Gran Bretagna

Stato attuale dell’Europa occidentale. Si inizia a parlare di Regno Unito di Gran Bretagna dal 1707, anno dell’Atto d’Unione tra Inghilterra e Scozia (prima di allora, nel 1603, Giacomo I aveva già unificato le corone, mantenendo però l’indipendenza amministrativa dei due regni). L’Atto d’Unione con l’Irlanda del 1801 l’aggiunse al nome del Regno Unito fino al 1921, quando nacque lo stato indipendente irlandese. Da allora la formula non è più cambiata e suona “Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord”. Storicamente con la dizione “Gran Bretagna” si intese indicare la maggiore tra le isole dell’arcipelago britannico – con le ripartizioni tra Inghilterra, Scozia, Galles e Cornovaglia (comprese alcune isole vicine, come l’isola di Man) – a partire dall’invasione anglosassone dell’Inghilterra nel V e VI secolo d.C., quando una parte degli indigeni britanni fuggì nell’Armorica, l’odierna Bretagna, che da essi prese il nome. Da allora la Britannia cominciò a esser chiamata “gran” Bretagna proprio per distinguerla dalla “piccola” Bretagna in terra gallica. A sua volta, il nome di Britannia (per il quale si fanno varie ipotesi più o meno fondate) risalirebbe ai celti pretani, provenienti a più riprese, tra il X e il VI secolo a.C., dal nord della Francia e dai Paesi Bassi. L’esploratore di Marsiglia Pitea (IV sec. a.C.) parlò per primo delle “isole pretanniche”, abitate dai “prettanoi”, in greco “brettanoi” e in latino “britanni”. Il termine Britannia fu poi utilizzato da Cesare nel De bello gallico. Il Periplo Massaliota (VI sec. a.C.) e il comandante cartaginese Imilcone (V sec. a.C.) per indicare l’Inghilterra introdussero la parola “Albione” che si tramandò grazie a Plinio il Vecchio.

  1. Preistoria e antichità
  2. L’invasione anglosassone
  3. La fase danese e la conquista normanna
  4. Il medioevo inglese: la Magna Charta Libertatum
  5. Le guerre dei Cent’anni e delle Due Rose
  6. I Tudor
  7. L’Inghilterra di Elisabetta I
  8. I primi Stuart
  9. Guerra civile, rivoluzione e protettorato di Cromwell
  10. La restaurazione Stuart e la Gloriosa Rivoluzione
  11. Gli ultimi Stuart, la dinastia Hannover e la monarchia costituzionale
  12. La rivoluzione agricola e la rivoluzione industriale
  13. La rottura con l’America
  14. La Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche
  15. Le riforme liberali
  16. La regina Vittoria e l’impero
  17. Tra imperialismi e prima guerra mondiale
  18. Guerra e primo dopoguerra
  19. La seconda guerra mondiale
  20. Il secondo dopoguerra tra laburisti e conservatori
  21. Gli anni Settanta: crisi socioeconomica e terrorismo nell’Ulster
  22. Dalla Thatcher alla fine dell'era Blair
1. Preistoria e antichità

La preistoria britannica si perde nell’oscurità della fase finale del quaternario. Tracce di attività umane sono presenti a partire dal paleolitico inferiore (oltre 250.000 anni fa). Lo testimonierebbero i discussi giacimenti delle più antiche industrie prechelleane rinvenuti a Ipswich, quelli clactoniani di Clacton-on-Sea (Essex), e soprattutto il reperto del cosiddetto “uomo di Swanscombe” (Londra), un cranio molto simile a quello dell’homo sapiens, appartenente all’era interglaciale e ritrovato insieme a manufatti acheulani. Dopo le grandi glaciazioni, nel corso delle quali il territorio corrispondente alla Gran Bretagna fu quasi interamente ricoperto di ghiacciai, circa 8000 anni a.C. ebbe inizio il ripopolamento da parte di gruppi umani mesolitici della cultura di Maglemose (imperniata su stanziamenti sulle rive delle acque interne e sulla pesca) con insediamenti nello Yorkshire. Dopo la formazione del mare del Nord, il distacco delle isole britanniche dal continente euroasiatico (circa 6000 anni fa) e l’inizio del neolitico a partire dal IV millennio a.C., si ebbe la prima vera civilizzazione agricola e l’elaborazione di culture megalitiche e del bicchiere campaniforme, a sfondo funerario, con l’apparizione di tombe a tumulo di terra e calcare (barrows) e dei caratteristici dolmen (Wessex, Sussex, Lincolnshire e Yorkshire). Alle popolazioni coeve autoctone, preceltiche o protoceltiche, che si ipotizzano come antenate dei gaeli di Scozia, d’Irlanda e dell’isola di Man, divenute esperte nella lavorazione dei metalli (rame e bronzo), sono da attribuire le grandi opere megalitiche tra il III e il II millennio, culminate nella costruzione dell’insieme monumentale di Stonehenge. Al termine del II millennio a.C. si ebbero le prime sicure invasioni celtiche provenienti dal continente, che apportarono tra il IX e il VII secolo l’uso del ferro e la cultura di Hallstatt. Particolarmente importante fu l’emigrazione dei già ricordati pretani. Verso il 250 a.C. si ebbe l’ultima invasione celtogallica dal Belgio, che introdusse la cultura di La Tène (tarda età del ferro). Quest’emigrazione si stabilizzò soprattutto nell’Inghilterra meridionale lungo il corso del Tamigi e produsse, con una ridislocazione delle varie popolazioni e dei clan, una prima embrionale suddivisione delle storiche contee inglesi. Tolomeo contò fino a 37 aggregazioni tribali britanniche che, divise da continui conflitti, diedero luogo a forme di civilizzazione diverse nei rispettivi territori. La Britannia preromana ebbe notevole importanza economica per il commercio dello stagno, al quale provvedevano già i fenici di Tiro e di Sidone intorno all’anno 1000 a.C. L’occupazione romana, iniziata da Giulio Cesare nel 55 a.C. dopo la vittoria sul re Cassivellauno e poi interrotta, proseguì con gli imperatori Claudio (43 d.C.), Adriano (122 d.C., costruzione dell’omonimo Vallo) e Antonino Pio (circa 140 d.C., fortificazioni del Vallo Antonino), fino a raggiungere i confini della Caledonia. Essa si protrasse fino all’inizio del V secolo, anche se già a partire dal IV vi fu un graduale abbandono della regione. La Britannia fu inserita come provincia nel quadro amministrativo dell’impero romano, ma non vi fu un’integrazione e un’assimilazione profonda a causa della natura elitaria e militare della colonizzazione romana. Si procedette alla costruzione di una fitta rete stradale, all’intensificazione dei traffici commerciali (stagno, rame, oro, argento, piombo, ceramica, ostriche, perle) e all’edificazione di città, tra cui spiccarono Calleva Atrebatum (Silchester), Camulodunum (Colchester), Glevum (Gloucester), Eburacum (York) e Londinium (Londra). Intorno al 200 l’imperatore Settimio Severo divise la provincia in due parti (superior e inferior) per impedire che il governatore locale assumesse un eccessivo potere militare. Dal 350 si fecero più frequenti le aggressioni da parte dei pitti della Scozia e degli scoti irlandesi. A partire dal 410 la Britannia fu abbandonata progressivamente dalle milizie romane. Si infittirono allora le invasioni delle tribù germaniche degli iuti e dei frisoni e, soprattutto, degli angli e dei sassoni.

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2. L’invasione anglosassone

Incalzati dalle tribù germaniche i celti britanni si ritirarono gradualmente da gran parte dell’Inghilterra attestandosi nel Galles, in Cornovaglia, nella Scozia meridionale e in Armorica. Dal VI al IX secolo fiorirono i sette regni (eptarchia) anglosassoni (regni angli, da sud a nord della fascia orientale inglese, della East Anglia, di Mercia e di Northumbria; sassoni, nell’Essex, Sussex e Wessex; iuti nel Kent). Gli invasori distrussero le vestigia romane e britanne e portarono con sé gli aratri di ferro, nonché un’organizzazione sociale che sarebbe servita da punto di partenza per la futura evoluzione istituzionale inglese. La struttura sociale tipica germanica, poggiante sul principio monarchico, vedeva la partecipazione dei nobili (capi miltari, thanes) e dei loro guerrieri (freemen o ceorls) al potere del re, che amministrava la giustizia in assemblea (folkgemot) attraverso l’assemblea dei saggi (witenagemot), cui spettava l’elezione e, se necessario, la deposizione del sovrano. La premessa per la fusione culturale delle differenti popolazioni – che di per sé tendevano alla frammentazione tribale – in un blocco “anglosassone” fu data dall’avvio della cristianizzazione a opera del monaco benedettino Agostino, inviato nel 596 da Gregorio Magno a Etelberto, re del Kent, e alla concomitante influenza evangelizzatrice esercitata dai monaci irlandesi. Da questi si diffuse il modello di una chiesa basata sull’azione dei monasteri nelle campagne, che seppe completarsi con l’organizzazione delle diocesi nelle realtà urbane, tra cui acquistò ben presto preminenza quella fondata da Agostino a Canterbury. Da ricordare, sul piano culturale, l’apporto del monaco Beda il Venerabile (673-735), autore di una Historia ecclesiastica gentis Anglorum. Nel corso di tre secoli si avviò un processo d’unificazione – per quanto blanda – dell’Inghilterra anglosassone, dapprima superficiale poi più consistente, come risultato complessivo della lotta contro i britanni e le più rozze tribù protoceltiche degli scoti e dei pitti, sotto l’impulso in particolare di taluni regni e regnanti. In un primo periodo si distinse il regno di Northumbria, fondato dal guerriero anglo Etelfrido (593-617). In seguito fu il regno di Mercia a ottenere il predominio con Etebaldo (716-57) e Offa (757-96). Quest’ultimo intrattenne rapporti epistolari con Carlo Magno e con le tribù germaniche del continente. Infine fu il regno del Wessex, ampliatosi a Occidente a spese dei britanni dopo la battaglia di Deorham (577), a conquistare con Egberto (802-39) un’effettiva supremazia nell’eptarchia anglosassone, unificandosi con Mercia e Northumbria. Tali risultati furono consolidati dal discendente di Egberto, Alfredo il Grande (871-99). Egli dovette altresì far fronte alle incursioni dei danesi, che a partire dalla metà del IX secolo si erano fatte sempre più frequenti e massicce, sconfiggendoli a Edington (878), ma perdendo parte del territorio a nord-est, dove s’insediò il regno danese del Danelaw. Alfredo e i suoi discendenti – Edoardo Il Vecchio (899-924), Etelstano (924-39) e soprattutto Edgardo (959-75) – oltre a combattere per circa un secolo coi danesi e poi coi normanni, si adoperarono nell’organizzazione politico-amministrativa del regno d’Inghilterra, ormai sostanzialmente unificato, introducendo maggior certezza nella suddivisione in circoscrizioni territoriali (centene e shires, contee), raggruppate in distretti sotto il comando di un nobile castellano (earl o earldorman, conte) e/o di uno sheriff (conte dello shire), in genere un funzionario regio incaricato di amministrare la giustizia e di riscuotere imposte e tributi. Etelredo (978-1016) istituì il Danegeld (soldo danese), una sorta di tributo speciale generalizzato allo scopo di finanziare la guerra contro i danesi.

