Perù

Stato attuale dell’America meridionale.

  1. La conquista e l’età coloniale
  2. L’indipendenza
  3. Il XX secolo
1. La conquista e l’età coloniale

Sede di importanti civiltà precolombiane come quella dei chavín, dei chimú e dei nazca, venne conquistato nella prima metà del XV secolo dagli inca, una popolazione di lingua quechua stabilitasi attorno a Cuzco nel XII secolo. Essi fondarono un impero che nel 1525, anno della morte del grande condottiero Huayna Capac, si estendeva sul Perú, sull’Ecuador e su parte della Bolivia, della Colombia, del Cile e dell’Argentina. Al tempo della scoperta da parte degli spagnoli, l’impero inca usciva da una sanguinosa guerra interna tra i figli ed eredi di Huayna, Huascár e Atahualpa, conclusasi con la vittoria di quest’ultimo. La conquista del Perú ebbe inizio nel 1532, quando Francisco Pizarro, partito da Panamá con un esercito di 180 uomini e 27 cavalli, raggiunse la baia di San Miguel e iniziò la marcia verso Cuzco, capitale dell’impero inca. A Cajamarca Pizarro incontrò e fece prigioniero l’inca Atahualpa, per la cui liberazione chiese una enorme quantità di oro e di argento; ottenutala accusò Atahualpa di tradimento e lo fece giustiziare nel 1533. Entrato nel novembre in Cuzco, che si arrese agli spagnoli senza opporre resistenza, pose sul trono Manco Capac II, un altro figlio di Huayna, e, dietro la copertura della sua legittimità, si adoperò per consolidare il proprio dominio. Una tardiva ribellione degli indios, guidati dallo stesso Manco, contro le violenze dei conquistadores infuriò tra il 1536 e il 1537, ma venne infine sedata e sopravvisse, sotto forma di guerriglia organizzata dalle zone dell’interno, fino alla cattura e all’esecuzione di Tupac Amaru (1572), l’ultimo inca, che divenne in seguito il simbolo della resistenza alla dominazione coloniale. I primi anni dopo la conquista furono caratterizzati dalle rivalità sorte tra i condottieri spagnoli per la divisione delle spoglie. Una guerra civile, scoppiata tra Pizarro e Diego de Almagro, di ritorno da una disastrosa spedizione in Cile, si concluse nel 1538 con la cattura e l’uccisione di quest’ultimo. I suoi seguaci, tuttavia, riuscirono con un complotto ad assassinare Pizarro nel 1541. Le lotte fra sostenitori dell’uno e dell’altro proseguirono per circa un ventennio, complicate dal tentativo da parte della Corona di fare applicare le cosiddette Nuove Leggi (1542-43) contro gli abusi dell’encomienda, rifiutate dai conquistatori. L’ordine venne infine ristabilito con l’arrivo del viceré Francisco de Toledo (1569-81), il quale dotò il viceregno della Nuova Castiglia (così venne chiamata la colonia che comprendeva tutta l’America meridionale tranne il Venezuela e il Brasile portoghese) di strutture politico-amministrative simili a quelle del resto dell’impero spagnolo. La scoperta delle miniere di argento e di mercurio, e poi anche di rame e di ferro, fecero del Perú la più sviluppata e ricca area del continente sudamericano e della sua capitale, Lima, un centro intellettuale e artistico di forte richiamo. Il suo splendore poggiava però sullo sfruttamento sistematico delle risorse del paese a vantaggio di una ristretta oligarchia di dominatori bianchi (spagnoli e creoli) contrapposta alla massa della popolazione india, ridotta allo stato servile. Il declino del Perú iniziò verso la fine del XVII secolo col progressivo esaurimento dei giacimenti minerari, la drastica riduzione della popolazione decimata dal lavoro forzato e dalle malattie (che rese necessaria l’importazione di schiavi africani) e l’intensificarsi del contrabbando che sfidava il monopolio commerciale spagnolo. Ma la sua potenza risultò definitivamente ridimensionata con il riassetto amministrativo dell’impero intrapreso dai Borbone nel XVIII secolo per rendere più efficace il controllo della madrepatria sulle colonie. La ridefinizione delle strutture giurisdizionali privò infatti il Perú dei territori settentrionali (Colombia, Ecuador e Panamá) che andarono a formare il viceregno di Nuova Granada (1717), di quelli sudorientali (corrispondenti agli attuali Bolivia, Argentina, Paraguay e Uruguay) riunificati nel viceregno del Río de la Plata (1776) e, infine, del Cile cui venne concessa l’autonomia (1778). La perdita di importanti aree minerarie e le misure di liberalizzazione del commercio, che tolsero a Lima il monopolio del traffico con la Spagna, ebbero importanti conseguenze sugli equilibri interni. Diminuì infatti il peso dell’aristocrazia mercantile urbana a vantaggio dei grandi proprietari terrieri (hacienderos), che costituirono da allora il nucleo più forte dell’oligarchia dominante. Segno ulteriore di profonda trasformazione dei rapporti sociali furono le sollevazioni contro le autorità spagnole di indiani e meticci, culminate nella rivolta di José Gabriel Tupac Amaru II (1780-81).

