Iran

Stato attuale dell’Asia occidentale. Il suo territorio coincide con il nucleo storico dell’antica Persia che fino al 1935, quando fu introdotto per decreto reale il nome “Iran”, fu la denominazione ufficiale della regione.

  1. Dalle origini fino alla dissoluzione dell’impero achemenide
  2. Dalla conquista macedone alla crisi dell’impero sasanide (IV secolo a.C. – VII secolo d.C.)
  3. Dalla conquista araba alla caduta dell’impero safawide (VII-XVIII secolo)
  4. La Persia dei Kajar (1794-1921)
  5. L’Iran dei Pahlavi (1921-79)
  6. Dalla rivoluzione islamica a oggi
1. Dalle origini fino alla dissoluzione dell’impero achemenide

Popolato fin dall’VIII millennio a.C. nelle zone del litorale caspico e dell’altopiano iranico, dove sono stati trovati i resti di antichissimi insediamenti, legato all’area di influenza mesopotamica e sede dalla metà del III millennio della civiltà dell’Elam, il territorio dell’attuale Iran fu raggiunto intorno alla metà del II millennio a.C. da popolazioni di stirpe ariana appartenenti al ceppo indoeuropeo, che riuscirono ad assimilare i popoli precedentemente stanziati sul territorio dividendosi poi in due gruppi principali: i medi e i persiani. Nel VII secolo a.C. i medi, dopo essersi più volte scontrati con gli assiri, i cassiti e i persiani, diedero vita alla prima grande formazione politica della regione, l’impero medo, che comprendeva tutta la parte settentrionale dell’altopiano iranico e stabilì la sua capitale a Ecbatana. A essi subentrarono, verso la metà del VI secolo a.C., i persiani che, stanziati dapprima nelle regioni meridionali del paese e diventati poi vassalli dei medi, crearono un impero di grande potenza, destinato ad assumere un ruolo di primaria importanza nella storia del mondo antico. Fondato da Ciro il Grande, capostipite della dinastia degli Achemenidi, l’impero persiano sorse dopo la sconfitta dell’ultimo re dei medi, Astiage, nel 550 e riuscì a sottomettere, nel giro di pochi anni, il regno di Lidia (546), le province orientali della Persia (540) e il secondo impero babilonese (539). Alla morte di Ciro (529), esso si estendeva dal Mediterraneo all’Asia centrale, dal Caucaso fino all’Oceano Indiano e rappresentava il più grande organismo politico dell’antico Oriente. Dopo la conquista dell’Egitto (525) da parte di Cambise II, figlio di Ciro, e dopo un periodo di violente lotte per il potere in cui lo stesso Cambise venne assassinato (522) salì al trono Dario I (521-486), discendente di un ramo cadetto degli Achemenidi, che portò l’impero persiano all’apogeo della sua potenza. Sul piano interno, Dario introdusse il sistema delle satrapie, vale a dire una divisione amministrativa dell’impero in province governate da satrapi incaricati di raccogliere i tributi dovuti al sovrano e di amministrare la giustizia. A loro volta, le satrapie – che funzionarono più da centri autonomi di potere che da cinghia di trasmissione tra il centro e la periferia dell’impero – furono poste sotto il controllo di speciali ispettori regi, “gli occhi del re”. Con questo sistema, che si fondava sul rispetto dell’autonomia politica e delle tradizioni religiose delle diverse province, Dario intraprese una sistematica politica espansionistica, spingendosi, a est, fino all’Indo (512) ed entrando in conflitto, a ovest, con gli sciti (514). Dopo aver occupato la Tracia e la Macedonia e dopo aver sedato, tra il 499 e il 493, la rivolta ionica, Dario coinvolse l’impero in un lungo conflitto con i greci, le guerre persiane. Sconfitto nella battaglia di Maratona (490), morì durante i preparativi di una nuova spedizione in Grecia nel 485. Gli succedette il figlio Serse I che, ripreso il progetto di espansione in Grecia e sconfitto a Salamina (480) e a Micale (479), cadde vittima di una congiura di palazzo nel 465. Dopo la morte di Serse I, la dinastia degli Achemenidi rimase ancora al potere per oltre un secolo: con Artaserse I, re dal 465 al 424, che dopo aver riportato l’ordine all’interno del paese pose fine alle guerre persiane stipulando con i greci la pace di Callia (449); con Dario II, un figlio illegittimo di Artaserse I, che usurpò il potere nel 423 e coinvolse l’impero nella