India

Stato attuale dell’Asia meridionale.

  1. Dalle origini della civiltà della valle dell’Indo all’invasione indo-ariana (IV-II millennio a.C.)
  2. Dal regno di Magadha all’impero Maurya (VI-II secolo a.C.)
  3. Dall’invasione greca al dominio dei kushan (II secolo a.C. – IV secolo d.C.)
  4. L’età dei Gupta (IV-VII secolo)
  5. La conquista musulmana dai Ghaznavidi ai Ghoridi. Il sultanato di Delhi (VIII-XVI secolo)
  6. L’impero Moghul (XVI-XVIII secolo)
  7. Gli inizi della penetrazione europea (XVI-XVIII secolo)
  8. L’India sotto il dominio britannico (1763-1857)
  9. Dalla “grande rivolta” alla nascita dell’impero (1857-77)
  10. Dalla fondazione del Partito del Congresso alla prima guerra mondiale (1885-1918)
  11. Dalla leadership di Gandhi nel Congresso alla seconda guerra mondiale (1919-39)
  12. La guerra, l’indipendenza e la divisione dell’India (1939-47)
  13. L’India di Nehru (1948-64)
  14. L’India dopo Nehru: da Shastri a Indira Gandhi (1964-84)
  15. Da Rajiv Gandhi a Manmohan Singh
  16. Gli sviluppi odierni fra affermazione economica e terrorismo
1. Dalle origini della civiltà della valle dell’Indo all’invasione indo-ariana (IV-II millennio a.C.)

Preceduta fin dal IV millennio a.C. dall’insediamento di gruppi di agricoltori provenienti dall’Iran, la più antica civiltà del subcontinente indiano – la cosiddetta “civiltà della valle dell’Indo” (o di Harappa) – si sviluppò tra il III e il II millennio nelle regioni nordoccidentali del paese attraverso la progressiva integrazione delle popolazioni indigene dei dravida e dei munda con le tribù di invasori mongoloidi, medio-asiatici e mediterranei provenienti dal nord. Basata su un elevato livello di urbanizzazione, dotata di un compiuto sistema di scrittura e fondata economicamente sull’allevamento del bestiame e sulle relazioni commerciali con l’area mesopotamica, che sono accertate fin dalla prima metà del III millennio, la civiltà della valle dell’Indo iniziò a decadere per ragioni interne tra il XX e il XVIII secolo e tramontò definitivamente in concomitanza con le invasioni dei popoli indo-ariani provenienti dall’Asia centrale, che in successive incursioni, sviluppatesi nel corso di tutto il II millennio – ma con maggiore intensità a partire dal 1500 – si spinsero fino alla pianura del Gange. Di ceppo indoeuropeo, seminomadi, divisi in tribù a loro volta articolate in clan e famiglie, dediti prevalentemente alla pastorizia e all’attività bellica, gli indo-ariani praticarono nei confronti delle tribù locali una rigida politica matrimoniale che con ogni probabilità è all’origine del sistema delle caste, ulteriormente perfezionato nei secoli successivi e decisivo per intendere fino a oggi le strutture portanti della storia sociale e religiosa indiana. Nella prima metà del I millennio gli indo-ariani estesero il proprio dominio fino al Bengala; più tardi, iniziarono a penetrare nella penisola del Deccan; al tempo stesso andarono soggetti a un processo di lenta ma irreversibile sedentarizzazione da cui sorsero i primi grandi stati dell’India antica. Risalgono al periodo iniziale dell’invasione indo-ariana le prime raccolte della religione vedica: il Rigveda e l’Atharveda. I Brahamana e le Upanisad – che sviluppano i temi classici della cultura indiana induismo) – furono composti in epoca successiva, rispettivamente tra l’XI e il VII secolo e tra l’VIII e il VI secolo. Il culto di Visnu e di Siva, frutto della reazione e della popolarizzazione del brahamanesimo tradizionale, cominciò a svilupparsi tra il VI e il V secolo in risposta alla prepotente diffusione del buddhismo e dello giainismo.

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2. Dal regno di Magadha all’impero Maurya (VI-II secolo a.C.)

A partire dal VI secolo tra i primi stati indiani venne acquistando una potenza sempre maggiore il regno di Magadha, situato nell’ampia zona compresa tra l’Indo e il Gange, che all’epoca del re Bimbisara (540-490) fu teatro della predicazione del Buddha e del Mahavira, i fondatori del buddhismo e dello giainismo. Per molto tempo, tuttavia, le regioni nordoccidentali dell’India rimasero esposte alle incursioni delle potenze straniere: dapprima quelle dei persiani di Dario I, che tra il 522 e il 486 riuscì a sottomettere all’impero achemenide la provincia di Gandhara e la valle dell’Indo; poi, due secoli più tardi, quelle di Alessandro Magno che, dopo aver assoggettato l’impero persiano, tra il 327 e il 325 conquistò nuovamente il Gandhara spingendosi fino alle foci dell’Indo. L’invasione dei greci – che dovevano esercitare ancora per diversi secoli una profonda influenza sulle regioni nordoccidentali – fu ridimensionata da Chandragupta, che fondò intorno al 321 l’impero dei Maurya, una delle strutture politiche più significative dell’India antica. Lo stesso Chandragupta consolidò il suo dominio sull’India settentrionale e riuscì a strappare ai Seleucidi alcuni territori situati nel Pakistan e nell’Afghanistan odierni. Suo nipote Asoka (271-32) unificò sotto il suo scettro tutta l’India – con l’eccezione dell’estrema parte meridionale del subcontinente – portando l’impero Maurya al massimo della potenza e dello splendore. Durante il suo regno il buddhismo divenne la religione dominante (fu esportato anche a Ceylon) e il paese conobbe un grande e pacifico sviluppo politico e culturale che fu tuttavia interrotto, a partire dal principio del II secolo, da una nuova serie di invasioni straniere e di disordini interni. Nel 185, con l’assassinio di Brhadratha, l’ultimo sovrano della dinastia, l’impero dei Maurya si dissolse in una molteplicità di piccole formazioni statali rette da dinastie minori. Venuto meno il sostegno del potente re Asoka e in assenza – per i suoi stessi principi – di una solida struttura organizzativa, il buddhismo cominciò allora a perdere in India la sua forza propulsiva.

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3. Dall’invasione greca al dominio dei kushan (II secolo a.C. – IV secolo d.C.)

Tra il II secolo a.C. e il IV secolo d.C. il subcontinente indiano continuò a essere percorso e conteso da una molteplicità di invasori stranieri e di deboli dinastie locali. Le regioni centrosettentrionali del paese – dove ai Maurya subentrò dal 185 al 72 a.C. la dinastia dei Sunga – furono occupate al principio del II secolo a.C. dai re greci della Battriana: dapprima da Demetrio (189-166), che conquistò il Punjab e il Sindh, e poi da Menandro (166-145), che favorì il sincretismo greco-buddhista. A essi subentrarono nel secolo successivo i saka (sciti provenienti dal Sigistan), che estesero il proprio dominio fino alla penisola del Deccan; i malava, che nel 57 a.C. fondarono un regno indo-partico; e ancora i kushan, provenienti dall’Asia centrale, che nel 78 d.C. crearono tra il Punjab e Kashmir una nuova e più potente formazione statale. L’impero dei kushan raggiunse la sua massima estensione sotto il re Kaniska (120-162 circa), che diede un enorme impulso allo sviluppo e alla diffusione del buddhismo mahayana, ma intorno al 225 crollò sotto le opposte pressioni dei Sasanidi a nord e dell’impero Gupta a sud. Nello stesso tempo, tra il I secolo a.C. e il IV secolo d.C., si sviluppò nelle regioni sudorientali del paese l’impero Andhra. Nonostante l’anarchia interna e le ricorrenti invasioni straniere, questo lungo periodo della storia indiana fu segnato complessivamente da un progressivo consolidamento della civiltà e della teologia indù e, sul versante dell’economia e dei traffici, da relazioni commerciali sempre più intense con l’impero romano, che proprio allora aveva iniziato a espandersi verso oriente.

