Nicaragua

Stato attuale dell’America centrale. Prima della colonizzazione europea, il paese era abitato dalle popolazioni amerindie dei chorotegas, emigrate dal Messico verso la penisola di Nicoya attorno all’XI secolo, dei nicarao, provenienti anch’essi dal nord e stabilitisi verso il XV secolo sul lago di Managua, dei chibca e dei mosquitos. Cristoforo Colombo, nel suo quarto e ultimo viaggio alla ricerca di un passaggio verso occidente, sbarcò a Capo Gracias nel 1502 ed esplorò la costa atlantica. La conquista del Nicaragua ebbe però inizio vent’anni più tardi con le spedizioni degli spagnoli Gil Gonzáles de Àvila, il quale da Panamá risalì la costa pacifica fino al lago Nicaragua (1522), e Francisco Hernández de Córdoba (1524), fondatore delle città di Granada e di León. Contesa tra diversi governatorati, la nuova colonia fu posta nel 1538 sotto la giurisdizione dell’audiencia del Panamá; nel 1543 passò sotto l’audiencia de los confines. Il periodo coloniale fu nel complesso relativamente pacifico, se si eccettuano periodici conflitti con la Gran Bretagna, alleatasi con le tribù dei mosquitos, per il controllo della costa orientale. Il Nicaragua conobbe un notevole sviluppo dell’agricoltura, reso possibile dall’abbondanza di manodopera indigena. La situazione mutò sensibilmente agli inizi dell’800. I primi moti indipendentistici scoppiarono a Granada nel 1811. Nel 1821, con il successo della rivoluzione messicana, il Nicaragua dichiarò la propria indipendenza dalla Spagna entrando a far parte dell’impero messicano di Itúrbide (1822-23). Caduto quest’ultimo, aderì alla Federazione dell’America Centrale e nel 1839, dissoltasi la Federazione, divenne una repubblica indipendente. La prima fase della storia del Nicaragua fu caratterizzata dalla lotta tra liberali e conservatori, un episodio della quale fu la breve dittatura di un avventuriero americano, William Walker (1856-57), chiamato in aiuto dai primi contro i secondi. A essa si aggiunsero la ribellione dei mosquitos, che videro nel nuovo stato una minaccia per la propria autonomia, e i conflitti con la Gran Bretagna, che occupò San Juan del Norte e stabilì il protettorato sulla Costa de Mosquitos (1848-60). Seguì un trentennio di dominio dei conservatori (1863-93), nel corso del quale il paese godette di una relativa stabilità. Ai conservatori succedettero i liberali con la presidenza di José Santos Zelaya (1893-1909), che riuscì per la prima volta a sottomettere i Mosquitos ponendo il loro territorio sotto la giurisdizione del Nicaragua. Zelaya, sostenitore di un’unione degli stati del Centro America, condusse una politica di intervento negli affari interni delle repubbliche vicine, entrando in conflitto con l’Honduras e con El Salvador. Il suo attivismo in politica estera e la sua ostilità verso gli Stati Uniti, la cui ingerenza negli affari interni del paese era andata crescendo anche in relazione alla possibilità di costruire in Nicaragua una via d’acqua interoceanica, furono determinanti nella caduta di Zelaya. Le sue dimissioni, imposte da una rivoluzione appoggiata da Washington, aprirono un periodo di guerra civile che fornì il pretesto per l’occupazione militare da parte americana (1912-33). Nel 1916 venne firmato il trattato Bryan-Chamorro, col quale gli Stati Uniti in cambio di 3 milioni di dollari acquistavano una base navale nella baia di Fonseca e il diritto di costruire un canale attraverso il Nicaragua. Nel 1926 scoppiò una nuova guerra civile guidata dai liberali contro la presidenza del conservatore Adolfo Díaz, uomo di paglia degli americani. Il compromesso tra le parti in lotta sul nome del liberale José María Moncada venne rifiutato dal generale Augusto César Sandino che continuò la guerriglia fino al ritiro delle truppe americane e all’elezione di Juan Bautista Sacasa (1933). Sandino, assassinato a tradimento l’anno successivo da agenti della guardia nazionale agli ordini del generale filoamericano Anastasio Somoza, divenne il simbolo della lotta dei popoli dell’America Latina contro l’imperialismo. Somoza, eletto presidente nel 1937, restò al potere quasi ininterrottamente per un ventennio, instaurando una dittatura personale che ebbe il proprio punto di forza nel controllo della “guardia nacional”, una milizia armata e organizzata dagli Stati Uniti fin dalla rivolta sandinista. L’assassinio di Somoza (1956) non mutò le caratteristiche del regime, che continuò a rimanere sotto il controllo diretto o indiretto della sua famiglia. Il clan dei Somoza e l’oligarchia dominante procedettero al saccheggio sistematico delle risorse del paese, all’interno del quale prese corpo un’opposizione che andò crescendo nel corso degli anni Settanta: da una parte stavano gli elementi più radicali organizzati nel Fronte sandinista di liberazione nazionale (FSLN), fondato nel 1962; dall’altra i moderati raccolti