guerra del Peloponneso; con Artaserse II, re di Persia dal 404 al 358, che si scontrò con il fratello Ciro il Giovane per il controllo dell’impero e che, dopo aver combattuto con l’Egitto e con gli ateniesi, riuscì a ottenere il pieno controllo delle colonie greche dell’Asia Minore con la pace di Antalcida (386); e ancora con Artaserse III, al potere tra il 358 e il 338, che fu costretto a combattere contro le province ribelli e a contenere la volontà di rivincita dei greci. In questo lungo periodo la monarchia achemenide manifestò i segni di una profonda crisi e, lacerata da continui conflitti dinastici, andò progressivamente dissolvendosi nelle sue diverse satrapie. E ciò proprio mentre cominciava a emergere, sotto Filippo II di Macedonia, la realtà di una Grecia unificata (337) e decisa ad aver ragione dell’antico nemico orientale. All’epoca di Dario III, l’ultimo re della dinastia degli Achemenidi (335-30), l’impero fu conquistato da Alessandro Magno, che sconfisse l’esercito persiano a Isso (333) e a Gaugamela (331).

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2. Dalla conquista macedone alla crisi dell’impero sasanide (IV secolo a.C. – VII secolo d.C.)

Nei confronti della Persia sconfitta Alessandro Magno adottò una politica di tolleranza, rispettando sia le tradizioni religiose sia le istituzioni locali. Al tempo stesso, con l’obiettivo di trasformare l’unione tra la Persia e la Macedonia in una nuova compagine imperiale, cercò di riorganizzare il sistema delle satrapie affidandole al controllo di ufficiali macedoni dotati di poteri militari e civili e si sforzò di riformare l’amministrazione finanziaria dello stato. Il suo ambizioso progetto, tuttavia, non poté essere portato a termine: dopo la sua morte (323), infatti, i territori dell’antica Persia caddero nell’orbita dell’impero dei Seleucidi e quindi, a partire dalla seconda metà del III secolo a.C., sotto la dominazione dei parti – una tribù iraniana governata dalla dinastia degli Arsacidi che riuscì a ricostituire, nel corso di innumerevoli guerre, un impero nazionale persiano mantenendosi al potere fino alla prima metà del III secolo d.C. Nel 224 d.C., infine, i parti furono sconfitti dai Sasanidi, una dinastia di origine iraniana che regnò in Persia per quattro secoli inaugurando una nuova fase di potenza politica e militare fondata su un esplicito recupero delle tradizioni achemenidi e sul rifiuto della tradizione ellenistica. In continuo conflitto con Roma e poi, dal V secolo, con Bisanzio, l’impero sasanide cercò di estendere la propria sfera d’influenza in Mesopotamia, in Siria e in Armenia, e riuscì a sottomettere lo Yemen e l’Egitto; a oriente dovette confrontarsi con la minaccia dei turchi, che avevano fatto la propria comparsa nell’Asia anteriore al principio del VI secolo. All’interno i Sasanidi promossero la restaurazione dello zoroastrismo (o mazdeismo), che divenne religione di stato imponendosi sui precedenti culti politeistici e dandosi una potente organizzazione ecclesiastica. Al tempo stesso, i seguaci del manicheismo e del cristianesimo divennero oggetto di violente persecuzioni. Organizzata secondo gli schemi di un vero e proprio assolutismo teocratico, la monarchia sasanide dovette di fatto condividere il proprio potere con un’aristocrazia fondiaria potente e riottosa, che pose col tempo una grave ipoteca sulla solidità del dominio della casa regnante. Dopo il regno di Cosroe I (531-79), che fu la più importante figura della dinastia, la potenza sasanide entrò in crisi per i continui conflitti dinastici e per la grave crisi economica e sociale che investì l’impero tra la fine del VI e il principio del VII secolo. Con Cosroe II, che regnò dal 590 al 628, i Sasanidi riuscirono a riunificare i territori del vecchio impero achemenide, spingendosi fino a Gerusalemme (614) e in Egitto (619). Con la riscossa bizantina, che nel 628 poteva ormai dirsi compiuta, essi entrarono definitivamente in crisi e non furono più in grado di resistere alla penetrazione degli arabi che, nel volgere di un breve periodo, conquistarono i territori della Persia modificando profondamente gli assetti politici, sociali e spirituali della regione.