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4. L’età dei Gupta (IV-VII secolo)

In concomitanza con la crisi sempre più profonda dell’impero kushan, nel IV secolo sorse nella parte nordorientale del paese l’impero dei Gupta, il cui sviluppo coincide con l’“età classica” della storia indiana. Fondato nel 320 da Chandragupta I (320-35) attorno al nucleo originario dell’impero Maurya – nella regione di Magadha -, fu progressivamente ampliato dai suoi successori in una solida struttura politica che riunì tutte le regioni settentrionali del subcontinente indiano: dapprima da Samudragupta (335-76) e poi soprattutto da Chandragupta II (376-414), con cui l’impero raggiunse la sua massima potenza. Sotto Kumaragupta I (414-54) e Skandagupta (454-70) questa potente formazione politica dovette fronteggiare, oltre a una serie di gravi disordini interni, le ripetute incursioni degli sciti e degli unni eftaliti, che alla fine ne causarono il crollo. Nonostante il suo rapido declino, nell’impero dei Gupta l’arte e la letteratura indù raggiunsero un elevato livello; furono decisive, poi, la crisi sempre più profonda del buddhismo e la conseguente rinascita del brahamanesimo, che doveva segnare in modo duraturo la storia successiva dell’India. Dal punto di vista economico e amministrativo l’impero fu organizzato intorno alla cellula del villaggio rurale, che costituiva il principale soggetto del prelievo fiscale; i villaggi erano quindi riuniti in circondari, a loro volta organizzati in distretti e in province, secondo uno schema che doveva rimanere caratteristico della struttura politica e amministrativa indiana nei secoli seguenti. Le province erano amministrate da funzionari alle dirette dipendenze del sovrano, incaricati di riscuotere i tributi e di mantenere l’ordine interno. Quando si affermarono la pratica di trasmettere la carica di funzionario di padre in figlio e il principio della primogenitura, si giunse a un’organizzazione che presenta diversi punti di contatto con quella del feudalesimo occidentale e che, col tempo, doveva mettere in crisi la potenza reale dell’autorità centrale. Verso la fine del V secolo l’impero fu occupato in gran parte dagli unni eftaliti e si ridusse ai suoi confini originari, per poi scomparire del tutto intorno alla metà del VI secolo. A esso subentrarono l’impero Malava, che fu fondato nel 529 da Yasodharman nella regione del Kashmir e che rimase in vita fino al 780; e il regno di Kanauj, fondato da Harsha (606-647), che riuscì a unificare per l’ultima volta l’India settentrionale e a promuovere una rinascenza delle arti, della letteratura e della teologia indù, nel quadro di un’ampia tolleranza religiosa, soprattutto nei confronti del buddhismo. La sua opera tuttavia non sopravvisse alla sua morte, a cui seguì un periodo di disordini e di nuove incursioni straniere (dal Tibet e dal Nepal). L’India settentrionale si frammentò allora in una serie di piccoli potentati locali controllati dal clan dei Rajput, i quali diedero vita a una forma particolare di feudalesimo che dovette confrontarsi con la pressione sempre più intensa dei musulmani. Tra il VII e l’VIII secolo il brahamanesimo riuscì ad aver ragione quasi del tutto del buddhismo, che rimase la religione dominante soltanto a Ceylon e nelle regioni himalayane. Nello stesso periodo si sviluppò nel Deccan il regno dei Pallava, che raggiunse la sua massima potenza intorno all’VIII secolo. Tra VIII e XI secolo la storia indiana fu caratterizzata più in generale da continui conflitti tra i potentati locali, che da un lato impedirono l’unificazione politica del paese e dall’altro favorirono nuove ondate di invasioni straniere. È in questo quadro di anarchia e di frammentazione politica che si colloca la conquista musulmana del subcontinente indiano.

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5. La conquista musulmana dai Ghaznavidi ai Ghoridi. Il sultanato di Delhi (VIII-XVI secolo)

Intorno al 783 l’India settentrionale si trovò a essere dominata da due grandi formazioni politiche: la prima a nord con capitale Kanauj, la seconda a sud con capitale Ujjayini (l’impero Gurjara). Nell’843 i Gurjara conquistarono il Kanauj e diedero vita a una struttura statale più ampia, che si mantenne in vita, sempre più debolmente, fino al 1019, quando la capitale fu conquistata dal sultano ghaznavide Mahmud. Verso il 1000, intanto, ai confini nordoccidentali di questo impero si formò il principato indipendente di Ajmir e di Delhi, il cui ultimo sovrano fu sconfitto nel 1192 da Muhammad al-Ghori. Da questa data furono gettate le basi definitive della conquista musulmana e si aprì una nuova fase della storia indiana. La penetrazione musulmana era iniziata già nel 712, quando gli arabi occuparono il Sindh stabilendosi nella valle dell’Indo. Le conquiste di Mahmud di Ghazna (971-1030), che occupò il Punjab, percorse più volte il territorio indiano e pose fine al regno di Kanauj, rappresentarono un salto di qualità nell’occupazione musulmana, ma non modificarono in modo sostanziale gli equilibri complessivi del subcontinente indiano, che tra il 1000 e il 1192 rimase diviso in una molteplicità di piccoli stati retti da dinastie minori: i Pala (VIII-XII secolo) e i Sena (XII) a nord, i Pratihara (X secolo) nell’India centrale e i Pallava, i Cola e i Pandya a sud. La situazione mutò radicalmente sul finire del XII secolo, quando ai Ghaznavidi subentrò la dinastia turca dei Ghoridi. Saliti al potere in Afghanistan nel XII secolo, i Ghoridi riuscirono a penetrare in profondità e stabilmente nel subcontinente indiano a partire dal 1192, quando gli eserciti di Muhammad al-Ghori, dopo aver tolto il Punjab ai Ghaznavidi, sconfissero a Tarain le truppe indù di Prithivi Raj, un re della dinastia Cauhan che controllava allora gran parte dell’India nordoccidentale. Nel giro di poco tempo, i Ghoridi riuscirono a estendere il proprio dominio su tutta la valle del Gange. Alla morte di Muhammad, assassinato nel 1206, Qutb al-Din Aybak diede vita al primo regno musulmano indipendente dell’India – il sultanato di Delhi – che riuscì nel corso di pochi anni a ridurre in vassallaggio quasi tutti i territori dell’India settentrionale, dal Punjab fino al Bengala, con l’eccezione del Kashmir. Alla fine del XIII secolo nel sultanato di Delhi alla dinastia dei Ghoridi subentrò la dinastia turca dei Khalji, che con ’Ala al-Din (1296-1316) estese il proprio dominio fino al Deccan e conferì un profilo più solido alle strutture politiche del sultanato. Ai Khalji seguì, già negli anni Venti del XIV secolo, una nuova dinastia turca, i Tughluq, che pose sotto il proprio controllo tutto il subcontinente indiano con l’eccezione dell’estremo lembo meridionale della penisola. Sui tempi lunghi, il governo di un territorio così vasto si rivelò tuttavia impossibile, soprattutto nel sud del paese, dove nel 1336 sorse il regno indù di Vijayanagar, che doveva restare in vita fino alla metà del XVI secolo. Con l’invasione di Tamerlano V, che saccheggiò Delhi nel 1398-99, l’egemonia del sultanato, già profondamente incrinata dalle rivalità tra i piccoli governatori locali musulmani che aspiravano all’autonomia, entrò in una crisi senza ritorno; il sultanato stesso finì per frantumarsi di fatto in una miriade di stati in conflitto reciproco. La presenza musulmana, tuttavia, rimase un dato costante della storia indiana successiva e si mantenne politicamente strutturata attraverso l’esistenza dei molteplici sultanati turchi indipendenti che sorsero nelle varie parti del paese integrandosi in modo più o meno conflittuale con la popolazione e la cultura indù. Nel 1451 infine, quando la dinastia afghana dei Lodi prese il potere a Delhi, venne meno anche l’egemonia delle dinastie turche che fino ad allora avevano diretto quasi senza eccezioni l’espansione musulmana in India.