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3. La fase danese e la conquista normanna

Una nuova serie di attacchi tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo, l’ultimo dei quali guidato da Knut il Grande (1016-35), portò alla crisi definitiva del dominio anglosassone e all’aggregazione di gran parte dell’Inghilterra all’area d’influenza danese. Per quanto Knut cercasse di realizzare una fusione tra inglesi e danesi, il suo regno era destinato a non sopravvivergli. Alla sua morte, non essendovi un successore, si sviluppò una lotta dalla quale emerse un rappresentante della dinastia sassone del Wessex, Edoardo il Confessore (1042-66), esule nel paese della madre, la Normandia. Educato in Francia, di spirito monastico e privo di un reale interesse per il paese dei suoi avi, Edoardo accelerò il processo di disgregazione feudale, abbandonando il governo nelle mani dell’aristocrazia anglo-danese. Senza eredi, sembrò incline a designare come suo successore Guglielmo, duca di Normandia. Tale atto, contrario alla consuetudine elettiva inglese e pertanto non tenuto in conto dalla nobiltà locale che alla morte di Edoardo aveva elevato al trono il sassone Aroldo di Essex (anch’egli accettato da Edoardo come erede al trono), offrì a Guglielmo il Conquistatore il pretesto per invadere l’isola. Questi nel 1066 batté ad Hastings, grazie alla cavalleria corazzata normanna, l’esercito anglo-danese ancora basato sulla fanteria leggera. Morto Aroldo in battaglia, Guglielmo fu incoronato re d’Inghilterra (1066-87) a Westminster e impose al paese una ferrea occupazione militare. La nobiltà anglosassone e danese fu nella maggior parte dei casi espropriata dei beni e delle terre a favore dei normanni. Non fu attuato alcun tentativo di integrazione sociale e culturale da parte degli invasori, che disprezzavano l’arretratezza indigena. Nell’amministrazione fu reso obbligatorio il franco-normanno. Sfruttando il modello preesistente, Guglielmo introdusse poi nel nuovo regno importanti misure di centralizzazione e di razionalizzazione amministrativa e finanziaria, eliminando il rischio della frammentazione feudale del potere. Dopo il giuramento di fedeltà al sovrano, i baroni non ricevettero prerogative regie né divennero signori assoluti dei loro possessi (pur assolvendo talora a funzioni pubbliche), ma restarono semplici proprietari terrieri tenuti al pagamento delle imposte sulla base di un aggiornato censimento fondiario (domesday book, “libro del giorno del giudizio”), fatto redigere tra il 1080 e il 1086 con scrupolo statistico da Guglielmo e applicato dai suoi sceriffi. La compattezza del potere regio, su vincitori e vinti, si tradusse così in unità politica e stabilità del regno, pur all’interno di una netta divisione tra la classe dirigente normanna e la popolazione anglosassone, che mantenne nella vita di tutti i giorni la lingua, le tradizioni e i costumi. Il sistema finanziario e fiscale fu ulteriormente perfezionato da Enrico I (1100-35), sotto il cui regno si avviò la lotta per le investiture contro la chiesa e che istituì – accanto alla Curia regia – la Camera dello Scacchiere, nella quale gli sceriffi relazionavano sulla situazione contabile delle contee. Alla morte di Enrico si aprì un periodo di guerre civili dovuto alla ribellione dei baroni contro Matilde, sua unica erede e sposa di Goffredo d’Angiò. Dopo l’intervallo di regno di un nipote di Guglielmo, Stefano di Blois (1135-54), ebbe infine il sopravvento il figlio di Matilde, Enrico II (1154-89), primo esponente della monarchia angioina “plantageneta”, che avrebbe assicurato la discendenza regale fino al XV secolo. Parallelamente al processo di formazione del regno d’Inghilterra ebbe corso la fondazione di regni indipendenti in Scozia e in Irlanda, mentre il Galles si sviluppò in condizioni di instabile autonomia.

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4. Il medioevo inglese: la Magna Charta Libertatum

La riorganizzazione giuridica e amministrativa del regno fu intrapresa da Enrico II già durante le assise di Clarendon (1164-65), attraverso le cui “costituzioni” fu attribuita ai tribunali del re la maggior parte della giurisdizione, prima sotto il controllo delle antiche corti feudali ed ecclesiastiche. Enrico pretese d’intervenire anche nell’investitura di vescovi e abati nonché nell’amministrazione ecclesiastica. Nel corso di tale tentativo, entrò in contrasto con Thomas Beckett (1118-70), suo cancelliere dal 1155 e arcivescovo di Canterbury dal 1162. Questi, difensore delle “libertà” ecclesiastiche, fu ucciso da cavalieri nella sua cattedrale e assurse a simbolo della resistenza all’invadenza sovrana nel corso delle lotte che videro contrapposta la corona ai nobili e ai rappresentanti delle città. L’opera di Enrico, grazie alla giurisdizione dei suoi tribunali, nei quali furono introdotte norme procedurali più certe e le giurie popolari, consentì la codificazione consuetudinaria, basata più sulla tradizione anglosassone che su quella normanna. Da qui ebbe origine la common law inglese. I figli di Enrico, Riccardo I Cuor di Leone (1189-99) e Giovanni Senza Terra (1199-1216), tentarono di proseguire la politica paterna. Tuttavia il coinvolgimento in fallimentari imprese militari – Riccardo nella terza crociata (1189-92), Giovanni nelle battaglie contro Filippo II Augusto di Francia, al termine delle quali, dopo la sconfitta di Bouvines (1214), perse quasi tutti i suoi possedimenti francesi – aumentò la loro dipendenza dal gettito fiscale e la necessità di ricorrere a sempre nuove tasse e finanziamenti. Ciò condusse a una situazione di crisi finanziaria e politica nella quale acquistarono vigore – a fronte delle accresciute esigenze di denaro da parte del re – le richieste dei baroni, della chiesa e dei ceti emergenti delle città, di veder rispettate le loro “libertà”, ossia i privilegi feudali che già Riccardo aveva concesso. Giovanni Senza Terra fu allora costretto a un accordo che si tradusse nell’emanazione della Magna Charta Libertatum del 1215. In realtà, nonostante il carattere sostanzialmente unitario e centralizzato del regno, non era la prima volta che un re inglese aveva dovuto emanare una “carta” a garanzia dei privilegi vassallatici. Già Enrico I, Stefano di Blois ed Enrico II lo avevano fatto. La Magna Charta assunse però un significato più rilevante per la sua ampiezza e per l’uso ideologico che ne fu fatto nei secoli successivi e in particolare nel Seicento, all’epoca delle rivoluzioni contro gli Stuart, ai fini della legittimazione di un nuovo assetto costituzionale. Da specifico documento col quale il sovrano s’impegnava a non abusare del suo potere e a rispettare una precisa e dettagliata serie di diritti feudali (in 63 articoli, col richiamo ricorrente alle “antiche libertà inglesi” accordate alla chiesa, ai nobili, alle città, ai mercanti, ai singoli individui), esso divenne poi il fondamento di una nuova concezione delle libertà costituzionali. Ma nella situazione storica in cui fu emanata, la Magna Charta non fu che il segno di un irrobustimento della tendenza alla disgregazione feudale della monarchia, come del resto avveniva in misura ancor maggiore nel resto d’Europa. S’instaurò allora una dinamica conflittuale – proseguita sotto i regni di Enrico III (1216-72) e di Edoardo I (1272-1307) – tra i tentativi regi di ripristinare in pieno l’autorità della Corona e lo sforzo dei vari ceti sociali di delimitarla, che ebbe un importante riflesso nell’attività del giurista Henry de Bracton (circa 1216-68), assertore di uno dei primi sistemi di costituzionalismo medievale basato sulla common law e autore del trattato De legibus et consuetudinibus Angliae (1257-59). Tra il 1258 e il 1265 si susseguirono rivolte e sommosse – guidate da Simone di Montfort, sconfitto e ucciso nella battaglia di Evesham (1265) – che videro alleate nell’opposizione la grande e piccola nobiltà con le città. Da tali eventi trasse peraltro impulso la formazione di un nuovo istituto di rappresentanza politico-sociale, il “parlamento”, suddiviso in una Camera Alta dei Lords (da Hlaford, signore del paese), composta da nobili e alti prelati, e in una Camera Bassa dei Comuni (Commons), eletti dalla borghesia nelle contee e nelle città libere. Il parlamento, al quale diede una configurazione più stabile soprattutto Edoardo I, divenne così il luogo della discussione e della decisione delle questioni politiche, finanziarie e fiscali. Allo stesso Edoardo si dovette l’annessione definitiva del Galles (1284) e la momentanea occupazione della Scozia, la quale, tuttavia, dopo la battaglia di Bannockburn nel 1314, riacquistò la sua indipendenza, che mantenne, dopo l’instaurazione della dinastia nazionale degli Stuart (1371), fino all’Atto d’Unione del 1707. Il medioevo inglese, culminante tra il XII e il XIII secolo (a partire dal XIV incominciarono a mostrarsi nelle arti e nelle lettere i primi segni dell’evo moderno incentrati sull’emergere di uno specifico spirito “nazionale”), fece registrare aspetti peculiari rispetto al feudalesimo continentale, in particolare una maggiore compattezza del potere centrale corrispondente al minore frazionamento della sovranità. Tra il Duecento e il Trecento avanzò lentamente il processo di integrazione tra anglosassoni e normanni, che si concluse poi con la guerra dei Cent’anni. Pur rimanendo un paese a economia agricolo-pastorale, l’Inghilterra conobbe un rapido incremento demografico (da un milione di abitanti all’epoca di Guglielmo il Conquistatore a circa 3-4 milioni verso la metà del XIV secolo). Si svilupparono la produzione e il commercio della lana. Le città si segnalarono come centri di fiorente artigianato e di traffici commerciali e finanziari a opera di banchieri ebrei e, dopo la loro espulsione per volontà di Edoardo I, lombardi. Sotto il profilo culturale, assunse rilievo il rinnovamento filosofico, anche in opposizione alla scolastica tomista, svolto dall’agostinismo francescano dominante nell’Università di Oxford, i cui maggiori rappresentanti furono Ruggero Bacone (1214-94), Giovanni Duns Scoto (1266-1308) e Guglielmo d’Occam (circa 1285-1349).

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5. Le guerre dei Cent’anni e delle Due Rose

L’insieme degli eventi bellici che tradizionalmente vengono compresi sotto le denominazioni di guerra dei Cent’anni e di guerra delle Due Rose occuparono complessivamente un arco di tempo di quasi un secolo e mezzo – dal 1337 al 1453 la prima e dal 1455 al 1485 la seconda. I contemporanei non ne ebbero dunque una visione unitaria, che fu piuttosto un’acquisizione storica e storiografica successiva. Nel suo insieme tale epoca – che fu peraltro ricca di conflitti religiosi e sociali, come attestano le rivolte contadine guidate da Wat Tyler nel 1381 e l’esperienza del movimento dei lollardi, seguaci del predicatore e traduttore inglese della Bibbia John Wyclif (1320-84) – segnò il disgregarsi del sistema feudale inglese, nonché l’emergere di una nuova coscienza patriottica e, entro certi limiti, modernamente nazionale, resa possibile in primo luogo dal venir meno della divisione tra sassoni e normanni di fronte alle esigenze della guerra antifrancese. Si ebbe nel contempo l’affermazione dell’inglese come lingua dominante: si pensi, per esempio, alla pubblicazione dei Racconti di Canterbury (1387) di Geoffrey Chaucer, con i quali nacque la letteratura nazionale. Alla decadenza feudale apportò un notevole contributo l’ecatombe di nobili e cavalieri, procurata dapprima dalle campagne militari in Francia, poi, soprattutto, dagli scontri sanguinosi fra i sostenitori delle Due Rose. A ciò si aggiunga l’epidemia di peste nera che, alla metà del Trecento, eliminò almeno un terzo della popolazione dell’isola. Fu Edoardo III (1327-77), accampando titoli di successione contro Filippo VI di Valois all’estinzione della dinastia capetingia, a dare inzio alla guerra dei Cent’anni, che, nelle prime fasi vide un netto predominio inglese: dopo le vittorie di Crécy (1346) e di Maupertuis (1356), lo stesso re di Francia Giovanni il Buono fu portato prigioniero a Londra. Gran parte della Francia fu occupata e rimase preda di disordini feudali e violenze sociali. L’Inghilterra non riuscì però, nonostante la supremazia militare resa evidente dalle vittorie dei corpi degli arcieri e delle fanterie popolari contro la cavalleria pesante francese, a consolidare l’occupazione sul piano politico. Dopo la pace di Brétigny (1360), il conflitto riprese e Carlo V il Saggio, evitando scontri campali, rioccupò quasi tutto il territorio perduto. Verso la fine del secolo restava agli inglesi, dilaniati sotto i regni di Riccardo II (1377-99) e di Enrico IV di Lancaster (1399-1413) da rivolte nobiliari e crisi sociali e religiose, il solo possesso di Calais. Nella terza fase della guerra, complici le divisioni interne tra Valois e Borgogna, si ribaltarono nuovamente le sorti e, dopo la battaglia di Azincourt (1415) vinta da Enrico V (1413-22), la stessa Parigi cadde in mano inglese. A Enrico V fu riconosciuto il diritto di successione sul trono francese e suo figlio, il futuro Enrico VI, fu incoronato re di Francia. Tuttavia, grazie al risorgere di un potente spirito nazionale perorato dalla “pulzella d’Orleans”, Giovanna d’Arco, e alla pacificazione di Arras (1435) tra i Valois e i Borgogna, Carlo VII riuscì a respingere definitivamente gli inglesi. Enrico VI di Lancaster (1422-61 e 1470-71), sconfitto a Castillon (1453), malato di mente, si trovò di fronte a un paese scosso dalla perdita totale delle terre d’oltremanica, impoverito dagli sforzi bellici, indebolito dalla corruzione amministrativa e percorso da furiose lotte intestine fra i rami cadetti plantageneti degli York, che avevano come insegna la Rosa Bianca, e dei Lancaster, il cui emblema era la Rosa Rossa. Da qui la cosiddetta guerra delle Due Rose (1455-85), che indebolì ulteriormente la potenza della Corona e dei poteri centrali. Nel 1461, in seguito alla battaglia di Towton, divenne re Edoardo IV di York (1461-83). Dopo i brevissimi regni di Edoardo V (1483) e di Riccardo III (1483-85) – contrassegnati da fosche trame di assassini e tradimenti celebrate nelle tragedie shakespeariane – prese infine il sopravvento Enrico VII, imparentato con entrambe le parti rivali. Battendo Riccardo III nella battaglia di Bosworth (1485), egli diede inizio alla secolare e potente dinastia Tudor (1485-1603).