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3. Dalla conquista araba alla caduta dell’impero safawide (VII-XVIII secolo)

La conquista araba iniziò nel 634, due anni dopo la morte di Maometto, e fu portata a termine intorno al 650, dopo che i Sasanidi furono sconfitti a Qadisiyya (637) e a Nihavand (641). Nel 651 l’ultimo sovrano sasanide, Yezdegèrd III, morì assassinato. Nel paese fu introdotto l’islam che, nonostante la tolleranza dei conquistatori, s’impose assai rapidamente sullo zoroastrismo. All’interno del mondo musulmano, tuttavia, gli iraniani mantennero una relativa originalità religiosa, che doveva manifestarsi più tardi con l’adesione allo sciitismo. Divenuta una provincia di frontiera dell’impero dei califfi, la Persia fu agitata per tutto il resto del VII secolo da violente rivalità tribali arabe e da fermenti nazionali iranici, ed ebbe un ruolo decisivo nella rivoluzione che, partendo dalla provincia del Khorasan, nel 750 provocò la caduta del califfato omayyade e la sua sostituzione con il dominio degli Abbasidi. Nei decenni successivi, peraltro, cominciarono a consolidarsi sul suo territorio alcune importanti dinastie autonome, che diedero avvio alla progressiva dissoluzione dell’impero abbaside, ormai irreversibile dopo la morte di Harun ar-Rashid (VIII secolo): dapprima i Samanidi, una dinastia iranica (IX-X secolo), poi i Ghaznavidi (X-XI secolo) e i Selgiuchidi (XI-XII secolo), entrambi di origine turca ma culturalmente iranizzati. Questi ultimi, dopo aver ricostituito un più ampio stato unitario e aver riportato il paese in una situazione di grande prosperità, furono sconfitti dai sultani di Transoxiana che, a loro volta, vennero sottomessi dai mongoli di Gengis Khan, penetrati in territorio persiano intorno al 1220. Tra la metà del XIII e la fine del XV secolo il paese fu dominato dalle due dinastie mongole islamizzate degli Ilkhan (1256-1349) e dei Timuridi (1369-1494), subentrati ai primi dopo la terribile invasione di Tamerlano. Con essi la Persia conobbe una nuova fase di prosperità e di splendore. Dopo un breve periodo di anarchia e di nuovi conflitti tribali, la dinastia dei Safawidi (1501-1736) fondata dallo scià Ismail I, restaurò l’ordine interno, ricostituendo l’unità territoriale del paese e proclamando la religione sciita religione di stato. L’impero safawide conobbe il suo massimo splendore all’epoca dello scià Abbas I il Grande che governò il paese dal 1587 al 1629. Dopo aver riorganizzato l’esercito, Abbas combatté contro gli uzbeki, strappò agli ottomani la Mesopotamia e riuscì a cacciare i portoghesi, che al principio del XVI secolo avevano impiantato proprie colonie nella zona del Golfo Persico; al tempo stesso strinse solide relazioni commerciali con l’Inghilterra. Con i suoi successori, tuttavia, i Safawidi entrarono in una fase di irreversibile declino: indeboliti dai continui scontri con i turchi ottomani di religione sunnita, iniziati già al principio del XVI secolo, furono rovesciati nel 1722 dagli afghani, anch’essi di religione sunnita, che sconfissero il debole scià Husain. La dominazione afghana, tuttavia, durò soltanto fino al 1730. Dopo una breve e solo formale restaurazione della dinastia legittima, Nadir Shah – un avventuriero di origine sciita – depose nel 1736 l’ultimo safawide, Abbas III.