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6. L’impero Moghul (XVI-XVIII secolo)

La fortuna della nuova dinastia di Delhi durò soltanto fino al 1526, quando il sultano Ibrahim Lodi fu sconfitto a Panipat da Babur (1527-30) – un potente invasore musulmano di origini turco-mongole proveniente dall’Asia centrale e discendente da Gengis Khan e da Tamerlano – che, dopo aver vinto nel 1527 la resistenza dei Rajput, fondò l’impero dei Moghul nella regione compresa tra la valle dell’Indo e la pianura del Gange. Dopo che il suo più debole successore Humayun (1530-56) riuscì a stento a contenere una nuova invasione afghana, divenne imperatore Akbar il Grande (1556-1605), nipote di Babur, che estese il dominio dei Moghul sulla quasi totalità dell’India settentrionale – con l’eccezione delle estreme regioni nordorientali – e sulla parte centrosettentrionale del Deccan. Akbar agì come un sovrano “illuminato”: attraverso la creazione di quindici province controllate da un efficiente apparato di funzionari, consolidò le strutture politico-amministrative dell’impero sforzandosi di combinare i vantaggi di un dominio centralizzato con l’inevitabile struttura feudale dell’amministrazione; riorganizzò inoltre il diritto e l’assistenza pubblica; al tempo stesso praticò una politica di ampia tolleranza religiosa nei confronti delle comunità indù e diede un potente impulso alla poesia, alla scienza e alle arti. Dopo che al potere si succedettero suo figlio Giahangir (1605-1627) e Shah Giahan (1628-58) – che fissarono in Europa il mito dello splendore del “Gran Mogol” a spese, tuttavia, dell’efficienza del governo e degli apparati burocratici e con una relativa recrudescenza nei rapporti con la popolazione indù – divenne imperatore Aurangzeb (1658-1707), che giunse a porre sotto il proprio controllo, seppure in modo instabile e tutt’altro che privo di contrasti, la quasi totalità del territorio indiano, con l’eccezione delle estreme regioni meridionali, riproducendo così l’unità politica che quasi duemila anni prima aveva realizzato il re Asoka. Col passare del tempo, tuttavia, la politica religiosa di Aurangzeb (decisamente ostile all’elemento indù) e la sua politica di espansione militare (fonte di tensione con le popolazioni locali e di una continua pressione fiscale, per lo più ai danni della popolazione non musulmana) produssero nel paese una situazione di profonda crisi, alimentando una serie di rivolte – dei rajput nelle regioni centrosettentrionali, dei marathi nel Deccan, e dei sikh nel Punjab – che minarono l’originaria coesione del dominio imperiale. La situazione fu ulteriormente aggravata dalle invasioni degli afghani e dei persiani, che giunsero fino alla stessa Delhi. Alla morte di Aurangzeb l’impero – che doveva peraltro sopravvivere formalmente fino al 1858 – si disgregò in una molteplicità di domini indipendenti e si ridusse di fatto a controllare il piccolo territorio della provincia di Delhi. Attraverso la duplice esperienza del sultanato di Delhi e dell’impero Moghul la presenza musulmana si consolidò in modo definitivo nel subcontinente indiano, soprattutto nelle regioni occidentali. L’induismo rimase tuttavia la religione della maggioranza della popolazione.

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7. Gli inizi della penetrazione europea (XVI-XVIII secolo)

La presenza degli europei cominciò a diventare un elemento politicamente ed economicamente rilevante della storia indiana intorno all’inizio del XVIII secolo, in concomitanza con la dissoluzione dell’impero Moghul. La penetrazione occidentale – che si esplicò al principio attraverso l’intensa attività delle compagnie commerciali – era tuttavia già iniziata nell’ultimo scorcio del XV secolo e nei primi anni del secolo successivo, quando i portoghesi, con Vasco de Gama, giunsero a Calicut (1498) e stabilirono i primi insediamenti a Cochin (1502) e a Goa (1510). Gli olandesi, che nel 1602 diedero vita alla propria Compagnia delle Indie orientali, crearono basi di commercio nel sud, e in particolare a Ceylon. Furono tuttavia la Francia e soprattutto l’Inghilterra a esercitare un ruolo decisivo nel paese. Nel 1600, all’epoca di Elisabetta I, fu costituita la Compagnia inglese delle Indie orientali, che nel corso del XVII secolo fondò importanti stazioni di commercio a Surat (1613), a Madras (1639), a Bombay (1661) e a Calcutta (1691), e riuscì a eliminare la concorrenza portoghese e olandese. Nel 1664, per iniziativa di Colbert, fu fondata la Compagnia francese delle Indie orientali, che stabilì il proprio controllo sugli scali di Pondicherry (1674) e di Chandernagore (1686) dando così inizio a una rivalità che doveva tradursi in guerra aperta e risolversi, un secolo più tardi, con il definitivo dominio britannico nel subcontinente indiano. Finché l’impero Moghul rimase stabile, gli occidentali si limitarono a instaurare e a mantenere pacifiche relazioni commerciali; nel XVIII secolo – all’epoca dell’invasione afghana, delle incessanti rivolte dell’elemento indù contro il dominio musulmano e delle guerre franco-inglesi in Europa – la situazione cambiò in modo radicale: Gran Bretagna e Francia imposero direttamente la propria presenza politica e militare e cercarono di legarsi in modo stabile all’elemento locale, inaugurando così un periodo di aperta e più aggressiva competizione coloniale. A partire dal 1720, i francesi ottennero alcuni rilevanti successi grazie all’opera di François Dumas e di Joseph-François Dupleix. Il primo riuscì a inserire la Francia nella vita commerciale del paese e a organizzare un consistente numero di truppe indigene ben inquadrate e addestrate. Al principio degli anni Quaranta tuttavia, quando Dupleix gli subentrò come responsabile generale degli insediamenti coloniali, le direttrici della penetrazione britannica e di quella francese cominciarono a sovrapporsi pericolosamente. Dupleix fu in ancora grado di imporre per un breve periodo l’egemonia di Parigi sul Deccan ma, sconfitto dagli inglesi nel 1752, fu richiamato in patria nel 1754 da Luigi XV. In connessione con la guerra dei Sette anni (1756-63) si giunse allo scontro decisivo: nel 1757, a Palasi (Plassey), con la vittoria del generale Robert Clive sul governatore del Bengala sostenuto dai generali francesi, l’Inghilterra – forte di una indiscussa superiorità navale – riuscì a inibire per sempre la penetrazione della Francia nel subcontinente indiano e a ottenere, nella fattispecie, il controllo dei flussi finanziari e fiscali del Bengala che, sotto la sovranità formale dell’imperatore Moghul, divenne il primo nucleo del dominio coloniale britannico.

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8. L’India sotto il dominio britannico (1763-1857)