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6. I Tudor

I sovrani Tudor dopo Enrico VII (1485-1509) furono, nell’ordine, Enrico VIII (1509-47), Edoardo VI (1547-53, ricordato come il “re fanciullo” poiché salì al trono a nove anni morendo a quindici), Maria I (1553-58, moglie di Filippo II di Spagna, detta la “Cattolica” o la “Sanguinaria”, a causa della sua confessione religiosa e delle aspre repressioni attuate nell’Inghilterra già anglicanizzata e protestante) ed Elisabetta I (1558-1603). Nel periodo Tudor vennero poste le basi della futura grandezza della potenza inglese. Enrico VII mise fine all’ambizione dei baroni e alle lotte civili, governando con mano di ferro mediante istituzioni come la Star Chamber (camera stellata), una sorta di tribunale speciale regio. Al tempo stesso diede maggior risalto alla Camera dei Comuni (ciò che gli procurò l’appoggio della piccola nobiltà e della borghesia) e al suo Consiglio privato, al quale fece partecipare anche elementi borghesi. Vissuto a lungo nel Galles, egli stabilì che l’incorporazione di questa regione nel paese avrebbe dovuto mantenere uno spiccato aspetto di autonomia e di pari dignità, che si tradusse nel mantenimento di una burocrazia e di una magistratura locali. Ciò favorì un accostamento pacifico delle classi alte e in generale della popolazione gallese alla cultura e alla lingua inglesi e il loro pieno riconoscimento nella monarchia Tudor. Enrico VII rafforzò così l’unità politico-amministrativa del regno e col matrimonio di sua figlia Margherita con Giacomo IV di Scozia preparò l’unione tra le due corone. Il consolidamento della monarchia permise al figlio Enrico VIII, che nel 1541 si proclamò anche re d’Irlanda, di coltivare a più riprese il sogno di una riconquista degli antichi possedimenti francesi e poi, fallita questa definitivamente dopo il 1524, di proporsi quale ago della bilancia tra le monarchie francese e spagnola. All’epoca però mancava al regno inglese il peso militare per interpretare degnamente tale ruolo. Dopo il 1529 Enrico VIII concentrò la sua attenzione soprattutto sui problemi interni. Sotto il profilo economico, l’Inghilterra dei Tudor conobbe un apprezzabile progresso, favorito dall’inizio della brutale razionalizzazione proprietaria nelle campagne operata tramite le enclosures (recinzioni costruite dai grandi allevatori di ovini, desiderosi di incrementarne il numero, a scapito di terre scarsamente o per nulla coltivate, per trarre il massimo profitto dal fiorente commercio della lana). Tale misura creò altresì masse di contadini espulsi dall’agricoltura e destinati alla miseria e al vagabondaggio, che andarono a formare il grande esercito di riserva per la manodopera delle nascenti attività marinare e industriali. La creazione della marina regia e di una flotta commerciale – sulla scorta delle imprese di Giovanni Caboto e poi di Richard Chancellor, alla scoperta di nuove rotte oceaniche non sottoposte all’arbitrio di spagnoli e portoghesi – rappresentò un punto irrinunciabile per i Tudor. Specie nella seconda metà del secolo, grazie all’uso spregiudicato di “avventurieri mercanti”, a metà tra pirateria e commercio, le compagnie inglesi divennero concorrenziali rispetto a quelle continentali, accrescendo i loro traffici e imponendo le loro merci su nuovi mercati (come quello russo). Nel 1566 sorse a Londra il Royal Exchange, la “Borsa regia”, ben presto capace di porsi in alternativa alle grandi piazze finanzarie fiamminghe e anseatiche e ai banchieri tedeschi e italiani. Anche sotto l’aspetto artistico e letterario il periodo Tudor si segnalò per l’emergere di un carattere proprio. In architettura si rafforzò fino alla prima metà del Cinquecento il gotico perpendicular style, trasformatosi quindi nel rinascimentale “Tudor”. Per la poesia e la letteratura basterà citare il nome di Shakespeare (1564-1616), nelle cui tragedie la storia inglese dei secoli recenti fu ritratta in affreschi potenti e drammaticamente espressivi. Il capitolo di gran lunga più importante della storia della dinastia Tudor fu quello riguardante i rapporti con la chiesa cattolica. Nonostante l’esistenza di un diffuso spirito antiromano, l’Inghilterra non aveva seguito lo scisma luterano. Enrico VIII era stato anzi insignito nel 1521 del titolo di Defensor fidei per uno scritto contro Lutero. Le ragioni che determinarono la separazione dal cattolicesimo e la nascita della chiesa anglicana (anglicanesimo) non furono di carattere confessionale e teologico, ma furono sostanzialmente ispirate dalla ragion di stato. Enrico VIII voleva divorziare dalla prima moglie Caterina d’Aragona, nipote dell’imperatore Carlo V, e sposare Anna Bolena al fine di avere un erede maschio e di evitare così possibili guerre di successione. Di fronte al rifiuto del papa Clemente VII, influenzato da Carlo V, Enrico – forte dell’appoggio popolare e parlamentare – avviò il processo scismatico che culminò nel 1534 nell’Atto di Supremazia votato in parlamento, in base al quale fu sancita l’esistenza della chiesa anglicana con a capo il re d’Inghilterra. Vittime illustri di tali eventi furono il cardinale Thomas Wolsey, antico cancelliere di Enrico VIII, privato dei suoi beni, e Thomas More (1478-1535). Raggiunti i suoi scopi politici e tenendo saldamente in pugno la chiesa anglicana, Enrico VIII, per nulla tenero nei confronti dei luterani e dei calvinisti, non proseguì sul piano della riforma religiosa, che fu invece attuata durante il breve regno di Edoardo VI, per ispirazione del primo primate anglicano e arcivescovo di Canterbury Thomas Cranmer (1489-1556). Nel 1549 fu approvato il Book of Common Prayer in sostituzione del messale di rito romano e nel 1552 fu promulgata una nuova professione di fede densa di elementi luterano-calvinisti. L’intermezzo del regno di Maria “la Cattolica”, che tentò di restaurare la vecchia confessione senza però mettere in discussione l’avvenuto passaggio dei beni ecclesiastici in mano laica, non riuscì – nonostante le persecuzioni e i roghi nei quali fu bruciato anche Cranmer – a riportare indietro nel tempo la situazione. Da parte di Elisabetta I l’autorità regia sulla chiesa anglicana, pur senza l’estensione alla materia dottrinaria che restò appannaggio dei teologi delle università protestanti, fu ristabilita pienamente con il Giuramento di Supremazia e l’Atto di Uniformità del 1559. Nella “Dichiarazione dei 39 articoli” della nuova professione di fede del 1563 l’anglicanesimo, in forma luterano-calvinista moderata, fu eretto a religione di stato. Fu consacrato il ruolo preminente delle Sacre Scritture in materia di fede; dei sacramenti vennero conservati solo il battesimo e l’eucarestia, mentre fu abolito il celibato ecclesiastico. La gerarchia anglicana, i vescovi in primo luogo, esercitanti funzioni più disciplinari e pastorali che teologiche, furono sottoposti all’investitura e al controllo della Corona.

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7. L’Inghilterra di Elisabetta I

Durante il regno di Elisabetta maturarono – attraverso aspri conflitti interni ed esterni – tutti i variegati caratteri che la dinastia Tudor, con l’eccezione di Maria I, si era sforzata di assegnare alla monarchia insulare. Ciò è particolarmente evidente se si guarda agli sviluppi in materia di espansione marittima, commerciale e coloniale. A opera di Walter Raleigh (1552-1618) fu fondata nel 1584 la prima colonia inglese in America, chiamata Virginia in onore della regina nubile. Capitani mezzo navigatori mezzo corsari come Francis Drake (1541-96) e John Hawkins procurarono immense ricchezze sottraendole alle colonie e ai galeoni spagnoli nell’Atlantico e nel Pacifico o facendo commercio di schiavi, e assicurando alla patria, nei momenti di pericolo, una difesa sul mare di prim’ordine. Le compagnie commerciali della Moscovia (costituita nel 1554), del Levante (1581) e delle Indie orientali (1600), instaurarono i loro traffici con piazze non toccate dalla concorrenza, soppiantando gradualmente nel Vicino Oriente antiche potenze marinare, come Venezia. Nel campo demografico e dello sviluppo economico interno si assistette a un pari incremento, grazie all’assenza di guerre lunghe e sanguinose, nonché all’acquisto dei rilevanti beni sottratti alla chiesa cattolica. Andò via via affermandosi una struttura sociale imperniata sui ceti nobiliari medi e piccoli, specie delle campagne (gentry), e sulla borghesia cittadina, aventi la loro rappresentanza nella Camera dei Comuni, portata da 300 a 460 membri verso la fine del secolo e assurta a interlocutore principale della Corona nella determinazione delle linee di politica economica e finanziaria. Le premesse di grandezza e di magnificenza – anche in ambiti artistici, come la letteratura, per la quale oltre a Shakespeare sono da menzionare il poeta lirico Edmund Spenser (1552-99) e il drammaturgo Christopher Marlowe (1564-93) – si dispiegarono al punto che l’epoca elisabettiana fu avvertita dai contemporanei e dai posteri come il culmine di un processo storico al quale avrebbe fatto seguito, a un livello superiore, una nuova fase critica. Due furono i nodi principali coi quali Elisabetta dovette confrontarsi per decenni: a) il problema della definizione confessionale, strettamente legato alla stabilizzazione politica interna e b) il viluppo delle relazioni internazionali, dominato dalla rivalità con la Spagna di Filippo II. L’assetto religioso moderato promosso dalla sovrana e accettato dalla maggioranza della popolazione fu attaccato da un lato dalle sette puritane (puritanesimo), che reclamavano maggiore coerenza con l’intransigenza calvinista e con il coevo affermarsi del congregazionalismo e del presbiterianesimo scozzese di John Knox; e dall’altro lato, dal partito cattolico, che non risparmiò congiure e tentativi di ribaltamento, dietro ai quali si profilava l’occulto coordinamento di Filippo II e del papa che nel 1570 aveva scomunicato Elisabetta. La tragica vicenda di Maria Stuart (o Stuarda, 1542-87), regina cattolica di Scozia, è emblematica di tali intrecci. Fu proprio la sua esecuzione, che turbò profondamente l’Europa, a scatenare la guerra con la Spagna. In quanto maggior potenza protestante, l’Inghilterra prestava infatti soccorso ai correligionari perseguitati nei paesi – come la Scozia, la Germania, la Francia – in cui infuriava la persecuzione contro i riformati, nonché ai Paesi Bassi calvinisti impegnati nella ribellione antispagnola. Tuttavia, da saggia assertrice di un principio di equilibrio tra Francia e Spagna assorbite nel secolare scontro per la supremazia continentale, Elisabetta volle evitare un coinvolgimento troppo oneroso o un indebolimento eccessivo dell’una o dell’altra parte. Questa diplomazia fu messa in crisi dalla volontà di Filippo II di risolvere drasticamente le relazioni con l’Inghilterra (anche alla luce del ruolo che si era assegnato di massimo difensore della cattolicità nel quadro della Controriforma), rispetto alla quale egli vantava anche diritti dinastici attraverso Maria I. L’esecuzione di Maria Stuarda fornì il destro per l’intervento. Tra il 1588 e il 1599 si ebbero diversi tentativi di invasione dell’Inghilterra, che tuttavia non andarono a segno. Celebre quello del 1588, quando fu raccolta l’Invencible Armada per scortare nell’isola l’esercito di stanza nelle Fiandre agli ordini di Alessandro Farnese, duca di Parma. Attaccata fin dalla partenza da Cadice con una debilitante guerriglia dalle più maneggevoli navi corsare di Drake, inquadrate nella marina reale e armate con potenti batterie, la Invencible Armada fu poi semidistrutta nelle tempestose acque della Manica e costretta a cercare una via di scampo per il ritorno in Spagna attraverso la pericolosa circumnavigazione dell’isola, nel corso della quale affondarono molte delle navi restanti. Tali eventi rinvigorirono ulteriormente un acceso patriottismo, per lo più ignoto nelle restanti parti d’Europa. La vittoria contro la Spagna segnò l’irreversibile declino di quest’ultima e gettò le premesse per una presenza inglese più aggressiva sulla scena mondiale. Il regno di Elisabetta non fu esente da conflitti sociali e istituzionali. L’esercito di mendicanti creato dal fenomeno delle recinzioni indusse alla promulgazione di una prima legislazione per i poveri (1597-1601). Le maggiori difficoltà sul piano istituzionale scaturirono dal rifiuto di Elisabetta di sposarsi con un principe protestante per avere un erede che assicurasse la successione.Ciò ingenerò una durevole contrapposizione col parlamento e con i puritani e causò l’estinzione della dinastia Tudor, ma permise al tempo stesso l’unificazione dinastica inglese e scozzese nella persona di Giacomo VI Stuart (discendente di Margherita, figlia di Enrico VII), il quale assunse col nome di Giacomo I (1603-1625) il titolo di “re di Gran Bretagna”.