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4. La Persia dei Kajar (1794-1921)

Con due vittoriose guerre contro gli afghani (1738) e l’India (1739) Nadir sembrò in grado di restituire alla Persia la sua antica grandezza. Artefice di un sistema politico autoritario e oppressivo, fu tuttavia assassinato nel 1747. Iniziò allora un nuovo periodo di profonda decadenza e di guerra civile, che si protrasse fino al principio del XX secolo. Al regime di Nadir subentrò la dinastia degli Zand (1750-1794), fondata da Karim Shah, e quindi la dinastia turca dei Kajar, portata al potere da Agha Muhammad Khan nel 1796, che governò la Persia fino al 1921-25. Con i Kajar, per tutto il corso del XIX secolo il paese fu sottomesso a un regime di violenta oppressione politica e cominciò ad aprirsi alla pressione delle potenze straniere. Dopo l’assassinio di Agha Muhammad Khan (1797) salì al trono lo scià Fath Alì (1797-1834), che dovette scontrarsi con la Russia zarista per il controllo delle regioni caucasiche. In seguito a un lungo conflitto la Persia fu costretta a cedere, con i trattati di Gulistan (1813) e di Turkamanchai (1828), parte dell’Azerbaigian e le province transcaucasiche. Durante il lungo regno di Nasser ad-Din Shah (1848-96), che avviò un’importante opera di modernizzazione dello stato, riprese il conflitto con gli afghani, che conquistarono la valle dell’Herat, e iniziò la penetrazione commerciale dell’Inghilterra, interessata ai ricchi giacimenti di petrolio scoperti al principio del Novecento. Negli stessi anni, di fronte alla minaccia di una penetrazione sempre più profonda delle potenze straniere e all’inettitudine della monarchia, si sviluppò in tutto il paese un movimento liberale e nazionalista di stampo europeo, che nel 1906 – sull’onda della Rivoluzione russa del 1905 – organizzò grandi manifestazioni di protesta a Teheran. Lo scià Muzaffar ad-Din (1896-1907) fu costretto a concedere una costituzione, in virtù della quale la Persia fu trasformata in una monarchia costituzionale. I poteri supremi dello stato rimasero nelle mani dello scià, che ottenne il diritto di nominare il primo ministro; il potere legislativo fu affidato a un parlamento diviso in due camere: il senato, per metà di nomina regia, e l’assemblea nazionale, eletta a suffragio universale ma esposta alla minaccia di uno scioglimento da parte del sovrano. L’esperimento costituzionale ebbe tuttavia scarso successo: nel 1907 fu siglato un accordo anglo-russo (annullato dopo la prima guerra mondiale) che divise il paese in due sfere di influenza; al tempo stesso, le due potenze straniere accordarono il proprio appoggio alla politica dello scià, che ne approfittò per sciogliere l’appena costituito parlamento nazionale (luglio 1907) – ciò che suscitò una violenta rivolta liberale e nazionalista e una serie di disordini che si protrassero fino al principio degli anni Venti. Nel frattempo, nelle regioni centrali della Persia – le uniche controllate direttamente da Teheran in virtù del trattato anglo-russo del 1907 – furono scoperti gli immensi giacimenti petroliferi che furono poi sfruttati dalla Anglo-Persian Oil Company. Nonostante avesse dichiarato la propria neutralità, durante la prima guerra mondiale la Persia fu occupata dagli inglesi e dai russi. Dopo essere stata ammessa nella Società delle Nazioni, siglò nell’agosto del 1919 un trattato di commercio con la Gran Bretagna, che pur riconoscendo formalmente l’indipendenza del paese di fatto tentò di stabilire su di esso un vero e proprio protettorato. Due anni più tardi, nel 1921, la Russia bolscevica – con cui la Persia aveva prontamente allacciato nuove relazioni diplomatiche – rinunciando a qualsiasi politica imperialistica ritirò le proprie forze d’occupazione e cancellò i debiti contratti durante il periodo zarista.