Iniziò in questo modo l’epoca del dominio britannico in India, formalmente riconosciuto dal trattato di Parigi del 10 febbraio del 1763, che ridisegnò la mappa del potere coloniale europeo in un senso assolutamente favorevole alla Gran Bretagna. Il trattato, ispirato a uno spirito di relativo compromesso e inteso a non eliminare del tutto la presenza coloniale di Parigi, lasciò ai francesi solo cinque insediamenti – Pondicherry, Karikal, Mahé, Yanaon e Chandernagore – ponendo le condizioni per l’ulteriore espansione dell’influenza inglese nella regione. Rimaneva tuttavia aperto il problema decisivo di come conciliare le funzioni della Compagnia – che non era un organismo governativo ma, in ultima analisi, una potentissima società commerciale che aveva agito fino ad allora con una propria amministrazione militare e civile, una propria diplomazia e una propria flotta – con quelle del governo di Londra e della Corona. Dopo aver richiamato in patria Clive nel 1767, il parlamento inglese, per dare un profilo più efficiente e strutturato all’amministrazione della Compagnia, istituì nel 1772 il Governatorato generale dell’India, nominando primo governatore Warren Hastings (1772-85), che riuscì a consolidare le conquiste del generale Clive e a promuovere alcune riforme interne, soprattutto nel settore finanziario. I legami tra il governo e la Compagnia furono ulteriormente estesi e perfezionati nel 1784 con l’India Act di William Pitt il Giovane, che creò uno specifico ufficio di controllo. Negli anni seguenti la Compagnia estese il proprio dominio – formale o di fatto – a tutte le più importanti regioni del paese. L’artefice iniziale della conquista, che doveva permettere uno sfruttamento più sistematico delle risorse, fu il governatore generale Richard Colley Wellesley (1798-1805), la cui opera fu continuata da Francis Rawdon Hastings (1813-23) e da lord Amherst (1823-26): tra il 1817 e il 1818 fu conquistata l’India anteriore, tra il 1824 e il 1826 l’India ulteriore, tra il 1839 e il 1859 l’India nordoccidentale. In questa vasta regione la Compagnia delle Indie orientali, con la supervisione del Governatorato generale, si dedicò soprattutto all’amministrazione delle aree più ricche a elevato insediamento urbano; il resto dell’India britannica rimase sotto il dominio formale dei principi locali affiancati da residenti inglesi che esercitavano un controllo effettivo sul flusso dei traffici. Il paese divenne così una gigantesca riserva agricola e un enorme mercato per le merci britanniche – ciò che si risolse in un grave danno per le attività produttive locali, soprattutto per l’industria tessile e per l’economia tradizionale di villaggio, che fu messa in crisi dall’introduzione della proprietà privata. Fu stabilito inoltre un compiuto sistema di legislazione e avviato un vasto progetto di sviluppo dei trasporti e dell’irrigazione. Gli inglesi si sforzarono di agire anche sulle tradizioni più consolidate della cultura indù e abolirono la schiavitù, la cremazione delle vedove (sati) e i riti che prevedevano sacrifici umani. Nel 1835 fu imposto l’insegnamento della lingua inglese; nel 1856 furono fondate a Bombay e a Calcutta le prime università di tipo occidentale. Nel complesso, a beneficiare del dominio coloniale fu una nuova classe media, composta in prevalenza di uomini di commercio e insediata nelle grandi città portuali, che si andò progressivamente occidentalizzando e che prese a rivendicare un ruolo più rilevante nella gestione dei traffici. Ram Mohan Ray (1772-1833), con le sue idee riformatrici, fu un tipico esponente di questo nuovo ceto medio, leale verso le autorità britanniche ma deciso a ottenere una maggiore autonomia dalla tutela dell’Inghilterra. Nel corso degli anni Quaranta la presenza inglese nel subcontinente indiano, che fino ad allora si era manifestata quasi sempre in veste difensiva o come forza di interposizione nei conflitti tra i diversi stati musulmani e indù, assunse tratti più apertamente imperialistici, soprattutto quando cominciò a imporsi il principio secondo cui un regno senza erede al trono o in difficoltà avrebbe dovuto passare sotto il diretto controllo britannico. Nonostante i gravi squilibri politici, economici, sociali e religiosi introdotti dalla dominazione coloniale, l’Inghilterra riuscì a conferire per la prima volta al paese, dopo secoli di continue frammentazioni e di deboli ricomposizioni, una compiuta unità politica. La progressiva occidentalizzazione del paese, tuttavia, urtò in maniera profonda gli interessi e la sensibilità dei settori più tradizionalisti della società indiana. Stanno qui, in ultima analisi, le radici della “grande rivolta” del 1857.

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9. Dalla “grande rivolta” alla nascita dell’impero (1857-77)

Nel 1857, dopo che era divenuto governatore generale Charles John Canning, le profonde tensioni accumulatesi durante gli anni di espansione della Compagnia e aggravatesi ulteriormente sotto il governatorato di James Andrew Dalhousie (1846-56) giunsero al punto di rottura con la violenta ribellione dei sepoys – le milizie indiane dell’esercito coloniale britannico. La “grande rivolta”, che fu scatenata dal contrasto tra l’elemento protestante delle truppe coloniali e quello indù e musulmano, ottenne il sostegno di diversi principi locali e si estese con grande rapidità a tutto il paese, portando a una fugace restaurazione dell’impero Moghul (peraltro mai formalmente abolito) sotto Bahadur Shah e alla conquista di Delhi da parte dei ribelli. Dopo una dura repressione, che si tradusse in veri e propri massacri da entrambe le parti, e dopo l’esilio del Gran Mogol, l’Inghilterra decise di avviare una profonda riforma del regime coloniale indiano. Nel 1858 la Compagnia fu privata di gran parte delle sue funzioni e venne di fatto liquidata; al suo posto fu creato un ministero speciale per l’India; al Governatore generale subentrò un viceré direttamente responsabile di fronte al governo di Londra (dal 1858 al 1862 lord Canning, a cui seguirono – per citare i più significativi – Richard Mayo tra il 1869 e il 1872, Edward Lytton tra il 1876 e il 1880 e George Ripon tra il 1880 e il 1884); al posto dell’ufficio di controllo istituito nel 1784 subentrò un segretario di stato per l’India, coadiuvato da una commissione permanente di esperti; le truppe dell’esercito coloniale furono reclutate in misura sempre maggiore tra le popolazioni locali e amalgamate con elementi inglesi – e furono usate anche (in particolare i sikh e i gurkha) in spedizioni oltremare; la stessa strategia di integrazione fu perseguita, attraverso l’Indian Civil Service, al livello dell’amministrazione civile, i cui ranghi furono aperti all’elemento indigeno tramite pubblici concorsi. Ai sovrani locali che riconoscessero il governo britannico fu garantita l’integrità territoriale. Furono inoltre riorganizzate le finanze e abolite le dogane interne. Con la creazione di una legislazione e di un sistema giudiziario unitario fu portata a compimento l’unità politica del paese; l’efficienza del sistema delle comunicazioni e la diffusione della lingua inglese introdussero poi una condizione di maggiore omogeneità nella situazione di estrema frammentazione che caratterizzava i rapporti tra i vari popoli del subcontinente. Cominciarono anche a circolare e a radicarsi gli elementi della tradizione politica occidentale: il liberalismo, il parlamentarismo, il nazionalismo. Lo stesso induismo – che doveva diventare il punto di riferimento e di aggregazione fondamentale del sentimento nazionale indiano – cominciò a essere depurato dalle superstizioni popolari. Nel 1861, infine, fu compiuto il primo passo significativo nella direzione dell’autogoverno dell’India britannica con la nomina di consiglieri indiani del viceré e con l’apertura dei consigli provinciali all’elemento indigeno. Per controbilanciare gli effetti di queste pur timide aperture, gli inglesi si sforzarono in ogni caso di dividere le forze politiche, sociali, culturali e religiose del paese ricercando l’appoggio della minoranza musulmana. Al tempo stesso, nel 1876 istituirono per volontà di Disraeli l’impero britannico delle Indie, di cui fu incoronata imperatrice il 1° gennaio 1877 la regina Vittoria. L’insieme di queste trasformazioni accelerò il processo di formazione di una classe media riformatrice aperta al contatto con gli inglesi ma sempre più saldamente orientata a rivendicare un maggior peso politico e una maggiore partecipazione alla vita economica e amministrativa del paese. Ancora per molto tempo, tuttavia, il nazionalismo indiano avrebbe trovato un limite strutturale alla propria azione nell’enorme arretratezza economica e sociale indiana, che favoriva di fatto il colonialismo britannico e rendeva in ultima analisi debole la richiesta di una reale partecipazione alla gestione dei destini del paese.