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8. I primi Stuart

Con l’avvento degli Stuart iniziò un periodo travagliato, durato per quasi tutto il Seicento, che fu caratterizzato da un dibattito intensissimo sui fondamenti e sulle prerogative del potere regale dinanzi a quelle del parlamento e che, dopo una guerra civile e due rivoluzioni, terminò con la creazione di un rinnovato assetto costituzionale che avrebbe rappresentato un modello per l’Europa moderna. Teorico del diritto divino dei re e propugnatore dell’assolutismo, Giacomo I per la prima volta riunì nella sua persona le tre corone britanniche dell’Inghilterra, della Scozia e dell’Irlanda (sebbene quest’ultima non potesse esser tenuta se non al costo di un potente esercito, ciò che acuì i problemi finanziari di Giacomo e del suo successore e contribuì, negli anni Quaranta, allo scoppio della guerra civile). Nonostante la sua fede cattolica, Giacomo I comprese l’opportunità di sostenere l’anglicanesimo (provocando la delusione dei cattolici inglesi) e la necessità di favorire il sorgere di una gerarchia nelle stesse chiese riformate, al fine di attenuarne l’intransigenza politico-religiosa e di poterle meglio controllare. La ricerca di una linea d’equilibrio tra cattolicesimo oltranzista e rigidezze puritane – che fu individuata nell’anglicanesimo ufficiale sottoposto alla Corona – sottintendeva perciò la volontà di conservare la stabilità politica dei regni nel quadro di un rigido assolutismo. Tale disegno incontrò l’opposizione dei puritani e dei cattolici. Memorabile fu la “congiura delle polveri”, ordita nel 1605 dal partito cattolico al fine di colpire il palazzo del parlamento a Westminster durante una sessione presieduta dal sovrano. La scoperta e la repressione del complotto diffuse nel paese un furore antipapista che compromise per sempre la causa cattolica. Fu soffocata anche la protesta delle sette puritane, insofferenti della supremazia anglicana e proiettate verso forme di religiosità più rigorosa. Da qui il fenomeno dell’emigrazione a sfondo religioso, il cui episodio più rilevante fu la partenza dei Padri Pellegrini sul Mayflower nel 1620, alla volta della Nuova Inghilterra. La politica assolutista e uniformatrice di Giacomo I, insensibile alle profonde differenze religiose, sociali, economiche dei suoi regni, mise infine in urto il re con il parlamento (dominato dalla Camera dei Comuni, egemonizzata a sua volta dalla media e piccola nobiltà e dall’alta borghesia), deciso difensore dei propri diritti in materia fiscale e finanziaria. Giacomo I evitò quindi di convocarlo, governando con i mezzi provenienti dalla vendita di cariche pubbliche, onorificenze, titoli nobiliari e persino di proprietà reali. In questo modo tuttavia venne a prodursi un pesante immobilismo sul piano della politica estera e soprattutto della vita socioeconomica, che finì per ledere gravemente gli interessi delle classi borghesi in ascesa, sfavorite nella concorrenza internazionale, creando una situazione di crescente tensione e insoddisfazione. Lo sfortunato intervento di Carlo I (1625-49) contro la Francia durante una delle fasi della guerra dei Trent’anni mise in gravi difficoltà finanziarie la Corona, che nel 1628 dovette convocare il parlamento. Questo ne approfittò per condizionare l’approvazione di nuovi tributi alla concessione della Petition of Rights (Petizione dei diritti), il primo documento che – sul precedente della Magna Charta – allargò le richieste di garanzie e privilegi alla sfera, di fondamentale importanza per la modernità, della libertà e della sicurezza dell’individuo. Carlo I accolse la Petition of Rights ma, nel 1629, per metter fine alle continue richieste e agitazioni, sciolse il parlamento. Seguì un decennio di governo assoluto caratterizzato da una giurisdizione repressiva attuata per mezzo della “camera stellata” e dal predominio, nel Consiglio privato del re, del suo favorito Thomas Wentworth, conte di Strafford, (1593-1641) e dell’arcivescovo di Canterbury William Laud (1573-1645). Il progetto, proposto a Carlo da Laud, d’imporre in tutti i suoi domini la liturgia anglicana, produsse nella Scozia presbiteriana una sollevazione popolare e la decisione – col Covenant (patto solenne) del 1638 dei clan nobiliari e delle città – di muovere guerra al re. Fu questa la premessa della guerra civile e della rivoluzione inglese. Allo scopo di procurarsi nuove risorse per allestire un esercito contro gli scozzesi, che nel frattempo avevano invaso le regioni settentrionali inglesi, Carlo riconvocò il parlamento nel 1640. Tuttavia, di fronte alla contestazione del suo governo assoluto e alla presentazione di nuove richieste tese a evitare uno scioglimento arbitrario del parlamento, il re lo chiuse d’autorità (Corto Parlamento, 13 aprile – 5 maggio 1640). Poco più tardi, per l’insostenibilità della situazione, fu però obbligato a riunire quello che sarebbe diventato il Lungo Parlamento (1640-53). Ebbe così inizio un’epoca di lotte civili, di guerra e di rivoluzione politica e sociale.

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9. Guerra civile, rivoluzione e protettorato di Cromwell

Dopo la rivolta scozzese, l’insurrezione in Irlanda nel 1641 venne a complicare ulteriormente la situazione, rendendo Carlo I sempre più dipendente dal parlamento. Nella protesta contro gli abusi assolutistici del re prese forma una maggioranza parlamentare rappresentativa di un blocco sociale composto soprattutto dalla piccola nobiltà (gentry), emarginata dal privilegio accordato dal sovrano all’alta nobiltà di corte (specie di estrazione cattolica), e dai ceti produttivi agricoli (yeomen) e della borghesia urbana, soprattutto del sud e dell’est, la parte più ricca e sviluppata del paese. Ad amalgamare e a egemonizzare tale maggioranza fu il rigoroso puritanesimo sostenuto in parlamento da John Pym (1584-1643). Esso impose la condanna a morte di Strafford (1641), la soppressione delle corti privilegiate e dell’episcopato, e infine l’esecuzione dello stesso Laud (1645). Formalmente la guerra civile scoppiò nel 1642, a seguito del contenzioso insorto tra il re e il parlamento sulla direzione della campagna militare contro i ribelli irlandesi. Essa si concluse con la messa in stato d’accusa di Carlo I nel 1648 e con la sua decapitazione nel 1649. Nelle fasi alterne dei combattimenti – che videro in un primo momento prevalere la “cavalleria” reale sulle “teste rotonde” (dall’acconciatura tipica dei sostenitori del parlamento) – contò molto l’intervento degli scozzesi (1643) ma fu decisiva la riorganizzazione dell’esercito parlamentare operata da Oliver Cromwell (1599-1658), che formò l’armata di “nuovo modello” (New Model Army) sulla traccia del corpo scelto – accesamente puritano – di cui era comandante, gli Ironsides (fianchi di ferro). Così furono vinte le battaglie decisive di Marston Moor (1644), Naseby (1645) e infine di Preston (1648) contro gli scozzesi che, nel frattempo, erano stati convinti da Carlo I a passare dalla sua parte. Dopo che gli scozzesi ebbero consegnato il re a un parlamento epurato da Cromwell e in suo completo controllo, questo, sotto la spinta delle componenti più estremiste dell’esercito (livellatori, zappatori, ecc.), pretese la pena capitale per il sovrano a espiazione dei crimini perpetrati “contro il popolo”. In seguito a un processo sommario, Carlo fu decapitato nel gennaio 1649. Ebbe così fine la stagione dell’assolutismo monarchico in Inghilterra e fu proclamato il Commonwealth, ossia la repubblica. In un clima di rigorismo puritano e di accesa contestazione sociale fu soppressa la Camera dei Lords e alla Camera dei Comuni, alla quale partecipava ormai un numero esiguo di rivoluzionari fedeli a Cromwell (Rump Parliament, troncone di Parlamento), fu affidata la funzione legislativa. A capo del Consiglio di stato si pose lo stesso Cromwell, capo indiscusso dell’esercito, che monopolizzò l’esecutivo e il controllo del parlamento e del paese, anche a prezzo della sconfessione e della repressione delle fasce rivoluzionarie più estremiste nella richiesta del livellamento sociale. Con risoluta energia in un paio d’anni egli sedò la rivolta irlandese e nel 1651 sconfisse nuovamente gli scozzesi che intendevano portare sul trono Carlo II, figlio del deposto monarca. Al termine di tale processo di concentrazione dei poteri, Cromwell sciolse nel 1653 il parlamento e si proclamò “Lord Protettore”, avviando una fase di dittatura personale che doveva durare fino alla sua morte. Riunificata la Gran Bretagna, Cromwell – ricongiungendosi idealmente all’ispirazione elisabettiana e nel quadro di una politica mercantilistica – intervenne a difesa del commercio marittimo inglese, promulgando dapprima il Navigation Act (Atto di navigazione, 1651), e intraprendendo poi una guerra contro l’Olanda (1652-54), che fu costretta con il trattato di Westminster a riconoscere la preminenza degli interessi britannici sul mare. Riprese anche, in alleanza con la Francia, che per questo cedette Dunkerque, la guerra contro la Spagna (1654-59) e l’espansione coloniale (che del resto era stata proseguita anche sotto gli Stuart), occupando Giamaica (1655). Alla morte di Cromwell (1658) il figlio Richard, designato a succedergli, ma privo del carisma paterno, fu estromesso per iniziativa del generale George Monck (1608-70), forte dell’appoggio della Scozia lealista, dei cattolici e di parte delle truppe repubblicane ormai stanche della dittatura cromwelliana. Carlo II (1660-85), dal suo esilio francese, poté così esser chiamato dal nuovo parlamento, eletto nel 1660, a riprendere il trono del padre, nel presupposto della garanzia delle prerogative parlamentari, della libertà religiosa e dei nuovi diritti sociali.

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10. La restaurazione Stuart e la Gloriosa Rivoluzione

La restaurazione avvenne senza grandi scosse. Ministri e burocrazia rimasero in parte gli stessi e Carlo, segretamente cattolico, dopo aver ripristinato l’episcopato anglicano con l’Atto di Uniformità (1662) ostentò un atteggiamento di tolleranza religiosa favorevole ai cattolici, ma perseguitò i puritani. Cercò anche di reintrodurre tratti assolutisti, influenzato da Luigi XIV, con cui siglò nel 1670 il trattato d’amicizia di Dover, e ciò, unitamente alle non molto popolari guerre contro gli olandesi (1665-67 e 1672-74), riattizzò le tensioni col parlamento. Di fatto Carlo II tentò di governare senza il parlamento, giocando sulla divisione dei due partiti che si erano costituiti all’epoca – i tories (nomignolo indicante i “banditi irlandesi”), conservatori e anglicani fedeli al re, e i whigs (dispregiativo per “contadini scozzesi”), borghesi, tendenzialmente puritani, avversari degli Stuart – e affidandosi all’aiuto finanziario della Francia. Dissimulando le sue reali intenzioni, cercò di appianare i contrasti con l’assenso al Test Act (1673), che escludeva i non anglicani dalle cariche pubbliche e dalla successione al trono, e all’Habeas Corpus Act (1679), che sarebbe diventato, dopo la Magna Charta e la Petition of Rights, uno dei fondamenti della nuova visione costituzionale e della salvaguardia della libertà personale nei processi penali. Diversamente avvenne con il fratello, che gli succedette col nome di Giacomo II (1685-88). Questi non si peritò di celare l’intenzione di restaurare la confessione cattolica e l’assolutismo, sfidando apertamente l’opinione pubblica e il parlamento con la minaccia di revocare il Test Act e di sospendere l’Habeas Corpus Act. Il fatto poi che avesse un erede maschio convinse la maggioranza parlamentare, decisa a scongiurare il proseguimento di una dinastia cattolica, a offrire a Guglielmo d’Orange, marito di Maria, primogenita di Giacomo ma anglicana, di sostituire lo Stuart sul trono. Avvenne così, senza alcuno spargimento di sangue, la “Gloriosa Rivoluzione” del 28 dicembre 1688, quando Guglielmo III e la moglie Maria entrarono trionfalmente a Londra, mentre il vecchio re fuggiva in Francia. Essa introdusse in Gran Bretagna il regime costituzionale magistralmente descritto da John Locke nei Due Trattati sul Governo e i cui principi cardinali (sovranità popolare, rappresentanza parlamentare, prerogativa parlamentare nella politica fiscale, libertà civili e politiche, esercito non permanente ecc.) furono fissati nel Bill of Rights del 1689. Con atti successivi venne sancita la tolleranza religiosa, meno che per i papisti cattolici. Nel 1690 Guglielmo III arrestò l’insurrezione degli irlandesi che avevano preso le armi a favore di Giacomo II.