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5. L’Iran dei Pahlavi (1921-79)

Sempre nel 1921 Reza Shah, un ufficiale dell’esercito, stabilì con un colpo di stato la dittatura militare (21 febbraio). Divenuto primo ministro nel 1923, si fece eleggere sovrano costituzionale nel dicembre del 1925 e quindi scià di Persia nell’aprile del 1926, sostituendo così alla dinastia Kajar la nuova dinastia dei Pahlavi. Animato da forti sentimenti nazionalisti e influenzato dall’esempio di Mustafà Kemal in Turchia, Reza Pahlavi ruppe gli accordi stipulati nel 1919 con la Gran Bretagna, si dedicò alla riorganizzazione dell’esercito, incoraggiò lo sviluppo dell’industria e introdusse importanti riforme – soprattutto nel campo dell’educazione – trascurando peraltro di affrontare il problema decisivo della riforma agraria. In questo modo, la Persia – che dal 1935 prese il nome di Iran – realizzò il passaggio da una struttura feudale e patriarcale a una forma accentrata e semiassolutistica di stato moderno. Nonostante gli sforzi di Reza Pahlavi, il paese continuò tuttavia a essere dominato dagli interessi economici e strategici delle potenze straniere. Nell’agosto del 1941, due mesi dopo l’inizio della campagna hitleriana contro la Russia durante la seconda guerra mondiale, l’Inghilterra e l’Unione sovietica invasero l’Iran che, nonostante le sue aperte simpatie per la Germania, si era dichiarato neutrale. Il 16 settembre dello stesso anno Reza Pahlavi abdicò in favore di suo figlio Mohammed Reza Pahlavi che, dopo aver stipulato con le potenze occupanti un trattato di alleanza e di mutua assistenza, dichiarò guerra alla Germania (settembre 1942). Alla conferenza di Teheran (1943) Stati Uniti, Gran Bretagna e Russia si fecero garanti dell’integrità territoriale e dell’indipendenza dell’Iran. Ma il rispetto di questi accordi fu complicato dall’atteggiamento dell’Unione Sovietica che, insoddisfatta per il rifiuto iraniano di concedere il petrolio, fomentò una rivolta nel nord del paese, che nel dicembre del 1945 portò alla formazione della repubblica popolare dell’Azerbaigian e della repubblica popolare curda, entrambe governate da leader fedeli a Mosca. Dopo alcune resistenze e il ricorso dell’Iran all’ONU i sovietici si ritirarono dal territorio iraniano nel maggio del 1946 con la promessa di una concessione di petrolio, subordinata tuttavia all’approvazione del parlamento. Alla fine dello stesso anno, dopo che l’assemblea nazionale ebbe respinto il progetto di costituire con l’Unione Sovietica un consorzio per lo sfruttamento delle risorse petrolifere, l’Iran riuscì anche a sconfiggere la repubblica sovietica che era stata insediata nel nord del paese, priva peraltro di qualsiasi appoggio popolare. Per contenere la costante pressione sovietica sui suoi confini e sulle sue risorse, l’Iran si schierò, durante la guerra fredda, a fianco degli Stati Uniti e delle potenze occidentali. Rimaneva però il problema di modernizzare le strutture politiche ed economiche del paese. Al principio degli anni Cinquanta si fece interprete di questo compito Mohammed Medayat Mossadeq, leader di un movimento di ispirazione nazionalista e radicale, il Movimento del fronte nazionale. Nominato primo ministro nel 1951, Mossadeq decretò la nazionalizzazione dell’industria petrolifera ottenendo, nonostante le forti pressioni delle potenze straniere e l’opposizione di parte dell’esercito e degli ambienti vicini alla corte, la ratifica del parlamento. In questo modo, alla Anglo-Persian Oil Company, che controllava fin dal principio del secolo le risorse petrolifere del paese, fu sostituita la National Iranian Oil Company (NIOC). Entrato in aperto contrasto con lo scià, Mossadeq