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10. Dalla fondazione del Partito del Congresso alla prima guerra mondiale (1885-1918)

Queste domande di partecipazione portarono nel 1885 alla fondazione del Partito del Congresso nazionale indiano, sorto per iniziativa di alcuni leader tra cui emersero in un primo momento Allan Octavian Hume, Dadhabai Naoroji, Pherozeshah Mehta e W. C. Bonnerjee, e qualche anno più tardi Surendranath Banerjea, Gopal Krishna Gokhale, Rabindranath Tagore e Aurobindo Goshe. All’inizio del secolo il Partito del Congresso si diede un orientamento più apertamente nazionalista e radicale sotto la guida di Bal Gangadhar Tilak il quale tuttavia, favorevole all’ipotesi di un ricorso alla lotta armata contro gli inglesi, fu presto emarginato dal partito. Con le riforme amministrative introdotte dal viceré George Nathaniel Curzon (1899-1905), che nel 1905 divise la provincia del Bengala in una zona orientale a prevalenza musulmana e una occidentale a prevalenza indù, il sentimento nazionale ricevette un ulteriore impulso. La divisione durò soltanto fino al 1911, ma fu interpretata dai membri del Partito del Congresso – che era in maggioranza indù – come un tentativo di spezzare il fronte nazionalista favorendo l’elemento musulmano. Per reazione, nel 1906 il Congresso si diede una leadership più radicale e pose all’ordine del giorno la parola d’ordine dell’autogoverno; nello stesso anno tuttavia i musulmani – nel timore di restare schiacciati da una maggioranza nazionalista indù e allo scopo di curare gli interessi specifici delle comunità islamiche – si diedero una propria organizzazione di partito fondando la Lega musulmana. Un ulteriore elemento di divisione tra le due comunità fu introdotto intorno al 1909 con le riforme Morley-Minto che, aumentando la presenza dell’elemento indiano all’interno del consiglio legislativo, dell’amministrazione del viceré e dei consigli provinciali attraverso un suffragio censitario, stabilivano al tempo stesso l’istituzione di seggi separati per indù e musulmani. Ma anche a prescindere da questo problema specifico, una parte consistente del Congresso denunciò l’insufficienza delle riforme e i nazionalisti più radicali decisero di scatenare una nuova ondata di terrorismo. La sostanziale lealtà dei nazionalisti indiani fu tuttavia evidente nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, quando la popolazione indù e quella musulmana si schierarono in modo almeno relativamente compatto dietro la Gran Bretagna. La durata e i costi della guerra (circa 100.000 morti) produssero comunque un profondo malcontento nei confronti degli inglesi, che si trovarono costretti tra il 1917 e il 1918 a promettere la concessione dello statuto di dominion. Negli stessi anni Mohandas Karamchand Gandhi (1869-1948), lasciato il Sudafrica nel 1915, divenne il leader indiscusso del Congresso. Fu allora che, con il patto di Lucknow del novembre del 1916, i destini del nazionalismo indù e di quello musulmano parvero potersi riunire. Ma i primi tentativi di pressione nel senso dell’autogoverno furono immediatamente repressi dalla Gran Bretagna.

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11. Dalla leadership di Gandhi nel Congresso alla seconda guerra mondiale (1919-39)

Nel 1919, dopo l’emanazione di una legge che stabiliva che gli agitatori nazionalisti sarebbero stati giudicati in tribunali inglesi, Gandhi organizzò – secondo quanto aveva già sperimentato in Sudafrica – la sua prima campagna di resistenza passiva, ottenendo il consenso della maggioranza del Congresso. La strategia della non violenza fu tuttavia messa a dura prova nel corso dei disordini che scoppiarono nel Punjab nel 1919 e che culminarono nel massacro di Amritsar del 13 aprile 1919, compiuto dalle truppe britanniche nei confronti della popolazione disarmata, che provocò quasi quattrocento morti. Intorno alla fine dello stesso anno, tuttavia, il governo inglese – dopo aver ulteriormente ampliato le possibilità di accesso degli indiani nei ranghi dell’amministrazione – fece un nuovo passo nella direzione dell’autogoverno con il Government of India Act : fu esteso il suffragio e fu concesso maggior potere agli elementi indigeni nelle assemblee provinciali, che in questo modo iniziarono a condividere le responsabilità del governo locale con i ministri e i governatori britannici. Il viceré e i governatori provinciali, tuttavia, continuarono a mantenere il potere di veto e il diritto di produrre nuove leggi attraverso decreti. Gandhi considerò insufficienti queste concessioni e si diede a promuovere nuove forme di disobbedienza civile e a organizzare ripetute manifestazioni di protesta non violenta. Sotto la sua guida, che assunse presto anche una deriva religiosa – da qui l’appellativo di Mahatma, “grande anima” – il Congresso raccolse consensi crescenti tra le due guerre, riuscendo a conquistare l’adesione di grandi masse popolari e spezzando così quel vincolo a senso unico che l’aveva legato fin dal principio alla classe media colta e di commercio indiana. Nel 1920 il Congresso – alla cui sinistra si era formata un’ala più radicale capeggiata da Nehru – cominciò a rivendicare in modo aperto l’indipendenza del paese. Al fine di dare maggior forza e coesione al movimento nazionalista Gandhi si sforzò anche di promuovere l’accordo tra la comunità indù e quella musulmana. Nella prima metà degli anni Trenta la situazione indiana fu discussa e valutata in una serie di conferenze imperiali che portarono nel 1935 a un nuovo e fondamentale Government of India Act, una costituzione di ispirazione decisamente liberale che estese il suffragio al 14% della popolazione, istituì assemblee e governi provinciali interamente indiani e una legislatura elettiva federale a Delhi. L’India britannica fu divisa in undici province, accanto alle quali restavano gli stati indigeni. Nasceva così la Federazione indiana in cui, attraverso l’autorità del viceré, il potere reale – finanze, difesa, politica estera – era comunque saldamente nelle mani del governo di Londra. L’India venne così a trovarsi in una situazione intermedia tra l’indipendenza caratteristica dei dominions e la condizione tipica del colonialismo temperato. Nel 1937 si svolsero le prime elezioni con il nuovo sistema: il Partito del Congresso ottenne circa il 50% dei seggi e riuscì a formare propri governi in sette delle undici provincie della Federazione. Sembrò quindi profilarsi la possibilità di una transizione pacifica alla completa indipendenza del paese. La Lega musulmana, tuttavia, che sotto la guida di Muhammad Ali Jinnah aveva ottenuto un rilevante consenso alle elezioni e aveva formato propri governi in tre delle restanti province, rese la situazione estremamente complessa: temendo l’egemonia dell’elemento indù in una prossima India indipendente, organizzò il proprio movimento in un gruppo rigorosamente separato. Si fecero così sempre più frequenti e feroci gli scontri tra nazionalisti indù e musulmani. Questi ultimi, soprattutto, alla vigilia del secondo conflitto mondiale cominciarono a immaginare seriamente la possibilità di una scissione del paese in più stati indipendenti, lungo le linee dell’appartenenza religiosa – ciò che doveva effettivamente accadere all’indomani della guerra.

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12. La guerra, l’indipendenza e la divisione dell’India (1939-47)

Con lo scoppio della seconda guerra mondiale le relazioni con l’Inghilterra entrarono nuovamente in crisi. Su pressione del governo britannico il viceré Victor Linlithgow dichiarò il paese coinvolto nel conflitto senza nemmeno consultare i principali esponenti delle forze politiche locali e del Congresso. Il risultato fu che durante tutto il corso della guerra l’India non fu affatto compatta dietro la Gran Bretagna: i membri del Congresso, che avevano subordinato la propria partecipazione militare all’immediata concessione dell’indipendenza, cominciando a dubitare delle reali intenzioni degli inglesi si dimisero dai governi provinciali; nei territori occupati dal Giappone si formarono addirittura un esercito e un governo antibritannico guidato da Subhas Chandra Bose. Nel 1942 Londra propose di stabilire un governo ad interim con un controllo inglese limitato alla difesa e alla politica estera, rimandando la questione dell’autogoverno alla fine del conflitto e promettendo inoltre di concedere all’India lo statuto di dominion. In risposta, nell’agosto dello stesso anno il Congresso chiese agli inglesi di lasciare definitivamente il paese e, ottenutone un rifiuto, lanciò una vasta campagna di disobbedienza civile. Gli inglesi, dal canto loro, posero fuori legge il Partito del Congresso, imprigionarono Gandhi e altri leader del nazionalismo indiano e continuarono a fomentare il contrasto tra indù e musulmani. La situazione fu ulteriormente aggravata da una grave carestia che investì il Bengala al principio del 1943. La sostituzione di Linlithgow con Archibald Wavell, avvenuta nello stesso anno, rese le relazioni indo-britanniche meno tese. I destini della lotta per l’indipendenza furono tuttavia nuovamente complicati dalla richiesta sempre più pressante di Jinnah e della Lega musulmana di dividere il paese in una parte musulmana e un’altra indù. Alla fine della guerra le elezioni diedero una schiacciante maggioranza al Partito del Congresso, che ottenne 209 seggi contro i 75 della Lega musulmana. I conflitti tra le due comunità continuarono così a crescere di intensità. Il passo decisivo sulla strada dell’indipendenza fu compiuto soltanto nel 1946, quando il governo laburista di Clement Attlee offrì all’India l’autogoverno votando il 20 febbraio del 1947 l’India Indipendence Act e dichiarandosi disposto ad abbandonare il paese entro il giugno del 1948. Il partito laburista era da tempo favorevole a concedere all’India lo statuto di dominion ; si dovette tuttavia confrontare con il delicato problema del rapporto tra indù e musulmani. L’offerta di autogoverno fu quindi subordinata in un primo momento al raggiungimento di un accordo pacifico tra le due parti e configurò la soluzione di un’organizzazione federale del paese con un governo centrale limitato alla gestione della politica estera e delle comunicazioni. Di fronte all’irrigidimento della Lega musulmana e al timore del Partito del Congresso che i contrasti con la Lega potessero rallentare il cammino sulla strada dell’indipendenza, fu accettata alla fine l’ipotesi della divisione del paese in due parti. Il 15 agosto del 1947, l’India britannica fu dichiarata indipendente come dominion nell’ambito del Commonwealth e fu divisa, secondo il progetto elaborato dal viceré Louis Mountbatten, nei due dominions indipendenti dell’India (Unione indiana), a maggioranza indù, e del Pakistan, a maggioranza musulmana: ognuna delle due parti fu libera di definire il proprio status. Nehru divenne primo ministro dell’India e Jinnah governatore generale del Pakistan. Gli inglesi procedettero immediatamente al ritiro dal paese smantellando le vecchie strutture dell’epoca coloniale. In assenza di una linea di demarcazione univoca che non fosse quella dell’appartenenza confessionale, sorsero tuttavia gravi contrasti sull’appartenenza dei vari territori e violenti scontri tra le due comunità che provocarono un esodo di massa (circa 16 milioni di profughi) tra i due nuovi stati e, nella sola estate del 1947, circa 500.000 morti.