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11. Gli ultimi Stuart, la dinastia Hannover e la monarchia costituzionale

Sotto il regno di Guglielmo III e di Maria II (1689-1702) il paese conobbe un periodo di notevole progresso in ogni campo. Al consolidamento delle trasformazioni in agricoltura e all’avvio della rivoluzione industriale corrispose un notevole incremento dei traffici commerciali. Soppiantata la concorrenza olandese, la Gran Bretagna s’avviò a diventare la prima grande potenza capitalistica mondiale, come fu sancito dalla fondazione della Banca d’Inghilterra (1694). Aderendo alla direttiva tradizionale che privilegiava il mantenimento dell’equilibrio nel continente, Guglielmo portò l’Inghilterra nella lega antifrancese. Nel frattempo, allo scopo di evitare il ritorno di sovrani cattolici sul trono, il parlamento votò nel 1701 una “legge di successione”, che assicurava il trono solo a principi Stuart di confessione protestante, o, in loro assenza, al ramo tedesco imparentato degli Hannover. Alla coppia reale succedette pertanto la sorella di Maria, Anna Stuart, regina di Danimarca (1702-14), che procedette sul cammino già tracciato. Particolare rilievo assunse la partecipazione, in funzione antifrancese, alla guerra di Successione spagnola, in cui si mise in luce John Churchill, duca di Marlborough (1650-1722), e nel corso della quale la Gran Bretagna s’impadronì della roccaforte di Gibilterra (1704). Sotto il profilo istituzionale, il principale evento fu la già ricordata fusione parlamentare e costituzionale di Scozia e Inghilterra nel “Regno Unito” (1707), resa necessaria dall’imminente venir meno dell’unione dei due regni nella persona di un unico monarca. Alla morte di Anna infatti s’insediò sul trono, non senza qualche resistenza del partito giacobita (ossia, dei seguaci del deposto re Giacomo II), la casa Hannover con Giorgio I (1714-27), seguito da Giorgio II (1727-60): due sovrani completamente estranei alla cultura e alla stessa lingua inglese. Nel lasso di tempo compreso tra la Gloriosa Rivoluzione e l’ascesa al trono degli Hannover, prese altresì connotati più precisi la monarchia costituzionale, al cui interno furono armonicamente compenetrati e bilanciati i tre princìpi corrispondenti alle tre forme classiche di governo: monarchico, espresso nella persona del re; aristocratico, considerato il peso della nobiltà e della Camera dei Lords; democratico, incarnato nella prevalenza politica della Camera dei Comuni. Il re, né di diritto divino né assoluto, si obbligava al rispetto della costituzione e delle norme da essa derivanti. Puntelli del costituzionalismo furono la rappresentanza politica attraverso l’elezione parlamentare e la separazione e il controllo reciproco dei poteri: il legislativo, potere supremo in mano al parlamento, e l’esecutivo (non si enucleava ancora in piena autonomia quello giudiziario, che rimaneva in gran parte compreso nel legislativo). Il dato fondamentale del sistema costituzionale consisteva nell’indipendente dinamica dei partiti in parlamento (favorita dall’assenteismo di fatto dei primi due re Hannover), dalla quale dipendeva nella sostanza la designazione del premier (primo ministro) a capo di un “governo parlamentare”. Da ricordare soprattutto il lungo periodo (1721-42) di governo dei whigs guidati da Robert Walpole (1676-1745), durante il quale allo sviluppo economico si associò un profondo degrado corruttivo della vita politica.

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12. La rivoluzione agricola e la rivoluzione industriale

Tra i secoli XVI e XVIII l’Inghilterra fu la sede di due processi epocali collegati, che costituirono le premesse dell’innalzamento e poi del predominio della potenza politica e marittima britannica nell’Ottocento: la rivoluzione agricola e la rivoluzione industriale. Il fenomeno delle “recinzioni” (enclosures), iniziato a metà Cinquecento, aveva gradualmente determinato il superamento dell’assetto medievale delle campagne, favorendo la nascita della moderna fattoria produttiva (farm), lo sfruttamento concentrato delle terre a pascolo, l’allevamento di bestiame destinato alla produzione di beni come la lana e i latticini e quindi l’incremento dell’industria e del commercio. La pratica delle recinzioni riprese vigore nel Settecento (in particolare tra il 1760 e il 1830), portando a una razionalizzazione delle colture, delle rotazioni e dei metodi capaci di aumentare la fertilità delle terre, all’eliminazione di molti suoli incolti, alla costruzione di infrastrutture (canali, strade, ponti, ecc.) più adeguate alla vita di una moderna nazione, espellendo forza lavoro dalle campagne e ingrossando le file dei disoccupati, ovvero di manodopera a basso prezzo per l’industria. Ai benefici effetti della rivoluzione agricola si sommarono quelli di un progresso scientifico e tecnologico senza precedenti, emblematizzato nella scoperta di una nuova forma d’energia, il vapore, che, applicato a impieghi industriali, oltre a valorizzare gli immensi giacimenti carboniferi (in luogo del legno scarso) e ferrosi esistenti, diventò presto il primo anello di una lunga catena di innovazioni. Si pensi solo alla messa in opera dei telai meccanici e ai loro effetti sull’industria tessile e cotoniera oppure, più tardi, all’invenzione della locomotiva (nel 1825 fu inaugurato il primo tratto ferroviario Stockton-Darlington), della nave a vapore e al loro impatto sull’industria dei trasporti e delle comunicazioni. Con la parallela istituzione di sedi finanziarie, come la Banca d’Inghilterra e la Borsa, alla vigilia della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche la Gran Bretagna divenne, grazie anche allo sfruttamento delle colonie (fornitrici di materie prime e mercati d’esportazione delle merci), il centro del capitalismo e dell’industria mondiali. A ciò s’accompagnò un inusitato sviluppo demografico e della società civile (fu fondata anche la prima loggia massonica), contrassegnato dal dibattito culturale e politico di giornali e gazzette, come il “Craftsman” di Henry Bolingbroke (1678-1751) o lo “Spectator” di Joseph Addison (1672-1719), e le cui idealità e finalità sociali liberiste furono rispecchiate nell’opera di Adam Smith (1723-90). Si pose anche per la prima volta in termini drammatici la “questione sociale”, rappresentata – oltre che dal luddismo, la protesta dei vecchi ceti artigiani estromessi e non più competitivi contro l’imporsi delle macchine (1811-12) – dal sorgere di un immenso proletariato raccolto in squallide condizioni di mera sopravvivenza nelle nuove città industriali del centro e del nord. Manchester, capitale della lavorazione del cotone, passò dai 27.000 abitanti del 1773 ai 228.000 del 1831.

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13. La rottura con l’America

Nel corso del Settecento fu cura costante dei governi inglesi ampliare e consolidare l’impero coloniale, approfittando delle divisioni tra le potenze continentali al fine di contenere le ambizioni francesi. Tale attitudine aveva permesso di ottenere col trattato di Utrecht del 1713, al termine della guerra di Successione spagnola, ampi territori nell’America del Nord (Terranova e Nuova Scozia, che andarono ad aggiungersi alle colonie della Nuova Inghilterra e alla Virginia) e il monopolio del commercio di schiavi. Alla metà del secolo l’attività espansiva della Compagnia delle Indie e l’intraprendenza del capitano James Cook (1728-79) procurarono nuovi importanti acquisti alla Corona britannica nel subcontinente asiatico, in Australia e negli arcipelaghi dell’Oceano Indiano e del Pacifico. In tutte le regioni del mondo s’inasprì la competizione tra Francia e Inghilterra, finché si giunse allo scoppio di una vera e propria guerra coloniale, la guerra dei Sette anni (1756-63). Sotto la direzione del governo conservatore di William Pitt il Vecchio (1708-88), la Gran Bretagna riuscì ad avere la meglio sui francesi (e sui loro alleati spagnoli), conquistando il Québec, i territori dell’Ohio, parte delle Antille, Cuba e vaste zone dell’India. Con la pace di Parigi (1763) le furono inoltre definitivamente riconosciuti il Canada, la Florida spagnola, la Louisiana e, in Africa, il Senegambia. La guerra tuttavia impoverì le risorse finanziarie del regno, così che il parlamento ritenne opportuno elevare la quota di contributi fiscali a carico delle colonie. Questa circostanza acuì i contrasti tra i coloni della Nuova Inghilterra e la madrepatria che, ulteriormente esasperati dall’ascesa al trono dell’autoritario Giorgio III (1760-1820), culminarono nella rivoluzione americana. Alle rivendicazioni di maggior autonomia (particolarmente odiosi erano per i coloni il divieto di insediarsi a ovest della catena montuosa degli Appalachi e le restrizioni commerciali) e di una rappresentanza parlamentare delle colonie, s’aggiunse l’annosa protesta per alcuni tributi (sul bollo, sul tè, ecc.), che sboccò infine nell’insurrezione di Boston del dicembre 1773, quando furono gettate in mare le merci della Compagnia delle Indie. Tale incidente provocò l’azione repressiva del governo britannico e l’inizio della guerra con le 13 colonie, che riunirono le loro rappresentanze nel congresso di Filadelfia, dove, nel 1776, fu sottoscritta in forma solenne la Dichiarazione d’indipendenza. Sotto la guida di George Washington, l’esercito delle ex colonie, appoggiato da francesi, spagnoli e olandesi, dopo fasi alterne riuscì a sconfiggere definitivamente gli inglesi a Yorktown (1781), obbligandoli alla pace di Versailles (1783), con la quale la Gran Bretagna dovette rinunciare, oltre che alla Nuova Inghilterra, anche alla Florida, al Senegambia e ad altri possedimenti minori.

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14. La Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche

Oltre ad aprire una fase di ostilità politica tra americani e inglesi – che si concluse solo dopo un secondo conflitto (1812-14) con la pace perpetua di Gand (1814) – la guerra d’indipendenza americana prostrò finanziariamente il Regno Unito, facendo emergere gravi divisioni politiche interne, del resto già palesi con lo schieramento a fianco degli americani di illustri rappresentanti radicali e whig come Thomas Paine (1737-1809) ed Edmund Burke (1729-97). Il dissenso nei confronti del governo autoritario di Giorgio III innestò un processo di riforma politica sotto William Pitt il Giovane (1759-1806), che fu tuttavia bloccato quasi sul nascere dalle conseguenze internazionali della Rivoluzione francese e poi dalla necessità di far fronte all’espansionismo napoleonico. Salvo una breve parentesi (1801-1804), fu Pitt a dirigere l’esecutivo britannico dal 1783 al 1806 e quindi a promuovere la lotta contro il tentativo egemonico di Napoleone I. Nello stesso periodo vi fu, tra l’altro, una nuova ribellione irlandese (1797-98), che produsse il soffocamento del movimento autonomista e l’assorbimento definitivo dell’Irlanda nel Regno Unito attraverso l’Atto d’Unione del 1801. La Rivoluzione francese contro l’ancien régime, con il suo chiaro segno antinobiliare e antiassolutista, suscitò reazioni contrastanti: di favore tra whigs e borghesia illuminata, ma anche, prima ancora del prevalere dell’estremismo giacobino, di timore e contrarietà, ben espressi nell’opera di Burke del 1790, le Riflessioni sulla Rivoluzione francese. Dopo l’invasione francese dell’Olanda, la Gran Bretagna abbandonò la sua condotta sostanzialmente neutrale e aderì alle coalizioni antifrancesi che si formarono tra il 1792 e il 1797. L’intervento inglese fu più deciso nei riguardi di Napoleone, le cui ambizioni di dominio europeo si contrapponevano frontalmente alla tradizionale direttiva britannica in politica estera dai tempi di Elisabetta, ossia alla difesa dell’equilibrio continentale. Dopo una prima fase di trionfi napoleonici e d’isolamento inglese, sancito dalla pace di Amiens (1802) – che costrinse tra l’altro il Regno Unito a cedere numerose colonie – fu ripresa l’iniziativa sul mare. Horatio Nelson (1758-1805), già vincitore nel 1798 ad Abukir, sconfisse la flotta francese a Trafalgar nel 1805 garantendo così la supremazia marittima. Nonostante Napoleone avesse decretato il blocco continentale (1806) al fine di sottrarre i mercati europei alle merci inglesi, fu in realtà alla lunga più efficace la chiusura del commercio francese d’oltremare, consentita dall’ostacolo insuperabile frapposto sugli oceani dalla flotta inglese. Nel 1808 si ebbe la spedizione del duca di Wellington (1769-1852) in Portogallo, per mezzo della quale fu aperto un nuovo fronte in Spagna. Non era tuttavia possibile battere la potenza francese solo con vittorie sul mare o su fronti secondari. E in effetti, Napoleone fu piegato soprattutto dalle sconfitte subite in Russia e in Germania, alle quali l’Inghilterra diede un contributo esclusivamente politico e diplomatico, pur se incessante e di grande valore, mentre partecipò in modo decisivo con il suo esercito – al comando di Wellington – alla fase finale delle guerre antinapoleoniche e soprattutto alla battaglia di Waterloo (1815). Non fu solo un gesto simbolico se, infine, Napoleone si consegnò agli inglesi, che lo relegarono a Sant’Elena. Il ruolo animatore dell’opposizione instancabile a Napoleone fu pienamente riconosciuto – grazie anche all’abilità del ministro Robert Stuart, visconte di Castlereagh (1769-1822) – nelle varie fasi del congresso di Vienna (1814-15), nel quale la Gran Bretagna riaffermò la sua funzione di ago della bilancia in Europa, riottenendo il regno di Hannover (attraverso l’unione nella persona del monarca), le colonie che aveva ceduto dopo la pace di Amiens, l’Helgoland, Malta, la colonia del Capo e Ceylon.