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2. L’indipendenza

L’indipendenza del Perú fu non tanto il risultato di un processo rivoluzionario interno quanto un episodio della guerra di liberazione dell’Argentina contro la dominazione spagnola. Essa fu proclamata nel 1821, dopo l’ingresso di José de San Martín in Lima e la fuga del viceré verso l’interno, e divenne definitiva dopo le vittorie di Simón Bolívar e Antonio de Sucre sugli eserciti imperiali a Junín e ad Ayacucho (1824). Fin dagli inizi, la vita politica del nuovo stato fu caratterizzata da una netta preponderanza delle gerarchie militari. Bolívar rimase in Perú fino al 1826. Alla sua partenza, prese il potere il generale Andrés de Santa Cruz. Questi tentò nel 1836 di porsi a capo di una confederazione tra il Perú e la Bolivia scatenando una guerra col Cile il quale, vincitore nella battaglia di Yungay (1839), ristabilì l’indipendenza dei due stati. Seguì un periodo di disordini, cui pose termine il generale meticcio Ramón Castilla che dominò incontrastato dal 1845 al 1862. Sotto la sua dittatura il paese conobbe un periodo di stabilità e di progresso economico, favorito dallo sfruttamento dei ricchi giacimenti di guano; vennero inoltre aboliti la schiavitù e il pagamento di tributi da parte degli indiani. Nel 1863 scoppiò un conflitto con la Spagna che, nel tentativo di riprendere il controllo del Perú, occupò l’isola di Chinca. Ciò provocò una guerra navale protrattasi fino al 1871, nella quale il Perú ottenne l’appoggio di Bolivia, Ecuador e Cile. La situazione interna era andata nel frattempo peggiorando per l’insorgere di gravi problemi economici, dovuti alla fine del ciclo del guano. Manuel Pardo (1872-76), primo presidente civile del Perú, tentò di fronteggiare la crisi finanziaria attraverso una drastica riduzione della spesa pubblica, ma la sua azione di risanamento fu interrotta dalla guerra del Pacifico (1879-83) tra Cile e Bolivia per il possesso dei depositi di nitrati del deserto di Atacama, nella quale il Perú si trovò coinvolto in virtù di un trattato di alleanza firmato nel 1873 con la Bolivia. La guerra ebbe esiti disastrosi per il Perú che, con il trattato di Ancón, dovette cedere al Cile la provincia di Tarapacá in via definitiva e le province costiere di Tacna e Arica per un periodo di dieci anni, scaduto il quale un plebiscito avrebbe deciso del loro futuro. Il plebiscito non fu mai tenuto e la controversia si trascinò fino al 1929, quando si raggiunse un accordo che restituì Tacna al Perú lasciando Arica al Cile. Gli anni del dopoguerra furono decisivi per la storia del Perú. La ricostruzione avvenne mediante il ricorso al capitale estero, che acquistò una grande influenza sulle vicende interne del paese, e si delineò un modello di sviluppo di tipo neocoloniale, destinato ad aggravare ulteriormente gli squilibri territoriali, etnici e sociali.

