di affrontare da un lato l’esigenza di un forte controllo centralistico nelle mani del partito comunista, dall’altro quella delle accentuate differenze regionali del paese. Lo fecero stabilendo la propria dittatura nel quadro di una federazione formata da sei repubbliche.

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3. Il regime comunista

Il nuovo regime si trovò a dover subito affrontare il problema delle relazioni con l’Italia, assai tese sia per motivi territoriali sia per le violenze esercitate dai titini nelle zone della Venezia Giulia da essi occupate verso italiani accusati di ostilità contro gli slavi e di collaborazionismo con i tedeschi. Centinaia di essi trovarono la morte nelle foibe (voragini di origine carsica). Il trattato di pace del 1947 stabilì il confine a Tarvisio, Monfalcone e Gorizia e la formazione del Territorio Libero di Trieste. Una soluzione fu raggiunta solo nel 1954, quando Trieste tornò all’Italia e il suo retroterra andò alla Iugoslavia. Le migliorate relazioni con l’Italia culminarono nel trattato di Osimo nel 1975. All’interno, la Lega dei comunisti monopolizzò il potere e avviò una politica di socializzazione dei mezzi di produzione nel quadro di una stretta alleanza con l’Unione Sovietica. Se non che nel 1948 tra i due paesi si giunse a una clamorosa rottura. I comunisti iugoslavi sentivano fortissimo il legame con l’URSS; ma ben presto dovettero rendersi conto che i sovietici intendevano fare del paese un loro satellite. Un progetto di federazione con l’Albania e la Bulgaria era venuto meno per la contrarietà dei sovietici, che volevano essere il punto di riferimento primario per ogni paese comunista. Inoltre, apparve presto chiaro che Stalin intendeva assumere il controllo diretto della politica e dell’economia iugoslave. A questo punto i comunisti iugoslavi – che, a differenza di quelli degli altri paesi dell’Europa orientale, avevano preso il potere con le proprie forze – reagirono energicamente. La Iugoslavia di Tito, espulsa dal Cominform nel 1948 e denunciata come traditrice postasi al servizio dell’imperialismo ed esponente di un comunismo nazionalista eretico, cercò appoggio economico e militare presso l’Occidente, interessato ad approfondire la breccia; iniziò un’attiva politica internazionale diventando uno dei paesi leader del movimento degli stati “non allineati”; infine stabilì nel 1954 un patto difensivo con Grecia e Turchia. In campo economico e istituzionale, il comunismo iugoslavo mise in atto, con il determinante contributo di Edvard Kardelj, riforme miranti a introdurre l’autogestione delle imprese secondo principi di “democrazia socialista”. In un paese tradizionalmente molto diviso, Tito riuscì a stringere intorno a sé le sue diverse componenti, diventando oltre che il leader comunista anche il leader della nazione. Tanto che i sovietici non osarono invadere la Iugoslavia, dotata di un notevole apparato militare, come avrebbero fatto in seguito con l’Ungheria nel 1956 e la Cecoslovacchia nel 1968. Nel 1955 Kruscëv, nell’ambito della linea della destalinizzazione, ristabilì buone relazioni tra l’URSS e la Iugoslavia, che però sarebbero state relativamente compromesse dall’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956 e in generale dal persistere della politica imperiale sovietica nell’est. Una significativa crisi interna al gruppo dirigente comunista fu però determinata dal passaggio all’opposizione politica e ideologica di Milovan Gilas, che di quel gruppo era stato una figura di primissimo piano. Questi nel 1957 pubblicò il libro La nuova classe, in cui si denunciava anche il regime iugoslavo come una dittatura dominata dal partito, i cui strati alti costituivano una classe privilegiata e sfruttatrice. Nel 1966 Tito stroncò una cospirazione messa in atto dall’ala del partito, guidata da Aleksandar Rankovic, ostile a quella che giudicava un’eccessiva influenza occidentale. D’altra parte inasprì la repressione contro gli intellettuali, pur facendo concessioni agli studenti nel 1968. Ma gli anni Settanta videro crescere da un lato l’opposizione degli intellettuali, dall’altro le tensioni tra le repubbliche, divise da gravissimi scompensi nel grado di sviluppo in un contesto di crescenti difficoltà economiche. L’aiuto economico occidentale aveva costituito un fattore determinante della crescita economica, ma questa era avvenuta soprattutto in Slovenia e Croazia. Nel 1971 Tito prese drastiche misure contro il riemergere di tendenze separatistiche in Croazia. Egli, con la sua autorità, era riuscito a mantenere fino ad allora, l’unità delle federazione. Il varo di una nuova costituzione nel 1974, con l’intento di meglio garantire gli equilibri tra le diverse componenti del paese, non ottenne lo scopo. Dopo la morte di Tito nel 1980, la federazione cominciò a mostrare tutta la sua fragilità. Il tentativo di farvi fronte con la creazione di una presidenza collettiva mostrò presto la sua precarietà. La crisi della Iugoslavia precipitò alla fine degli anni Ottanta.