fu destituito dalla sua carica il 19 agosto del 1953, dopo una fase estremamente convulsa di confronto politico in cui parve possibile l’ipotesi di instaurare un regime repubblicano. Alla rimozione del primo ministro fece seguito una sanguinosa repressione, il rafforzamento dell’autorità monarchica e l’emarginazione delle opposizioni democratiche. La stessa nazionalizzazione dell’industria petrolifera fu rinegoziata, nel 1954, in una formula di compromesso con le compagnie straniere: fu istituito, assieme a gruppi finanziari inglesi, americani, francesi e olandesi un consorzio internazionale di sfruttamento delle risorse petrolifere del paese, all’interno del quale l’Iran riservò per sé il 50% dei diritti sulle esportazioni. Al tempo stesso furono stabilite relazioni più salde con l’Occidente e con l’America: fu sottoscritto nel 1955 il patto di Baghdad, che rispondeva al principio – teorizzato dal segretario di stato americano Foster Dulles – di “accerchiare” l’Unione Sovietica; nel 1959, poi, venne siglato con gli Stati Uniti un accordo di mutua assistenza, in virtù del quale l’Iran poté ricevere, sino alla fine degli anni Sessanta, consistenti aiuti economici e militari. Contemporaneamente, dopo l’abolizione della legge marziale (1957) e le elezioni del 1960, venne stabilizzandosi anche la situazione politica interna. Per iniziativa dello scià Muhammad Reza, fu avviato un ampio programma di riforme economiche e sociali ispirato a criteri paternalistico-autoritari, volto a rinnovare le strutture del paese senza alterarne il quadro politico-istituzionale. Con l’avallo di un referendum popolare tenuto nel gennaio del 1963 fu introdotta una moderata riforma agraria per spezzare il potere del latifondo e ridistribuire le terre; furono aboliti gli ultimi residui della servitù della gleba; fu concesso il voto alle donne; si diede inizio a un ampio programma di sviluppo industriale; e fu elaborato un progetto per l’istruzione obbligatoria. La “rivoluzione bianca” – come fu definita – favorì un deciso ricambio delle classi dirigenti, ma non intaccò in profondità le ampie sacche di sottosviluppo e di miseria ancora presenti nel paese. Per questo motivo, sempre nel 1963, all’indomani della vittoria elettorale del Partito del Nuovo Iran, vicino alle posizioni del governo, scoppiarono gravi disordini, animati dai gruppi politici e religiosi più conservatori, dagli studenti progressisti e dalle sinistre costrette ad agire nella clandestinità. In questo quadro di tensioni politiche e sociali fu assassinato, nel gennaio del 1965, il primo ministro Hassan Alì Mansur, che fu sostituito da Amir Abbas Hoveida. Nel corso degli anni Settanta l’Iran continuò a perseguire una politica filo-occidentale. Al tempo stesso, tuttavia, cominciò a intrattenere relazioni economiche con i paesi comunisti, compresa l’Unione Sovietica. In concomitanza con il ritiro della Gran Bretagna dal Golfo Persico (1971), temendo che il vuoto di potere venutosi a creare potesse essere colmato dai paesi arabi sostenuti dall’Unione Sovietica, l’Iran aumentò del 50% le proprie spese militari e con l’aiuto americano e inglese divenne la più forte potenza militare delle regione. Negli stessi anni si fecero più problematici i rapporti con l’Iraq: in seguito a violenti scontri di frontiera, nell’aprile del 1969 l’Iran chiese di rinegoziare l’accordo del 1937 per il controllo dello Shatt al-Arab; infine, sebbene avesse rinunciato alle pretese sul Bahrein nel 1970, nel novembre del 1971 prese il controllo di tre piccole isole del Golfo Persico suscitando vive proteste da parte da parte di Baghdad. Nel 1973, allo scadere dell’accordo internazionale stipulato nel 1954, lo scià, riprendendo