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3. Il XX secolo

Sotto la presidenza di Augusto B. Leguía y Salcedo (1908-1912; 1919-30), un conservatore con tendenze populistiche, il paese conobbe una fase di modernizzazione e di espansione economica, basata essenzialmente sui massicci prestiti del governo degli USA e sull’afflusso di capitali nordamericani. Fautore di un ambiguo progetto di rinnovamento nazionale denominato “Patria Nueva”, Leguía impose una dittatura oppressiva contro la quale si sviluppò, a partire dagli anni Venti, un movimento di opposizione che ebbe una grande influenza in tutta l’America Latina. Leader di questo movimento fu Victor Raúl Haya de la Torre il quale, esiliato nel 1920, fondò nel 1924 in Messico l’Alleanza popolare rivoluzionaria americana (APRA), con una programma di riforme sociali e di lotta all’imperialismo nordamericano. Sebbene fuori legge, l’APRA mise salde radici tra gli intellettuali, i ceti medi progressisti e i lavoratori delle zone coinvolte nel processo di modernizzazione, e mantenne la sua influenza anche durante la dittatura militare che seguì alla caduta di Leguía, nel pieno della crisi economica indotta dalla crisi mondiale del 1929. Con la presidenza del conservatore moderato Manuel Prado Ugarteche (1939-45), che schierò il Perú a fianco degli Alleati durante la seconda guerra mondiale, si crearono le premesse per l’inserimento dell’APRA, avvicinatasi agli Stati Uniti in nome della comune lotta antifascista, nel sistema politico. Nel 1945 il movimento aderì a un vasto fronte democratico assicurando la vittoria del liberale José Luis Bustamante sul candidato delle forze conservatrici. Nel nuovo governo gli apristi ottennero posti influenti, ma le loro proposte di riforma incontrarono l’opposizione congiunta della finanza e dei militari, i quali nel 1948 con un colpo di stato portarono al potere il generale Manuel Odría. Alle elezioni del 1956 l’APRA, perseguitata e costretta alla clandestinità sotto il regime di Odría, sostenne la ricandidatura del moderato Prado, provocando una scissione alla sua sinistra e la formazione del Partito di Azione popolare (AP), guidato da Fernando Belaúnde Terry. Prado ristabilì le regole democratiche, avviò una parziale riforma agraria e tentò di migliorare le condizioni di vita degli strati meno privilegiati. Ma le difficoltà economiche, aggravate da due violenti terremoti, imposero al governo una politica di austerità, che suscitò violente agitazioni tra i contadini e i minatori, in un quadro di crescente radicalizzazione della lotta politica. Nel 1962, un ennesimo colpo militare bloccò l’elezione di Haya de la Torre. Gli Stati Uniti reagirono minacciando la rottura della relazioni diplomatiche e la sospensione degli aiuti economici. Nuove elezioni indette nel 1963 portarono alla presidenza Belaúnde Terry, il quale dovette fronteggiare l’opposizione congiunta della sinistra marxista e quella degli apristi approdati ormai su posizioni decisamente conservatrici. La sua azione fu resa più difficile dalla nascita di focolai di guerriglia nella sierra, guidati da ex membri dell’APRA e da esponenti della Sinistra rivoluzionaria (IR). La firma da parte di Belaúnde di un accordo con una grande società petrolifera statunitense (IPC) fece precipitare la situazione. Nel 1968 un’ala dell’esercito, ispirata a un nazionalismo antimperialistico con forti connotazioni di riformismo sociale, sciolse il Congresso e formò una giunta militare guidata dal generale Juan Velasco Alvarado. Questi impresse al regime una svolta rivoluzionaria. Nel giro di pochi anni vennero nazionalizzate l’industria petrolifera e quella mineraria; fu varata la riforma agraria; vennero adottate misure per la protezione e i diritti dei lavoratori. In politica estera, ciò provocò una crescente tensione con gli Stati Uniti e un avvicinamento all’URSS e al campo socialista. Il peggioramento della situazione economica e il carattere autoritario del regime finirono col provocare gravi tensioni nel paese. Nel 1975 Velasco venne destituito e al suo posto fu nominato il generale Francisco Morales Bermúdez, il quale avviò un processo di graduale liberalizzazione. Nel 1978 si tennero le elezioni per l’assemblea costituente e l’APRA ottenne la maggioranza