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13. L’India di Nehru (1948-64)

Nel clima di grave intolleranza che si venne a creare all’indomani della divisione dell’India Gandhi, che si era dichiarato ripetutamente contrario alla creazione di due stati indipendenti, fu ucciso da un fanatico indù il 30 gennaio del 1948. Gli subentrò alla guida del paese e del Partito del Congresso, dal 1948 fino al 1964, Jawaharlal Nehru, che dovette affrontare i problemi estremamente complessi del nuovo assetto politico, religioso, economico e sociale dell’India indipendente. Accanto alla questione dell’integrazione dei profughi indù fuggiti dal Pakistan (circa 10 milioni di uomini), che si pose con drammatica urgenza tra l’estate e la fine del 1947, Nehru dovette innanzitutto confrontarsi con le difficoltà legate alle controversie sui territori contesi e, più in generale, con il problema di ridisegnare il quadro geopolitico e territoriale dell’Unione Indiana. Tra la fine degli anni Quaranta e il principio del decennio successivo i vecchi stati principeschi disseminati sul territorio (circa 560) furono soppressi e integrati nell’Unione secondo linee di divisione etniche e linguistiche; al tempo stesso fu portata a termine l’unità nazionale con l’annessione dei vecchi insediamenti coloniali francesi (Pondicherry nel 1956) e portoghesi (Goa, Daman, Diu nel 1961). Il processo di ridefinizione territoriale non fu affatto indolore: nel caso dell’Hyderabad, in cui un governo musulmano dominava su una popolazione in prevalenza indù, l’integrazione fu compiuta nel 1948 con un atto di forza; la situazione del Kashmir invece, con una maggioranza musulmana e un sovrano indù deciso a ottenere l’annessione all’India, si rivelò fin dal principio molto più complessa e diede l’avvio alla prima guerra indo-pakistana (1947-49), che portò all’occupazione indiana di parte della regione contro le ingiunzioni dell’ONU, che nel gennaio del 1949 attribuì in ogni caso gran parte del suo territorio all’Unione. Accanto alle questioni territoriali, Nehru dovette poi affrontare il problema fondamentale del nuovo assetto politico e istituzionale del paese, che fu risolto in concomitanza con la prima guerra indo-pakistana e con l’annessione dell’Hyderabad attraverso la promulgazione, nel 1949, di una nuova costituzione, entrata formalmente in vigore nel gennaio del 1950, che fece dell’Unione Indiana una repubblica federale e parlamentare: il paese fu diviso in 27 stati confederati e in 6 territori governati al centro da un primo ministro dotato di ampi poteri e da un presidente della repubblica eletto ogni cinque anni; furono introdotti il suffragio universale e l’eguaglianza dei cittadini, con un conseguente indebolimento del sistema delle caste; l’Unione – che scelse l’hindi come lingua ufficiale – rimase peraltro inquadrata nel Commonwealth britannico. La questione più urgente che si pose alla nuova India indipendente fu comunque quella dello smantellamento delle vecchie strutture coloniali e soprattutto della modernizzazione di una struttura economica e sociale assolutamente arretrata, afflitta da drammatici problemi di sovrappopolazione e di sottoalimentazione, quasi completamente priva di servizi e di infrastrutture efficienti e ulteriormente bloccata nella strada dello sviluppo dalla tenace persistenza del sistema delle caste e di tradizioni secolari. In questa situazione Nehru riuscì a proporsi come punto di riferimento di un progetto di progressismo moderato (il “socialismo indiano”) che raccolse il consenso di un’ampia classe dirigente mercantile e burocratica moderna. A differenza di Gandhi, di cui pure si presentò come l’erede spirituale, Nehru abbandonò qualsiasi tentazione di ruralismo antindustrialistico e antimoderno e, oscillando tra le opposte tendenze che si erano manifestate all’interno del Congresso, avviò un intenso processo di industrializzazione sotto il controllo dello stato, che fu esteso anche al commercio con l’estero. A partire dal 1951 furono varati a questo scopo, sul modello sovietico e cinese, ma con minore rigidità, una serie di piani quinquennali, che permisero il sorgere dell’industria siderurgica. Per realizzare questo progetto fu indebolito (1951) e quindi abolito (1956) il sistema delle caste e il principio dell’intoccabilità; fu anche riconosciuta la parità dei sessi. I progressi dell’industria pesante non furono tuttavia decisivi; divennero invece fondamentali gli aiuti economici stranieri dell’Unione Sovietica, degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, che conferirono al sistema indiano le caratteristiche di un sistema misto privato-statale. Estremamente difficili, poi, rimasero le condizioni dell’agricoltura, che furono aggravate dal problema della sovrappopolazione e dalla grave carestia che colpì il paese intorno alla metà degli anni Sessanta. Di fronte alla questione della riforma agraria Nehru agì al tempo stesso sui rapporti di proprietà e sull’organizzazione della produzione: la grande proprietà fu limitata e ristrutturata in senso più moderno; la piccola e media proprietà fu inquadrata in struttura cooperative; e fu creato un apparato burocratico in grado di guidare la razionalizzazione produttiva. La forte resistenza dei ceti privilegiati tradizionali impedì di conseguire risultati rilevanti. Anche in questo caso, tuttavia, furono realizzati importanti progressi. Il dato più generale che merita qui di essere sottolineato è che l’India di Nehru – nonostante la persistenza di profonde tensioni politiche e sociali – rappresentò, a differenza di una tipologia molto ampia di situazioni analoghe, un caso di straordinario interesse di modernizzazione di un paese arretrato che riuscì a mantenere un ordinamento democratico, perseguendo un modello di sviluppo che combinava l’economia di piano – spesso ispirata a istanze autenticamente socialiste – con l’economia di mercato. In politica estera l’India di Nehru seguì una linea di “neutralità dinamica” e divenne, fin dalla conferenza di Bandung del 1955, uno dei principali paesi non allineati, acquistando in questo senso una vera e propria leadership tra i paesi del Terzo Mondo e ottenendo al tempo stesso consistenti aiuti sia dai paesi del blocco occidentale sia da quelli del blocco socialista. Ciònondimeno fu travagliata da continui contrasti regionali: con il Pakistan per il controllo della regione del Kashmir; con il Bhutan, il Sikkim (annesso poi nel 1975) e il Nepal, che furono posti sotto il controllo dell’Unione già tra il 1949 e il 1950; e ancora con la Cina, con cui giunse, dopo controversie sempre più intense a partire dal 1957 complicate dalla rivolta tibetana del 1959, a un aperto conflitto tra l’ottobre e il novembre del 1962, quando Pechino scatenò una regolare offensiva nel Kashmir e nelle regioni di nord-est siglando, a guerra finita, un accordo con il Pakistan che doveva essere fonte di ulteriori contrasti. Il complesso di questi conflitti, insieme agli enormi costi imposti dal processo di modernizzazione, costituirono un ulteriore fattore di crisi che si tradusse in una profonda spaccatura della classe dirigente e dello stesso Partito del Congresso. Una spaccatura che cominciò a manifestarsi negli ultimi anni del governo Nehru – quando il premier spostò l’asse delle alleanze dell’Unione nel senso dei paesi del blocco occidentale – e che segnò poi in modo decisivo gli anni del governo di Indira Gandhi.