il vecchio progetto di Mossadeq, espropriò le compagnie straniere e ridiede alla NIOC il pieno controllo dell’industria petrolifera. In quell’anno, l’Iran, membro dell’OPEC, era ormai divenuto il quarto paese produttore di petrolio e il secondo paese esportatore. Le potenze che avevano aderito al consorzio assentirono alle nuove scelte del governo, dando il proprio supporto tecnico nella prospettiva di favorevoli contratti a lungo termine. Dopo la guerra arabo-israeliana dell’ottobre del 1973 l’Iran non partecipò all’embargo sul petrolio decretato contro gli Stati Uniti, l’Europa e il Giappone. Al tempo stesso approfittò della situazione per rialzare – contro gli accordi di Teheran del 1971 – i prezzi del petrolio. Con questi proventi avviò poi un processo di modernizzazione e un programma di potenziamento militare allo scopo di trasformarsi in “grande potenza” nella regione e di realizzare un più saldo controllo sul Golfo Persico. Questo programma, oltre a lasciare intatte larghe sacche di depressione, ebbe enormi costi politici incidendo in modo pesante sulle libertà civili. Nel marzo del 1975 fu abolito il vecchio sistema bipartitico e ai due tradizionali partiti – il Nuovo Iran (governativo) e il Partito del popolo (d’opposizione) subentrò un nuovo partito unico, il Partito della resurrezione nazionale. In questo quadro venne emergendo l’opposizione degli ambienti integralisti sciiti, ostili alla progressiva occidentalizzazione del regime e sostenuti dalla protesta dei ceti proletari e contadini. Cominciarono così a imporsi i leader della comunità sciita, gli ayatollah, che scatenarono una lotta aperta contro il regime dello scià.

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6. Dalla rivoluzione islamica a oggi

Tra il 1976 e il 1979 la situazione precipitò: in seguito a violenti tumulti scoppiati in tutti i centri nevralgici del paese, lo scià Reza Pahlavi fu costretto ad abbandonare l’Iran con tutta la famiglia reale (16 gennaio 1979). Agli inizi del febbraio 1979, dopo un esilio che durava dal 1964, l’ayatollah Ruhollah Khomeini fece un trionfale ritorno nel paese. Nel marzo, un referendum popolare istituì formalmente la “repubblica islamica”, che si trasformò in una vera e propria teocrazia avente nel Corano la propria legge politica, civile e religiosa. Violentemente antioccidentale e antisovietica, la repubblica islamica instaurò una dittatura repressiva basata su un consenso manipolato dall’esaltazione religiosa e sul progetto di una progressiva espansione del fondamentalismo sciita. Dopo il 1979, in una lunga catena di destituzioni e di atti terroristici animata da Khomeini e dai fondamentalisti, si succedettero al potere Mehdi Bazargan, vecchio collaboratore di Mossadeq, che fu nominato primo ministro (febbraio-novembre 1979) e si dimise all’indomani dell’invasione dell’ambasciata americana a Teheran (4 novembre 1979); Bani-Sadr, presidente della repubblica dal 25 gennaio del 1980, e poi costretto alle dimissioni da Khomeini nell’estate del 1981 per la disponibilità a trattare con Stati Uniti il problema degli ostaggi catturati nel novembre del 1979; e poi ancora Mohammed Jawad Bahonar, capo del governo, assassinato il 30 agosto del 1981 insieme a Mohammed Alì Rajai, successore di Bani-Sadr. Nell’ottobre del 1981 fu eletto presidente della repubblica l’ayatollah Sayed Alì Khamenei. Tra la fine del 1982 e il principio del 1983 Khomeini, di fronte alle crescenti difficoltà economiche e internazionali del paese, dichiarò conclusa la fase rivoluzionaria inaugurando un nuovo corso legalitario. In politica estera il regime khomeinista si scontrò con l’Iraq di Saddam Hussein, che nel settembre del 1980 – con il duplice scopo