relativa. La nuova costituzione di stampo liberale, approvata nel 1979, segnò la fine del “socialismo dei militari”. Alle elezioni generali del 1980, le prime dopo il 1963, tornò al potere Belaúnde Terry, capo di una coalizione conservatrice che tentò senza successo di fronteggiare la grave situazione economica del paese, in un clima di forti tensioni sociali e di ripresa della guerriglia alimentata dal movimento rivoluzionario “Sendero Luminoso”. In queste condizioni maturò la grande vittoria conseguita nelle elezioni presidenziali del 1985 dal leader dell’APRA, Alán García Pérez, che era riuscito attraverso un’opera di radicale rinnovamento a portare il proprio partito su posizioni di tipo socialdemocratico. García tentò di avviare un nuovo corso riformistico, che andò incontro al completo fallimento sia sul piano economico sia su quello della pacificazione interna. Osteggiato dagli ambienti finanziari per le misure di politica economica, guardato con diffidenza dalla sinistra marxista, che gli rifiutò l’appoggio, esposto agli attacchi sempre più violenti di Sendero Luminoso, per fronteggiare il quale dovette ricorrere all’occupazione militare di numerose province, García finì col cedere alle pressioni delle destre e accettò alla fine del 1988 un piano di austerità di chiara impostazione liberistica, dettato dal FMI, capovolgendo il suo iniziale programma. Nel 1990, in un clima di forte tensione, si tennero le elezioni presidenziali. A sorpresa vinse il candidato di un movimento di recente formazione, “Cambio ’90”, Alberto Fujimori, di origine giapponese, che superò al ballottaggio lo scrittore Mario Vargas Llosa, grande favorito della vigilia, appoggiato da una vasta coalizione di centrodestra. Fujimori, trovatosi a fronteggiare una pesantissima crisi economica, finanziaria e sociale, aggravata da un’epidemia di colera scoppiata nel 1991, vide rapidamente diminuire la sua base di consenso. Questa situazione favorì due tentativi golpisti, sventati dalle truppe fedeli al presidente nel 1992 e nel 1993. Rilevanti successi ottenne, invece, il governo nella lotta contro la guerriglia con la cattura del leader di Sendero Luminoso, Abimael Guzmán Renoso nel settembre del 1992, e di esponenti di primo piano dei Tupamaros nel 1993. La lotta contro la guerriglia venne condotta da Fujimori con mezzi estremi. Nel 1992 egli fece sciogliere il Parlamento e proclamò la legge marziale; lo stato di legalità fu però ripristinato l’anno seguente. I successi della lotta contro la guerriglia e i terroristi furono rilevanti e nel 1999 questi poterono considerarsi sconfitti, specie dopo la cruenta liberazione nel 1997 di centinaia di prigionieri tenuti in ostaggio da un gruppo terroristico nell’ambasciata giapponese. In campo economico il governo si attenne a una politica neoliberistica, riportando straordinari successi. Nel 1995 Fujimori ottenne una seconda rielezione con un vasto consenso. Un trattato firmato nel 1998 con l’Ecuador pose fine a un contrasto cinquantennale sui confini. Nel 1998-99 Fujimori si trovò ad affrontare una difficile situazione interna, creata sia dalle accuse di corruzione sia dalla sua volontà di farsi rieleggere per la terza volta, emendando la costituzione che non lo consentiva. In un contesto di aspre contestazioni egli fu rieletto nel 2000, ma l’emergere di numerosi scandali e lo sviluppo di grandi manifestazioni popolari costrinsero Fujimori alle dimissioni e alla fuga in Giappone. Si costituì un governo di transizione e alle elezioni presidenziali del 2001 si affermò Alejandro Toledo. Nello stesso anno fu istituita una Commissione per la Verità e la Riconciliazione per stabilire l’estensione dei reati e degli abusi commessi tra il 1980 e il 2000. Nel 2005 Fujimori fece ritorno in Sudamerica col proposito di candidarsi per le elezioni presidenziali dell’anno successivo, ma fu estradato dalle autorità cilene e consegnato alla giustizia peruviana. Le elezioni presidenziali del 2006 registrarono il ritorno al potere di Alán García Pérez, che durante il suo mandato si impegnò energicamente nella lotta contro le diseguaglianze sociali e nel rilancio economico del paese attraverso la liberalizzazione di alcuni suoi settori strategici.

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