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15. Le riforme liberali

Il lungo regno di Giorgio III fu contraddistinto dal tentativo autoritario del re di sovrapporsi al parlamento nella conduzione politica del paese. Dall’opposizione a esso, della quale fu emblematica la figura di John Wilkes (1727-97), fondatore del radicalismo democratico inglese, si avviò una potente corrente riformatrice che, sebbene parzialmente bloccata e rallentata nell’epoca napoleonica, doveva infine prevalere sulle velleità autocratiche del sovrano conferendo alle istituzioni politiche britanniche una maggiore maturità liberale e democratica. Alle aperture progressiste sul piano umanitario e sociale contribuì pure quel profondo rinnovamento religioso del protestantesimo inglese rappresentato dal metodismo di John Wesley (1703-91), che, oltre ad agire per la moralizzazione della vita pubblica e il superamento dell’analfabetismo, patrocinò fervidamente l’iniziativa di uomini come William Wilberforce (1759-1833), fondatore della “Società per l’abolizione della tratta”, che obbligò il parlamento nel 1807 a pronunciarsi per l’abolizione del commercio degli schiavi. Le guerre antinapoleoniche e la Restaurazione lasciarono però in Gran Bretagna una pesante eredità di conservatorismo politico e sociale gradito, oltre che a Giorgio III, al suo successore Giorgio IV (1820-30) e ben interpretato a livello di governo da Castlereagh. Si privilegiarono gli interessi culturalmente ed economicamente più arretrati del paese, espressi nella politica dei dazi protettivi sul grano e nella concezione socioeconomica di Thomas Robert Malthus (1766-1834). Il culmine della reazione si ebbe nel 1819, quando a seguito dei disordini di Manchester furono promulgate leggi contro la libertà di stampa e di associazione. Tuttavia, l’onda lunga liberaldemocratica, elaborata al più alto grado nel radicalismo utilitarista di Jeremy Bentham (1748-1832), finì per affermarsi. Gli stessi tories si divisero tra ultraconservatori (old stupid tories) e moderati (young tories), tra cui si segnalarono Henry Palmerston (1784-1865) e Robert Peel (1788-1850). Dopo un’attenuazione del rigorismo della Restaurazione, cui corrisposero la mitigazione del diritto penale, il riconoscimento della libertà d’associazione nel 1824, la chiamata al governo, nel 1827, di George Canning (1770-1827), nonché l’emancipazione dei cattolici nel 1829, si approdò infine con il nuovo sovrano Guglielmo IV (1830-37) e col gabinetto whig di Charles Grey (1764-1845) alla grande riforma elettorale del 1832 (Reform Act), il cui spirito più genuino consisteva nella definitiva affermazione della preminenza politica della rappresentanza parlamentare, espressione della società, sul privilegio tradizionale, nobiliare o dinastico. A seguito di essa vennero soppressi i “borghi putridi” (rotten boroughs), che assegnavano la preponderanza elettorale a casati non rappresentativi o decaduti: 143 mandati su 200 furono dati alle nuove realtà urbane. Contestualmente fu approvato un ampliamento, pur all’interno del sistema maggioritario, del criterio censitario, ciò che permise una maggior presenza dei ceti attivi industriali e mercantili in parlamento: il diritto di voto fu esteso da 500 mila a più di 800 mila elettori. Fu inoltre regolarizzato il ritmo del ricambio elettorale e saldamente stabilito il principio della maggioranza parlamentare ai fini della formazione dell’esecutivo. La riforma esercitò effetti significativi sullo stesso sistema dei partiti che, dall’usuale divisione in tories e whigs, passò al più moderno bipartitismo alternativo di “conservatori” e “liberali”. Sul piano sociale si iniziò a prender coscienza del problema del lavoro e della povertà: nel 1833 fu promulgata una nuova legislazione contro la povertà (poor law) e sulle fabbriche, che istituì un corpo ispettivo e fissò in otto ore la giornata lavorativa per i fanciulli. Nello stesso anno fu abolita la schiavitù nelle colonie, dietro pagamento di un’indennità al proprietario. L’ultima riforma di rilevanza storica interessò l’economia e fu approvata nel 1846, ormai sotto il regno della regina Vittoria (1837-1901), per impulso del ministero Peel: riguardò l’abrogazione dei dazi sul grano istituiti con le corn laws del 1815. Tale misura fu adottata grazie all’incessante impegno del fronte liberista, capeggiato dal rappresentante della scuola di Manchester Richard Cobden (1804-65), che aveva fatto sua l’eredità del pensiero economico-politico di David Ricardo (1772-1823).

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16. La regina Vittoria e l’impero

Se l’indirizzo riformatore degli anni Trenta e Quaranta consentì alla Gran Bretagna di presentarsi con un volto istituzionale, politico ed economico ispirato a un avanzato liberalismo (ciò che le permise di evitare la serie di sommovimenti insurrezionali che caratterizzarono la generalità degli altri paesi europei e che culminarono nei moti del 1848), non bisogna con questo credere che nel paese fossero ormai risolti anche gli enormi problemi sociali causati in gran parte dall’impetuoso sviluppo dell’industrializzazione. La condizione operaia, resa ancor più difficile dal regime protezionista, continuava a essere di mera sopravvivenza. Una realtà ben espressa nei romanzi di Charles Dickens (1812-70). La stessa legislazione sociale esistente veniva spesso disattesa. Sensibile alle esigenze di un inedito socialismo cooperativo ed egualitario, Robert Owen (1771-1858), proveniente dalle file del padronato, aveva proposto e realizzato nuove fabbriche-modello, vere e proprie comunità produttive, in particolare a New Lanark in Scozia e New Harmony in America, fallite nel corso delle ricorrenti crisi capitalistiche. Alle proposte owenite, di sapore utopico, erano subentrate iniziative tese alla creazione di un associazionismo sindacale (Trade Unions). Gli anni iniziali del regno vittoriano furono segnati dall’emergere di una contestazione radicalsociale di marca operaia, che affiancò in una “carta del popolo” (1838) rivendicazioni economiche e richieste politiche, come il suffragio universale (cartismo). L’apertura all’iniziativa liberista e il conseguente rilancio economico furono le risposte vincenti date da Peel e si rivelarono in grado di bloccare l’energia del movimento cartista, la cui stella declinò rapidamente anche per i sopravvenuti contrasti con le Trade Unions. Da allora i sindacati inglesi si disinteressarono alle lotte politiche, cercando invece di ottenere, a livello locale e di singole aziende, benefici più limitati, ma più concreti. Nel 1847 fu introdotta la giornata lavorativa di 10 ore. Dagli anni Cinquanta pertanto, sulla base di una situazione di relativa ma persistente pacificazione sociale (resa peraltro possibile dai proventi coloniali che aumentavano la fetta di reddito a disposizione dell’operaio inglese) e stabilità, il Regno Unito poté volgere tutte le proprie forze al consolidamento della sua posizione di prima potenza industriale, finanziaria e commerciale nel mondo (sancita dall’esposizione universale di Londra del 1851) e all’ampliamento di un impero coloniale sempre più smisurato (che giunse allora a comprendere un quarto delle terre emerse). Tali imprese furono indirettamente favorite dai fermenti nazionalisti e indipendentisti diffusi nel continente europeo che, dopo aver messo fuori gioco la logica politica e gli obiettivi della Santa Alleanza, si erano tradotti in ripetute guerre di indipendenza nazionale, specie in Italia e in Germania. Verso di esse l’Inghilterra, conscia dell’impasse in cui venivano a trovarsi i grandi imperi multinazionali austriaco e russo, assunse un atteggiamento di simpatia, non alieno da un calcolo diplomatico in funzione antifrancese. In effetti, all’entente cordiale tra Gran Bretagna e Francia durante gli anni Trenta, che aveva secondato il successo liberale in Belgio e nella penisola iberica, era successo un convulso intrecciarsi di contrasti di carattere geopolitico nel Vicino Oriente. Dal 1840, anno della crisi egiziana, nonostante qualche riavvicinamento (come in occasione della guerra di Crimea del 1853-56), il rapporto fra le due potenze fu improntato alla competizione riguardo all’influenza negli affari europei e in specie sul terreno della politica coloniale. La seconda metà dell’Ottocento, il cuore dell’età vittoriana, fu contrassegnata dal massimo fulgore della potenza e della civiltà britannica. All’interno, a una grande espansione demografica che portò a 31 milioni la popolazione inglese (parzialmente assorbita dall’emigrazione verso l’America e le colonie), corrispose uno sviluppo economico e una ristrutturazione burocratica (poteri locali, magistratura) di prim’ordine. L’Inghilterra non era solo il più ricco paese del mondo, ma anche il meglio amministrato e la più evoluta sede di ricerca scientifica e di dibattiti culturali, come dimostra il caso dello sviluppo delle teorie evoluzioniste di Charles Darwin. Imponente fu la crescita del potere dell’opinione pubblica attraverso i giornali, le associazioni e i gruppi d’interesse. Assunsero rilievo europeo la letteratura e la lingua inglesi. Di pari passo con l’aumento del peso delle istituzioni parlamentari nella determinazione della prassi e delle procedure della politica inglese, la classe dirigente andò sempre più prendendo un carattere “borghese”, testimoniato anche dall’estrazione sociale degli stessi maggiori leader parlamentari e di governo, come i conservatori Peel e Benjamin Disraeli (1804-1881) o il liberale William Gladstone (1809-1898). Nuove riforme tra il 1867 e il 1872 ampliarono le basi dell’elettorato (un ulteriore allargamento del suffragio si ebbe poi con la riforma del 1884), resero segreto il voto e migliorarono l’insegnamento primario. Nonostante il permanere di un’irrisolta e spinosa “questione irlandese”, l’insieme di questi e altri fattori trovò una sintesi nella creazione di un particolare spirito pubblico “vittoriano”, fatto di valori moralmente impregnati di puritanesimo (l’istruzione scolastica permaneva largamente fondata sulla religione) e di tendenza allo “splendido isolamento” rispetto alle questioni europee, di cui interessava solo il perdurante equilibrio, nonché di un coinvolgimento massimo nella vita dell’impero – arrivato all’apice a partire dalla prima metà del secolo con la colonizzazione dell’Australia e di parte del Sudafrica, con la penetrazione in Cina tramite la “guerra dell’oppio” (1839-42), ma soprattutto con la totale occupazione statale dell’India e l’esautoramento progressivo della Compagnia delle Indie, sciolta d’autorità nel 1858. Furono creati un esercito e un’amministrazione pubblica coloniali. Nel 1877 la regina Vittoria fu proclamata imperatrice dell’India. La funzione imperiale britannica divenne oggetto di una specifica ideologia, cui portarono in vario modo il loro contributo pensatori politici come Thomas Carlyle (1795-1881), economisti e storici come Robert Seeley (1834-95), e scrittori come Rudyard Kipling (1865-1936). Il caso del Canada, cui fu concesso un regime parlamentare e un governo autonomo nel 1840, dimostrò che gli inglesi avevano appreso la lezione della rivoluzione americana e pose le premesse per la trasformazione futura dell’impero in un Commonwealth.