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14. L’India dopo Nehru: da Shastri a Indira Gandhi (1964-84)

Dopo la morte di Nehru (1964), i rapporti tra l’India e il Pakistan si fecero nuovamente tesi in relazione al problema ancora irrisolto del controllo territoriale del Kashmir, che provocò nel 1965 – dopo una breve escalation militare – la seconda guerra indo-pakistana. Il conflitto fu ricomposto nel gennaio del 1966 con la mediazione dell’Unione Sovietica alla conferenza di Taskent, dove il primo ministro Lal Bahadur Shastri, succeduto a Nehru nel 1964 e rimasto al governo fino al 1966, e il presidente pakistano Mohammed Ayub Khan si accordarono per un ritiro reciproco della truppe, che tuttavia non riuscì a sciogliere i nodi più profondi del contrasto per l’egemonia nella regione. In politica interna Shastri si sforzò di coalizzare attorno al proprio governo le forze moderate del paese, decise a rallentare il processo riformatore avviato da Nehru e soprattutto a ridurre il ruolo dello stato nel processo di industrializzazione. Questa politica alimentò nuovi e più profondi contrasti all’interno della classe politica indiana, che emersero in tutta la loro ampiezza nel gennaio del 1966 quando divenne primo ministro Indira Gandhi, la figlia di Nehru. Dopo aver perduto, assieme al controllo di molti governi provinciali, una quota consistente di voti alle elezioni del 1967 il Partito del Congresso – che pure aveva conservato la maggioranza in parlamento – cominciò a dividersi in modo sempre più netto in due diverse correnti: la prima di orientamento moderato-conservatore, rigidamente confessionale e incline alla difesa dei privilegi tradizionali; la seconda di orientamento progressista, decisa a proseguire – anche sotto la pressione del nascente movimento operaio influenzato dal modello sovietico e da quello cinese – sulla strada della modernizzazione. Nel 1969, dopo una politica oscillante tra la repressione delle forze di sinistra e un’opposizione sempre più aperta nei confronti delle destre che avevano guadagnato ulteriori consensi nelle elezioni del 1968-69, Indira Gandhi non riuscì più a evitare la scissione del partito: sorsero allora il “Vecchio Congresso”, guidato da Morarji Desai, e il “Nuovo Congresso”, di cui la stessa Indira divenne il leader indiscusso. Riconfermata a capo del governo con l’appoggio delle sinistre, Indira Gandhi – che già nel 1969 aveva nazionalizzato il sistema bancario – ripropose al principio degli anni Settanta il modello di sviluppo che era stato perseguito da Nehru, sforzandosi di combinare misure di liberalizzazione e di intervento statale; al tempo stesso abolì gli ultimi privilegi aristocratici e varò, con la cosiddetta “rivoluzione verde”, un’ampia riforma del sistema agrario indiano, che, agendo innanzitutto sull’organizzazione delle attività produttive – uso massiccio di fertilizzanti, canalizzazione delle acque, meccanizzazione agricola, politica dei crediti -, si risolse tuttavia a vantaggio della media e grande proprietà meglio organizzata senza incidere realmente sui problemi strutturali dell’agricoltura indiana. Infine, per controbilanciare la presenza minacciosa della coalizione cino-pakistana, il premier siglò nell’agosto del 1971 un trattato ventennale di mutua assistenza con l’Unione Sovietica. Nelle elezioni del marzo del 1971 il Partito del congresso riportò un importante successo elettorale – ottenne 350 seggi su 515 – che fu riconfermato alle elezioni amministrative dell’anno successivo. Nello stesso 1971 tuttavia, quando Indira Gandhi decise di dare il suo aperto sostegno alla lotta di indipendenza del Bengala Orientale (il futuro Bangladesh) contro il Pakistan, si riaprì in modo drammatico il conflitto con il tradizionale rivale musulmano. La nuova guerra indo-pakistana – che si concluse tra il 6 e il 16 dicembre del 1971 con una schiacciante vittoria indiana – contribuì in modo decisivo alla nascita del Bangladesh; al tempo stesso produsse un più generale raffreddamento nei rapporti con gli Stati Uniti, che avevano appoggiato i pakistani, e un ulteriore avvicinamento all’Unione Sovietica, con cui fu siglato nel 1973 un nuovo trattato di cooperazione economica. Con gli accordi di Simla, nel luglio del 1972, India e Pakistan concordarono la restituzione dei prigionieri e un più ampio piano di pace per il subcontinente indiano. Due anni più tardi, nel 1974, l’Unione Indiana divenne la sesta potenza nucleare del mondo. Nello stesso periodo, tuttavia, ebbe inizio, una profonda crisi interna che, aggravata dalla crisi petrolifera del 1973 e da una serie di sfortunate annate di raccolti, doveva portare a un vero e proprio tracollo del Partito del congresso e della leadership di Indira Gandhi. Il paese fu scosso da profonde tensioni che resero evidente il fallimento della “rivoluzione verde” e diedero un nuovo impulso alla propaganda delle destre e delle forze moderate, riunite da Desai nel partito Janata Morcha (Fronte popolare) intorno al 1974-75. In questa situazione il primo ministro scelse di agire con metodi autoritari: represse le proteste operaie e studentesche, imbavagliò la stampa di opposizione e rafforzò l’autorità centrale sui governi provinciali. Accusata di brogli elettorali dai suoi avversari politici, Indira Gandhi proclamò nel 1975 lo stato di emergenza, fece arrestare numerosi oppositori e avanzò nel 1976 una serie di proposte di revisione costituzionale nel senso della repubblica presidenziale; il 4 luglio fece sciogliere ben 24 organizzazioni di destra e di sinistra e si diede a riorganizzare la struttura del proprio partito. Furono anche introdotte misure di espropriazione della terra a favore dei contadini più poveri e fu lanciata una campagna di sterilizzazione per contenere l’enorme pressione demografica. Le elezioni del marzo del 1977, che si svolsero dopo la sospensione dello stato di emergenza, rovesciarono un equilibrio politico consolidato ormai dal 1969: il Partito del congresso, che si era scisso in seguito alla formazione del “Congresso per la Democrazia”, riportò una bruciante sconfitta passando da 350 a 153 seggi; il partito Janata di Morarji Desai, che riuniva tutte le opposizioni non comuniste, ottenne invece la maggioranza con 270 seggi e formò il nuovo governo. Il Congresso per la Democrazia ottenne solo 27 deputati. Estremamente composito, il partito Janata non riuscì tuttavia a darsi una linea politica unitaria ed entrò in crisi nel giro di pochissimi anni, fino a che nel 1980 Desai non fu costretto a dimettersi da primo ministro. In questo periodo il paese fu segnato da violenti contrasti tra le élite agrarie e i contadini poveri; al tempo stesso ripresero vigore in conflitti tra indù e musulmani. Dopo il fallimento del successivo governo di Charan Singh, il presidente della repubblica Sanjiva Reddy sciolse le camere e indisse nuove elezioni, che si svolsero nel 1980 e che diedero la maggioranza al Partito del congresso. Indira Gandhi, riconosciuta come l’unico leader in grado di far fronte a una situazione di estrema tensione, ritornò così al potere e si sforzò di attenuare i conflitti sociali dedicando particolare attenzione al mondo rurale. Il paese tuttavia, sotto il peso di crescenti lacerazioni derivanti da uno stato di povertà cronica e da insopportabili sperequazioni, fu percorso da nuovi e ancor più violenti conflitti: tra l’Assam e il Bengala nel 1983 e tra indù e musulmani nel 1984. La crisi divenne gravissima nell’estate del 1984, quando nel Punjab la minoranza sikh scatenò una nuova ondata di violenza per rivendicare la costituzione di uno stato indipendente. Nel giugno del 1984 Indira fece intervenire direttamente l’esercito che nel Tempio d’oro di Amritsar, luogo sacro dei sikh, massacrò un migliaio di persone, tra le quali il leader sikh Bhindranwale. In questo clima drammatico Indira Gandhi fu assassinata da due sikh il 31 ottobre del 1984. Alla sua morte seguirono ulteriori scontri tra sikh e indù che causarono circa 2000 morti.