di arrestare i progressi del fondamentalismo sciita e di procurarsi ingrandimenti territoriali – scatenò un conflitto che, contro le previsioni iniziali, si protrasse fino all’agosto del 1988, provocando momenti di profonda tensione internazionale. Alla morte di Khomeini (3 giugno 1989) gli subentrò come capo spirituale della rivoluzione islamica, il presidente Alì Khamenei. Il 28 luglio del 1989, con referendum popolare l’Iran divenne una repubblica presidenziale. Rafsanjani, con oltre il 94 % delle preferenze, fu eletto presidente (e capo del governo). Nell’agosto dello stesso anno, l’Iran ottenne dall’Iraq i territori e i prigionieri catturati durante il lungo conflitto che aveva opposto le due potenze. Di fronte all’invasione irachena del Kuwait (1990) e alla successiva guerra del Golfo (1991), l’Iran condannò l’operato di Saddam Hussein, criticando al tempo stesso la politica militare statunitense. Rafsanjani, rieletto presidente nel 1993, si sforzò di attenuare il rigore della politica confessionale e di riprendere le relazioni con le potenze occidentali, ma fu avversato dalla destra conservatrice e religiosa. Nel 1997 fu eletto presidente della repubblica Mohammed Khatami, di tendenze moderate e riformiste, che dovette confrontarsi con la destra conservatrice dell’ayatollah Khamenei. Sotto la sua presidenza, nel 1998 e poi nel 1999, studenti, intellettuali e uomini politici di ispirazione laica e vicini al governo furono oggetto di numerose violenze da parte di gruppi di militanti islamici. Lo stesso presidente fece duramente reprimere le manifestazioni promosse dagli studenti contro il governo all’indomani degli scontri sanguinosi tra studenti ed estremisti islamici verificatisi nel luglio del 1999 a Teheran. Alle elezioni politiche del febbraio e poi del maggio del 2000 i riformisti riportarono un rilevante successo. In tal modo, all’interno di un contesto fortemente incerto e segnato da ripetute violenze da parte delle forze più conservatrici del paese, Khatami (riconfermato a larga maggioranza nel 2001), poté continuare a perseguire solo in maniera molto parziale gli obiettivi di modernizzazione e di liberalizzazione che erano stati avviati nel corso del suo primo mandato. Alla vigilia delle elezioni generali del 2004, a molti esponenti moderati e riformisti fu negata la possibilità di candidarsi, sicché il risultato finale fu largamente favorevole ai conservatori, i quali risultarono vincenti anche nelle successive elezioni presidenziali del 2005, che videro l’affermazione di Mahmud Ahmadinejad, ex sindaco di Tehran. Sul piano interno quest’ultimo intraprese una svolta in senso nettamente conservatore cui accompagnò l’avvio di un ambizioso programma nucleare, che suscitò le riserve di numerosi esponenti dello stesso partito tradizionalista e le dure reazioni dell’opinione pubblica internazionale. Sul piano internazionale le numerose provocazioni di Ahmadinejad contribuirono soprattutto al riaccendersi delle tensioni con Israele e i suoi alleati occidentali. Nelle elezioni presidenziali del 2009, dopo numerose contestazioni sfociate in proteste di massa duramente represse, Ahmadinejad risultò vincente sul candidato riformista, l’ex premier Mir Hossein Mousavi. Nel febbraio del 2011, sull’onda delle manifestazioni di massa che scossero l’intera regione nordafricana e mediorientale, Tehran fu nuovamente teatro di violente proteste antigovernative, cui seguì una dura repressione e l’arresto dei principali leader dell’opposizione, tra cui lo stesso Moussavi. La questione nucleare rimase al centro delle tensioni internazionali tra Iran e Stati Uniti anche negli anni successivi.

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