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17. Tra imperialismi e prima guerra mondiale

Negli ultimi decenni dell’Ottocento proseguì la marcia dell’impero, fortemente sostenuta da Disraeli e da Joseph Chamberlain (1836-1914). Agli inizi del Novecento oltre 400 milioni di uomini, un quarto della popolazione mondiale, ne facevano parte. A Chamberlain, potente ministro per le Colonie dal 1895 al 1903, si dovettero gli impulsi determinanti in direzione della massima espansione e degli armamenti conseguenti (specie della marina militare che, a suo giudizio, avrebbe dovuto essere superiore a quelle unite delle due maggiori potenze navali dopo la Gran Bretagna), nonché della trasformazione graduale dei dominions nel Commonwealth. Nel Mediterraneo furono acquistati Cipro (1878) e l’Egitto (1882). L’occupazione delle aree libere in Africa fu perseguita con decisione, tanto che alla fine del secolo la Gran Bretagna poteva vantare un’ininterrotta serie di domini dall’Egitto al Sudafrica, che la mise sovente in conflitto con la Russia, la Francia e, più tardi, la Germania (imperialismo). I punti caldi per i quali si sfiorò una guerra aperta furono, negli anni Ottanta e Novanta, la zona di confine tra l’Afghanistan e l’India, sulla quale premeva l’espansionismo russo, e l’Africa nordorientale, in Egitto e nel Sudan. A Fascioda, nel Sudan meridionale, si ebbe nel 1898 un serio incidente tra forze armate francesi e inglesi che, per poco, non diede luogo a un conflitto aperto. L’occupazione del Sudafrica, preparata da Cecil Rhodes (1853-1902), fu all’origine della guerra boera (1899-1902) contro gli originari coloni olandesi. Benché vinta a carissimo prezzo dagli inglesi, ai boeri fu comunque lasciata l’autonomia amministrativa, trasformata nel 1910 in consociazione a una forma di dominio razzista nell’Unione Sudafricana. Proprio una velleitaria pronuncia dell’imperatore Guglielmo II a favore dei boeri fece peggiorare bruscamente le relazioni anglo-tedesche, già tese per il timore suscitato dal rapido sviluppo industriale e militare del Reich guglielmino. In particolare, furono da un lato il desiderio tedesco di acquistare un ricco impero coloniale a spese delle ambizioni francesi, dall’altro il progettato e realizzato piano di sviluppo di una possente marina da guerra basata sul nuovo tipo di nave corazzata (Dreadnought) e sui sottomarini, a spingere la Gran Bretagna su una posizione antitedesca e di recupero dell’entente cordiale (1904) con la Francia, vista ormai come potenza soccombente in un eventuale confronto con la Germania. La prima crisi marocchina (1905-1906) dimostrò la fondatezza di tali supposizioni e condusse il Regno Unito, sotto il nuovo sovrano Edoardo VII (1901-10), a stipulare tra il 1906 e il 1907 la Triplice Intesa con la Francia e la Russia. La penetrazione economico-militare tedesca nei Balcani e negli Stati dell’impero turco aveva infatti fornito a russi e inglesi un motivo di rappacificazione ad onta degli antichi contrasti. La seconda crisi marocchina (1911) provò la persistenza di una situazione esplosiva a causa dei contrastanti interessi imperialistici europei, ai quali si aggiunsero nel primo decennio del Novecento quelli non meno voraci del Giappone e degli Stati Uniti d’America. Ancora una volta, di fronte alla minaccia di guerra di David Lloyd George (1863-1945) se Gugliemo II non avesse ritirato la cannoniera Panther dal porto marocchino di Agadir (protettorato francese), l’imperatore tedesco dovette subire l’onta di una ritirata: fu però ormai chiaro che dallo scontro interimperialistico sarebbe prima o poi scaturito un immane ricorso alle armi. Sul piano interno, l’età vittoriana – contrassegnata da un graduale progresso quasi privo di conflitti sociali (salvo che per il problema irlandese) – trapassò in un’epoca intessuta di profonde inquietudini, che facevano presagire la fine del lungo periodo di sviluppo relativamente pacifico del capitalismo. Lo stesso impetuoso incremento demografico (da 31 a 46 milioni di abitanti nel quarantennio compreso tra il 1870 e il 1911) acuì le tensioni create dalla consapevolezza della concorrenza americana e tedesca sul piano industriale e commerciale. In molti settori la Gran Bretagna non godeva più del suo tradizionale primato, per quanto ciò non inficiasse ancora la sua superiorità economica complessiva a livello mondiale. La competizione interimperialistica imponeva anche al Regno Unito spese che si riflettevano nell’aumento dei fattori d’inflazione e nella diminuzione del tenore di vita popolare. Il movimento operaio inglese, superata l’apolitica inerzia sindacale, aveva fondato nel 1900 un nuovo partito, il Labour Party, che nelle elezioni del 1906, vinte dai liberali, ottenne 29 deputati. Sotto tale pressione, il ministero liberale di Herbert Asquith (1852-1928), caratterizzato dalla personalità del cancelliere dello Scacchiere Lloyd George, intraprese nel 1908 una decisa azione riformatrice in senso sociale (pensioni e sanità in primo luogo) e istituzionale, che portò alla definitiva limitazione del potere della Camera alta – che intendeva opporsi alle riforme – e al suggello del primato dei Comuni (Parliament Act del 1911). Nel frattempo a Edoardo VII era successo Giorgio V (1910-36). Tra il 1912 e il 1914 si cercò di dare soluzione al problema irlandese attraverso la predisposizione di un progetto che concedeva all’Irlanda una forma di autogoverno (Home rule), approvato nel 1913, che però scontentò in egual misura i nazionalisti cattolici e i protestanti inglesi dell’Ulster e, pertanto, non fu trasformato in legge. Profonde tensioni perduravano anche all’interno di vari dominions dell’impero, nei quali movimenti nazionalisti (specie in India, “la perla dell’impero”) mettevano in discussione la struttura del Commonwealth rivendicando la piena indipendenza. In tali condizioni l’attentato di Sarajevo (1914) fece precipitare l’annosa crisi balcanica nella prima guerra mondiale.

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18. Guerra e primo dopoguerra

Pur desiderosa di prolungare la neutralità, l’invasione tedesca del Belgio convinse la Gran Bretagna a intervenire il 4 agosto 1914 nella prima guerra mondiale. Essa non disponeva di un consistente esercito di leva (costituito nel 1916), ma riuscì in breve ad allestire un’armata che, insieme alla strenua resistenza francese sulla Marna, impedì ai tedeschi di realizzare con poche vittorie le previsioni del piano Schlieffen. Lungi dal concludersi rapidamente, lo scontro degenerò in un’interminabile guerra di trincea. Anche sul mare, nonostante la superiorità britannica, l’uso spregiudicato dei sottomarini (dai tedeschi esteso poi a oltranza anche contro mercantili neutrali, ciò che provocò l’intervento statunitense nel 1917) causò notevoli intralci sulle rotte commerciali. Ad Asquith, incolpato di scarsa intraprendenza, succedette nel 1916 il gabinetto di guerra di Lloyd George. Tuttavia le forze dell’Intesa, tra ritirate e avanzate, non sarebbero riuscite a prevalere sugli imperi centrali se nel 1917 non fossero intervenuti finanziariamente e militarmente gli Stati Uniti del presidente Woodrow Wilson. Fu dimostrata per la prima volta l’insostituibilità, nelle guerre contemporanee di lunga durata, di un retroterra industriale e finanziario vincente. Conclusa la guerra nel 1918, i trattati di Versailles del 1919 fecero però registrare ancora una volta il successo delle mire imperialistiche di Francia e Inghilterra, benché apparisse chiaro che gli Stati Uniti – economicamente ormai la prima potenza mondiale – si avviavano a diventarlo anche sul piano militare e politico. Alla Gran Bretagna fu riconosciuto, sotto forma di mandato o protettorato, un altro vasto impero in Medio Oriente, che saldò i possedimenti del subcontinente indiano e dell’Estremo Oriente asiatico a quelli africani. Il gigante aveva però i piedi d’argilla, considerato l’infittirsi dei movimenti nazionalisti e indipendentisti in India e nei paesi arabi, la persistenza della questione irlandese, nonché le condizioni di estremo dissesto del Regno Unito al termine delle operazioni belliche. La disoccupazione crebbe negli anni Venti da uno a tre milioni. Le istituzioni liberali, collaudate da due secoli di continui miglioramenti e dall’introduzione del suffragio universale maschile nel 1918 e femminile nel 1928, ressero alle agitazioni sociali degli anni postbellici. Nel 1924 e nel 1929 sopportarono anche l’ingresso in coalizioni di governo del Partito laburista (che gradatamente soppiantò il liberale come secondo partito). Nel corso della grande crisi del 1929, seguendo l’impostazione dell’economista John Maynard Keynes, maturò il distacco dalla tradizione liberista in favore di misure di pianificazione economica, l’abbandono della parità aurea e la svalutazione della sterlina, ciò che favorì un rilancio delle merci inglesi. Dopo la conferenza imperiale di Ottawa (1932) e l’introduzione di nuove misure finanziarie e monetarie, sotto il gabinetto conservatore di Stanley Baldwin (1867-1947) e Neville Chamberlain (1869-1940), la crisi venne gradatamente superata, anche se restarono oltre un milione e mezzo di disoccupati. In politica estera la Gran Bretagna fu costretta nel periodo tra le due guerre mondiali a un atteggiamento più rinunciatario. Dopo vicissitudini politiche e scontri armati fu giocoforza riconoscere, col Government of Ireland Act del 1920, lo stato libero d’Irlanda (proclamato nel 1921), mantenendo sotto il Regno Unito solo l’Ulster. La Società delle Nazioni, sotto la decisiva influenza inglese, non si dimostrò nei fatti capace di gestire in modo soddisfacente e pacifico un nuovo equilibrio europeo, profondamente turbato dall’emarginazione della Russia bolscevica e della Germania sconfitta, né di ostacolare le iniziative contrastanti col suo statuto, come la conquista dell’Etiopia da parte dell’Italia fascista nel 1935-36. La trasformazione dell’impero in Commonwealth of Nations (Statuto di Westminster, 1931), con l’instaurazione di un rapporto più paritario e dell’autogoverno locale negli antichi dominions, non sortì come effetto la completa pacificazione in quei paesi che ormai anelavano alla piena indipendenza. L’ascesa di Hitler al potere nel 1933 inserì una nuova e più forte variabile indipendente nell’agitata politica europea, provocando un’incertezza ancor più grande negli atteggiamenti britannici, che oscillarono tra appeasement e inconsistenti tentativi di contenimento diplomatico delle due potenze nazifasciste. L’Inghilterra si rivelò incapace di contrapporre alternative credibili al riarmo della Germania, all’occupazione della Renania (1936), all’intervento nazifascista in Spagna e, con Chamberlain, si rese corresponsabile dell’eliminazione della Cecoslovacchia sottoscrivendo il trattato di Monaco (1938). Sotto Giorgio VI (1936-52), successo a Edoardo VIII (1936), il Regno Unito dovette infine constatare l’insostenibilità della politica di appeasement per l’espansionismo hitleriano, che perciò nel 1939 fu abbandonata. Significativamente fu istituito il servizio militare obbligatorio.

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19. La seconda guerra mondiale

L’invasione nazista della Polonia, a cui fece seguito l’ultimatum anglo-francese e la dichiarazione di guerra del 3 settembre 1939, diede inizio alla seconda guerra mondiale. In realtà non vi furono operazioni belliche sul fronte occidentale (drôle de guerre) fino al maggio 1940. Con la repentina sconfitta e l’invasione della Francia, frutto della nuova concezione della “guerra-lampo”, il corpo di spedizione inglese dovette essere precipitosamente rimpatriato. Al posto del debole Chamberlain subentrò nel maggio 1940 Winston Churchill (1874-1965), il più risoluto avversario di Hitler da Monaco in poi. Sotto la sua guida la Gran Bretagna, rimasta sola a opporsi militarmente alla Germania, contrastò efficacemente i piani d’invasione nazisti dell’isola, battendo nell’estate del 1940 l’aviazione tedesca nel corso della “battaglia d’Inghilterra”. La Germania, padrona ormai di quasi tutto il continente europeo, intensificò la guerra marina e sottomarina nell’Atlantico e nel Mare del Nord, senza risultati decisivi da entrambe le parti. La svolta vi fu con il passaggio dell’Unione Sovietica nel campo delle potenze antihitleriane e con l’ingresso nel conflitto degli Stati Uniti d’America (1941), i quali peraltro erano già passati con Franklin Delano Roosevelt dalla neutralità al sostegno “non belligerante” dell’Inghilterra con la legge “affitti e prestiti” e l’approvazione della Carta atlantica dello stesso anno. In Estremo Oriente furono soprattutto gli americani a contrapporsi al Giappone, che aveva di fatto liquidato gran parte dell’impero britannico. In Africa, dove i britannici avevano già sconfitto gli italiani in Etiopia nella primavera del 1941, ma avevano dovuto arretrare dietro la pressione dell’Afrikakorps di Erwin Rommel, le truppe angloamericane ripresero l’offensiva, che culminò nella vittoria di el Alamein (1942). Ne conseguì la liberazione di tutto il Nordafrica nella primavera 1943 e l’apprestamento delle condizioni per l’apertura di nuovi fronti in Sicilia, in Grecia, nell’Italia meridionale. Infine, mentre la Germania era messa alle strette dall’Armata Rossa, che dopo la vittoria di Stalingrado (1942) era all’attacco su tutto il fronte orientale, nella primavera 1944, in Normandia, fu realizzata l’invasione decisiva della “fortezza Europa”, preceduta e seguita da terrificanti bombardamenti sulle città della Germania per fiaccarne la resistenza. La Gran Bretagna, con Churchill, fu presente alle conferenze di Teheran (1943) e di Jalta (1945) con gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, dove fu stabilita la strategia che condusse alla resa incondizionata della Germania nel 1945 e alla divisione del mondo in nuove zone d’influenza.