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15. Da Rajiv Gandhi a Manmohan Singh

Dopo la morte di Indira Gandhi salì al potere il figlio Rajiv Gandhi, che fu primo ministro dal novembre del 1984 al novembre del 1989. Forte di un ampio consenso elettorale – ottenne 401 seggi su 508 – Rajiv Gandhi tentò di ricondurre il paese sulla strada della normalizzazione, favorendo, con risultati nel complesso soddisfacenti, lo sviluppo economico. Gli anni del suo governo furono tuttavia profondamente segnati dal problema dei sikh, che ripresero a rivendicare la fondazione di uno stato indipendente con rinnovati atti di terrorismo. I ripetuti tentativi di conciliazione promossi dal premier, che nel 1985 cercò l’alleanza con l’ala moderata dei sikh e che nell’ottobre del 1986 sfuggì a un attentato terroristico, fallirono del tutto. Rajiv Gandhi dovette fronteggiare anche le forti spinte all’indipendenza che vennero manifestandosi in molti stati dell’Unione – in particolare nell’Assam, nel Bengala, nel Kashmir e nel Tamil Nadu – e che indussero il governo a proclamare più volte, tra il 1987 e il 1989, lo stato d’emergenza e a rafforzare i poteri del governo centrale sulle autorità provinciali. Nonostante l’incontro con il premier pakistano Benazir Bhutto nel 1988, anche le relazioni con il Pakistan rimasero estremamente tese. Alle elezioni del novembre del 1989, dopo una serie di scandali che ebbero l’effetto di appannare l’immagine pubblica del premier, il Partito del congresso fu sconfitto. S’incaricò di formare il nuovo governo il leader del Fronte Nazionale V. Pratap Singh, che si pose alla testa di una coalizione di partiti di destra sostenuti all’esterno dai partiti comunisti e che dovette affrontare, nell’ottobre del 1990, nuovi violenti scontri tra musulmani e indù. Gli subentrò C. Sekhar, che rimase a capo del governo fino alle elezioni del maggio del 1991. Durante la campagna elettorale, che fu accompagnata da sanguinosi conflitti tra indù e musulmani, il 21 maggio Rajiv Gandhi – che stava iniziando a riconquistare un ampio consenso tra la popolazione – rimase vittima di un attentato dinamitardo organizzato dalle “tigri del Tamil” nella città di Sriperumpudur. Le elezioni, rimandate a giugno, registrarono una sconfitta del partito Janata e una ripresa del Partito del congresso, in cui a Rajiv Gandhi era subentrato Narasimha Rao, che formò un governo di minoranza. Il nuovo primo ministro, che dovette affrontare nuove esplosioni di violenza e la grave emergenza economica creata dalla svalutazione della rupia e dall’inasprimento dei prezzi, promosse un’ampia politica di liberalizzazione approvando gli investimenti stranieri e riducendo in maniera consistente le concessioni statali all’industria. Nel febbraio del 1992 si tennero importanti elezioni nel Punjab, che nonostante una bassissima partecipazione, registrarono una significativa vittoria del Partito del congresso, che si aggiudicò 85 seggi su 117 nell’assemblea locale e 11 rappresentanti su 13 nel parlamento federale di New Delhi. Più in generale si ebbero in tutto il paese nuovi scontri sociali e religiosi, che nel dicembre del 1992 portarono alla distruzione, da parte di 300.000 indù, della moschea di Adhodhya. In politica estera, il nuovo governo si caratterizzò per un intenso dinamismo. Divenuta membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU, l’Unione indiana nel dicembre del 1991 strinse nuovi rapporti commerciali e di cooperazione con la Cina di Li Peng; nell’agosto del 1991 rinnovò il trattato ventennale di mutua cooperazione siglato con la Russia nel 1971; nel 1992 riaprì anche il dialogo con il Pakistan; in concomitanza con la crisi e quindi con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, vennero infine conclusi, sempre al principio del 1992, nuovi accordi con gli Stati Uniti. Con il crollo della potenza egemonica di Mosca, New Delhi iniziò più in generale a rivendicare un ruolo di primo piano nelle regioni dell’Asia meridionale. Nel 1993 si fecero peraltro più forti e drammatiche le tensioni nel Kashmir. Al tempo stesso si accentuò l’instabilità politica del paese e ottenne consensi sempre più ampi il movimento nazionalista e integralista indù e il partito che dava a esso espressione, il Bharatiya Janata Party (BJP). Coinvolto in gravi scandali, il Partito del congresso fu sconfitto alle elezioni del 1996 e Narasimha Rao dovette dimettersi da primo ministro. Gli subentrò Atal Bihari Vajpayee del BJP, che tuttavia si dimise dopo pochi giorni quando fu chiaro che non avrebbe ottenuto la fiducia in parlamento. Seguirono due governi guidati da H.D. Deve Godwa (giugno 1996 – aprile 1997) e da Inder Kumar Gujral (aprile 1997 – marzo 1998), esponenti della destra induista moderata. Dopo le elezioni del 1998 il BJP tornò al governo con Atal Bihari Vajpayee. La sua decisione di effettuare test nucleari al confine con il Pakistan provocò la reazione di quest’ultimo, che rispose effettuando a sua volta esperimenti atomici, e la condanna della comunità internazionale. Nelle elezioni del 1999 il BJP e Vajpayee furono riconfermati al potere. La tensione con il Pakistan, in particolare nel Kashmir, rimase altissima, come dimostrarono nel dicembre del 1999 il dirottamento di un airbus della Indian Airlines, nel gennaio del 2000 la strage del mercato di Srinagar e nel marzo dello stesso anno un nuovo massacro di civili nel Kashmir. La guerra in Afghanistan nel 2001-02 riacutizzò le tensione con il Pakistan, giunta alla soglia dello scontro armato. All’indomani dell’inatteso successo elettorale del 2004, il Partito del congresso formò un governo di coalizione, l’Alleanza progressita unita (UPA), sotto la guida di Manmohan Singh, ex ministro delle finanze sotto Narasimha Rao.

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16. Gli sviluppi odierni fra affermazione economica e terrorismo

Nelle successive elezioni parlamentari del 2009, il partito di Sonja Gandhi rafforzò ulteriormente la propria maggioranza e Singh fu riconfermato alla guida del governo. Durante il governo di quest’ultimo fu avviato un ambizioso programma di investimenti per rivitalizzare l’economia agricola del paese, per rafforzare il sistema infrastrutturale, per favorire l’aumento dell’occupazione giovanile e del benessere tra la popolazione rurale. Nel 2007 Pratibha Patil divenne la prima donna a rivestire l’incarico di presidente dell’India. Tra 2006 e 2008 il paese fu ripetutamente oggetto di attacchi terroristici, il più grave dei quali fu quello di matrice islamica, avvenuto a Bombay nel novembre del 2008, che causò quasi duecento vittime.  Nonostante il permanere delle tensioni con il Pakistan, dal 2006 in poi il premier Singh avviò ripetute trattative con il governo di Islamabad in vista di una soluzione pacifica della questione del Kashmir. Nel frattempo il governo intensificò i rapporti di cooperazione economico-commerciale con Giappone e Corea del Sud.

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