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4. Dalla dissoluzione della Iugoslavia alla Repubblica federale di Iugoslavia

Nel contesto della crisi della federazione, emerse con forza il nazionalismo serbo. Nel 1987 il leader dei comunisti serbi, Slobodan Milosevic lanciò il progetto di costituzione di una “Grande Serbia”, comprendente, oltre alla Serbia, la Voivodina, il Kosovo per l’85% con popolazione albanese, le zone della Croazia a maggioranza serba, buona parte della Bosnia-Erzegovina, con mire sulla Macedonia. Il movimento autonomistico nel Kosovo venne duramente represso dai serbi. Il collasso del comunismo nell’Est europeo accelerò potentemente il disfacimento della federazione. Dopo aver costituito nel 1990 governi non comunisti, la Slovenia e la Croazia proclamarono nel giugno del 1991 la propria indipendenza. Il tentativo dell’esercito, controllato dai serbi, di mantenere il controllo su di esse fallì dopo un breve periodo di combattimenti. In settembre la Macedonia seguì l’esempio sloveno e croato; nell’ottobre del 1991 fu la volta della Bosnia-Erzegovina, composta da una maggioranza musulmana di fronte a cui però stavano due forti minoranze, la serba (33%) e la croata (18%). La minoranza serba, con l’appoggio determinante della Serbia, la quale deteneva il controllo di gran parte di quello che era stato il potente esercito iugoslavo, diede subito inizio a una feroce guerra civile, col proposito di smembrare la nuova repubblica e unire la parte serba alla Serbia, mettendo altresì in atto un processo di “purificazione etnica” con pratiche di sterminio nei confronti dei musulmani. Dal canto loro i croati iniziarono una lotta con analoghi propositi di smembramento e di annessione alla Croazia. Nel 1992 Serbia e Montenegro procedettero alla costituzione di una nuova Repubblica federale di Iugoslavia, sotto la leadership degli ex comunisti e di Milosevic, dominata dal nazionalismo serbo. Nel dicembre del 1995 si giunse – con la mediazione internazionale e la determinante influenza degli Stati Uniti – ad accordi di pace (gli accordi di Dayton), in base ai quali la Bosnia-Erzegovina fu divisa in due parti: una federazione musulmano-croata, col 49% del territorio, e una repubblica serba, col 51%. Nella seconda metà degli anni Novanta rimasero difficili e tesi i rapporti della Repubblica federale di Iugoslavia con le nuove entità politiche sorte dalla dissoluzione della vecchia Iugoslavia. Un nuovo e assai grave focolaio di crisi si aprì tuttavia nel Kosovo (regione autonoma della Serbia), dove Milosevic nel 1998 represse ferocemente le spinte all’autonomia della minoranza albanese e dei gruppi separatisti dell’UCK, provocando nel 1999 l’intervento militare della NATO e una serie di durissimi bombardamenti aerei, che si protrassero dal marzo al giugno. In base agli accordi siglati in giugno, il Kosovo ottenne una sostanziale autonomia e fu posto sotto l’amministrazione ONU. La sconfitta militare favorì la vittoria dell’opposizione democratica alle elezioni federali del settembre 2000. Nel 2003 fu deciso di cambiare il nome della federazione in “Serbia e Montenegro” e di delegare maggiori poteri alle due repubbliche, elevate a stati semi-indipendenti con una propria costituzione e una propria moneta. Nel giugno del 2006, dopo un referendum in cui il Montenegro si espresse a favore della propria piena indipendenza, fu infine sancita la fine definitiva della Iugoslavia.

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