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20. Il secondo dopoguerra tra laburisti e conservatori

Un Regno Unito vittorioso, ma economicamente prostrato, formalmente in possesso del rango di grande potenza, ma sostanzialmente in subordine rispetto alle due “superpotenze” USA e URSS, entrambe in possesso dell’arma atomica, affrontò il secondo dopoguerra licenziando lo statista della vittoria e il partito conservatore. Dal 1945 al 1951 i laburisti guidati da Clement Attlee (1883-1967) detennero il potere, avviando una politica rivolta alla riconversione industriale (con nazionalizzazioni nei settori dell’energia e dell’industria pesante), al rientro dall’indebitamento e dall’inflazione (grazie alla svalutazione della sterlina e a una severa politica fiscale, ma anche all’aiuto americano), allo sviluppo dello stato sociale (assicurazioni, servizio sanitario, pensioni, ecc.). In politica estera la Gran Bretagna si attenne da un lato a un marcato filoatlantismo, dall’altro a un certo distacco dalle questioni europee. Il complesso problema della decolonizzazione fu impostato in generale con la trasformazione del Commonwealth in associazione di stati sovrani (1948), ma col mantenimento di questioni ancora irrisolte (Irlanda, Cipro, Medio Oriente, Sudafrica) destinate a rivelarsi tra i problemi più spinosi. Nel 1949 l’Irlanda si staccò definitivamente dal Commonwealth. Nel 1952 salì al trono la regina Elisabetta II. Negli anni Cinquanta, nel contesto della guerra fredda, ritornarono al potere i conservatori (1951-64), dapprima con Churchill fino al 1955, quindi con il ministero di Anthony Eden fino alla sua caduta nel 1957 per lo smacco subito dalle forze d’invasione franco-inglesi dopo la crisi di Suez del 1956, infine con Harold Macmillan. La politica dei conservatori, tesa al ripristino di condizioni liberiste (riprivatizzazione dell’industria siderurgica nel 1953) e al mantenimento dell’influenza in Medio Oriente, ottenne scarsi risultati (proclamazione della repubblica a Cipro nel 1960, perdita di influenza strategica in Medio Oriente). Ciò nonostante si produsse anche in Inghilterra, come in altri paesi del Patto Atlantico e beneficiari del Piano Marshall, un boom economico che condusse all’innalzamento della produzione e dei consumi, ma anche, e ben presto, a problemi inflattivi e di bilancio. Nel 1964 vinsero le elezioni i laburisti di Harold Wilson, che si prefisse, nei sei anni in cui restò al potere, lo scopo di difendere le conquiste dello stato sociale pur ponendosi responsabilmente di fronte ai problemi del deficit della bilancia dei pagamenti e del bilancio, del controllo dell’inflazione, della necessità di ricorrere a nuove svalutazioni. Nello stesso periodo maturò anche la decisione di entrare a far parte del Mercato Comune Europeo, realizzata poi ufficialmente nel 1973 sotto il governo conservatore di Edward Heath (rimasto in carica dal 1970 al 1974) con l’adesione al trattato istitutivo della CEE. Un referendum popolare confermò nel 1975 la scelta governativa.

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21. Gli anni Settanta: crisi socioeconomica e terrorismo nell’Ulster

Negli anni Settanta conservatori e laburisti avvicendatisi al potere – vi furono ancora gabinetti laburisti con Wilson (1974-76) e con James Callaghan fino al 1979 – si trovarono alle prese con due questioni della massima importanza. Da un lato la crisi petrolifera e monetaria, che a partire dal 1972 aggravò tutte le difficoltà correnti del paese, generando un forte aumento della disoccupazione e della conflittualità sociale sotto il governo conservatore Heath. Il ricambio con i laburisti consentì l’introduzione di un “patto sociale” coi sindacati e la realizzazione di una politica dei redditi che, nonostante taluni risultati positivi come la relativa crescita salariale e il mantenimento dei servizi sociali essenziali, comportò necessarie misure restrittive per far fronte ai crolli monetari, alle tensioni inflattive, alla crescita dell’indebitamento pubblico e con l’estero. Nel 1979, in una situazione di mancato rinnovo del patto e di un riacutizzarsi delle lotte sociali, vinsero le elezioni i conservatori, che dal 1975 avevano eletto Margaret Thatcher alla presidenza del partito. Dall’altro lato, a partire dal 1968, scoppiò nell’Ulster una vera e propria guerra civile tra i cattolici desiderosi di ottenere l’indipendenza per aggregarsi alla repubblica dell’EIRE e i protestanti decisi a difendere anche con la violenza la loro collocazione nel Regno Unito. L’intervento dell’esercito inglese, lungi dal risolvere il conflitto, ne cronicizzò la trasformazione in guerriglia terroristica, condotta dall’IRA (Irish Republican Army) con un sistematico ricorso ad attentati sanguinosi su obiettivi militari e civili. La visita della regina Elisabetta nell’Ulster (1977) coincise con una nuova fiammata di violenza. Negli stessi anni riprese forza anche il nazionalismo scozzese (e gallese) mirante all’ottenimento di una maggiore autonomia (conseguita con i referendum del 1997) e, di fatto, anche a una maggior partecipazione ai proventi del petrolio del Mare del Nord.

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22. Dalla Thatcher alla fine dell'era Blair

Se gli anni Settanta furono caratterizzati dall’oscillazione tra linee contrastanti e compromissorie di fronte alle crisi socioeconomiche e politiche, gli anni Ottanta furono viceversa dominati dall’affermarsi di un’unica dinamica direzione politica e di governo, coerente nella sua unilateralità conservatrice: quella esercitata per oltre un decennio, dal 1979 e per tre rinnovati mandati parlamentari, dalla signora Thatcher, che nelle elezioni del 1983 ottenne la quota più alta mai raggiunta dal partito nel secondo dopoguerra. Lo stile duro della “lady di ferro” e il carattere energicamente neoliberista e monetarista della sua politica economica portarono a duri scontri con le più forti categorie operaie dando luogo a scioperi a oltranza (famoso quello dei minatori tra il 1984 e il 1985), invariabilmente terminati con la sconfitta dei lavoratori. Il “thatcherismo” (coincidente negli stessi anni col “reaganismo” negli USA), oggetto di emulazione e di studi, è consistito nella risposta alle irrisolte crisi monetarie, energetiche, di ristrutturazione industriale e finanziaria, da una parte tramite la riprivatizzazione dell’economia pubblica, draconiane misure antideficit e la deregulation, dall’altra attraverso lo smantellamento dello stato sociale e quindi la drastica diminuzione della spesa pubblica. I risultati in termini di risanamento finanziario non si sono fatti attendere, accompagnati però dall’aumento vertiginoso della disoccupazione, da un diffuso malessere sociale e dal privilegiamento di una ristretta classe di ricchi e benestanti vecchi e nuovi. In politica estera, il thatcherismo coincise con un maggior dinamismo diplomatico-militare, teso a riproporre l’immagine di “grande potenza” della Gran Bretagna, o quanto meno a difenderne il ruolo anacronistico e l’influenza con persistenti interessi coloniali e imperiali. Lo si è visto soprattutto nel 1982, nel corso della guerra vittoriosa delle Falkland contro l’Argentina, come pure nell’allineamento con le direttive statunitensi nell’ambito del mantenimento dell’ordine internazionale nei punti caldi del pianeta (Libano, Iraq). Viceversa, nello scacchiere europeo e dell’evoluzione della CEE verso un grado sempre più alto d’integrazione monetaria e federale, il thatcherismo svolse una funzione di freno, diffidente verso l’asse franco-tedesco, verso gli adempimenti in materia economico-sociale e gli oneri finanziari (reazioni negative al trattato di Maastricht, ratificato però dal parlamento). Tale approccio, per quanto attenuato dal successore della Thatcher, il conservatore John Major, diede tuttavia espressione a una tendenza di fondo dell’atteggiamento inglese nei riguardi della Comunità e poi dell’Unione europea. Sullo scorcio degli anni Novanta la Gran Bretagna conservava – con le caratteristiche storiche di patria del costituzionalismo liberale, della civiltà giuridica fondata sulla libertà individuale – un’incertezza di fondo sulla posizione da assumere sul piano internazionale tra un rapporto privilegiato con i paesi del Commonwealth e con gli Stati Uniti e la coesione europea. Le elezioni del 1997 videro una forte vittoria del Partito laburista, guidato da Tony Blair, il quale, divenuto nel 1994 leader del partito, condusse la campagna elettorale sotto lo slogan del New Labour, ovvero di un laburismo orientato in senso moderato. Suo obiettivo principale fu quello di conquistare parte essenziale del centro politico, coniugando individualismo, iniziativa economica e solidarietà sociale: quest’ultima, però, basata non più sul sostegno indiscriminato agli strati sociali più deboli, ma sull’incremento delle opportunità di lavoro. Nel 1997 la Gran Bretagna restituì Hong Kong alla Cina, e nel 1998 il governo prese decisive misure al fine di riportare una situazione di normalità nell’Irlanda del Nord, sulla base dell’autonomia della regione e della formazione di un parlamento. Importanti riforme all’interno del Regno Unito furono introdotte nel 1999. La prima, riguardante la Camera dei Lord, stabilì un drastico cambiamento nella sua composizione, con l’introduzione di 50 seggi riservati a membri non ereditari eletti a vita in previsione della formazione di un nuovo tipo di Camera. La seconda introdusse un ordinamento federale con la creazione di Parlamenti autonomi in Scozia e nel Galles, dotati di ampi poteri, entrambi a maggioranza laburista. In politica estera la Gran Bretagna si impegnò attivamente nell’ambito delle operazioni NATO del 1999 contro la Iugoslavia. Le elezioni politiche del 2001 videro nuovamente il successo del Partito laburista di Blair. Nello stesso anno, nel quadro di un permamente scetticismo nei confronti del processo di integrazione europea, il governo laburista non adottò la moneta unica europea. Dopo gli attentati terroristici dell’11.9.2001, la Gran Bretagna riconfermò la stretta alleanza militare con gli USA, partecipando direttamente all’intervento internazionale in Afghanistan. Per quanto appoggiata dai conservatori, la campagna antiterroristica di Blair suscitò all’interno del suo stesso partito forti critiche cui si aggiunse un crescente malcontento da parte dell’opinione pubblica per via della debole crescita economica. Fu però soprattutto il coinvolgimento nella seconda guerra del Golfo nel 2003 a minare a fondo la popolarità di Blair, il quale, nonostante le grandi proteste di massa, le dimissioni di alcuni ministri e l’opposizione di una parte consistente degli stessi labursiti, decise comunque di seguire la linea intransigente adottata da Bush e di invadere l’Iraq accusato di nascondere armi di distruzione di massa. Nelle successive elezioni generali del 2005, pur registrando una sensibile riduzione dei propri consensi, i laburisti riuscirono nuovamente ad affermarsi e lo stesso Blair fu riconfermato per la terza volta consecutiva a capo del governo. Il protrarsi della crisi irachena e la crescente impopolarità lo costrinsero però nel giugno del 2007 a dimettersi e a lasciare l’incarico di primo ministro al suo compagno di partito Gordon Brown. A quest’ultimo toccò affrontare la grave crisi finanziaria che nel 2009 investì l’economia britannica e alcuni scandali che coinvolsero direttamente alcuni esponenti del partito. Nelle successive elezioni del 2010, il partito laburista subì una pesante sconfitta, mentre quello conservatore, divenuto la prima forza politica del paese, formò, sotto la guida del suo leader, David Cameron, un governo di coalizione con il partito liberaldemocratico. Per far fronte al peggioramento della situazione economica, verso la fine del 2010 il nuovo governo varò un piano di drastica riduzione della spesa pubblica. Sul piano interno il gabinetto conservatore dovette affrontare lo scandalo suscitato dal settimanale News of the World del multimiliardario australiano Rupert Murdoch e lo scoppio di violenti disordini a carattere etnico in alcuni dei principali centri urbani, tra cui Londra, Birmingham e Bristol. Sul piano internazionale, nel 2011 Cameron affrontò energicamente la crisi libica, assumendo insieme al presidente francese Nicolas Sarkozy un ruolo di primo piano nella guida della coalizione internazionale che intervenne militarmente contro il regime del colonnello Gheddafi.
La principale sfida affrontata dal governo Cameron nel biennio 2011-12 coincise tuttavia con la crisi economica dell’eurozona, innescata nel 2009 dal collasso finanziario della Grecia. Già impegnato a ridurre la disoccupazione e a rilanciare un’economia stagnante, Cameron fu poi oggetto di polemiche allorché, nel dicembre 2011, si oppose all’eventualità di introdurre alcune modifiche al Trattato di Lisbona in vista di una maggiore integrazione tra i paesi dell’eurozona.

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