nella Unione democratica di liberazione (UDL). Nel 1974 il presidente Anastasio Somoza Debayle, figlio del dittatore assassinato, preoccupato dai successi del FSLN, proclamò lo stato di emergenza e diede inizio a una vasta azione repressiva, sostenuta dagli Stati Uniti, che si estese alle campagne con deportazioni in massa della popolazione. Il risultato fu il rafforzamento dell’opposizione sandinista tra le masse popolari e l’acquisizione di nuovi consensi al movimento di resistenza al regime tra gli strati borghesi e nella chiesa cattolica. La situazione precipitò nel gennaio del 1978 con l’assassinio del leader dell’UDL Pedro Joaquín Chamorro. La reazione fu enorme e portò alla proclamazione di uno sciopero generale che paralizzò il paese. Le divisioni tra moderati e rivoluzionari ridiedero fiato a Somoza Debayle, ma non impedirono che si arrivasse alla formazione di un fronte unitario delle opposizioni, all’interno del quale i sandinisti diventarono l’ala più forte. Alcuni tentativi compiuti dagli Stati Uniti per salvare il regime attraverso la formazione di governi di coalizione fallirono e si giunse alla guerra civile aperta, che si concluse nel luglio del 1979 con la vittoria dell’esercito sandinista sulla guardia nazionale e la fuga di Somoza all’estero. Una giunta per la ricostruzione nazionale, formata da rappresentanti delle principali forze di opposizione al vecchio regime, venne immediatamente costituita, ma il potere passò di fatto nelle mani dei sandinisti filocastristi, i quali avviarono un programma di riforme radicali suscitando la dura reazione degli Stati Uniti. Il nuovo presidente americano Reagan sospese gli aiuti economici al Nicaragua, accusandolo di appoggiare la guerriglia nel Salvador e, più in generale, di essere diventato uno strumento di Cuba e dell’URSS; al tempo stesso, prese ad aiutare sistematicamente la guerriglia antisandinista dei contras. Nel 1984 Daniel Ortega Saavedra, comandante del FSLN ed esponente dell’ala più radicale, fu eletto presidente col 63% dei voti e nel 1985 Reagan fece proclamare l’embargo contro il Nicaragua, con l’evidente intento di strangolare l’economia del paese. In un clima di crescente radicalizzazione dello scontro con i contras e con gli Stati Uniti, Ortega sospese le libertà civili e decretò lo stato di emergenza. La metà degli anni Ottanta vide un ulteriore inasprimento del confronto, fino a che la crisi economica, aggravata dalla massiccia fuga all’estero di una parte consistente della popolazione, non favorì l’adesione del governo al piano di pace per l’America Centrale, il cosiddetto “piano Arías”, dal nome del suo promotore, il presidente del Costa Rica Oscar Arías Sanchez: esso prevedeva lo smantellamento simmetrico dell’esercito di liberazione di ispirazione marxista contro il regime salvadoregno, avente le proprie basi in Nicaragua, e della guerriglia contras antisandinista finanziata dagli Stati Uniti avente le proprie basi nel Salvador; e libere elezioni nei due paesi coinvolti. Il piano non ebbe successo per le diffidenze reciproche delle parti in causa, ma nel frattempo nuove condizioni maturate a livello interno e internazionale posero le premesse per decisivi mutamenti. La situazione economica ormai vicina al collasso, il processo di distensione internazionale accompagnato dalla crisi del comunismo mondiale e dal crescente isolamento di Cuba e alcuni successi sul piano diplomatico indussero infatti Ortega ad accettare libere elezioni sotto il controllo internazionale. Le elezioni presidenziali si tennero nel 1990 e videro la vittoria del candidato dell’Unione nazionale dell’opposizione antisandinista Violeta Barríos Chamorro, vedova del leader conservatore assassinato nel 1978. Ortega accettò il responso e invitò i militanti sandinisti a fare altrettanto. La Chamorro si volse quindi a pacificare il paese e a tentare di risollevare le sorti di uno stato sconvolto da anni di guerra civile. Attraverso un’abile azione di mediazione, ottenne nel 1995 lo smantellamento della bande. Assai più difficile si rivelò invece l’azione di risanamento dell’economia. Le elezioni presidenziali del 1996 segnarono il successo del candidato dell’Alleanza liberale, Arnoldo Alemán Lacayo, che mise in atto una politica favorevole al libero mercato e di buoni rapporti con gli USA. Nel 1998 il paese fu colpito dall’uragano Mitch, che provocò migliaia di morti e di senzatetto. Alle presidenziali del 2001 si affermò il conservatore Enrique Bolaños Geyer del Partito liberale costituzionalista (PLC). Nel 2004 l’Assemblea nazionale introdusse una serie di riforme volte a limitare i poteri del presidente. Nonostante l’opposizione di Bolaños, le riforme entrarono effettivamente in vigore nel 2007. In seguito alle elezioni del 2006, tornò al potere Ortega, il quale, riconfermato per un secondo mandato consecutivo nel 2011, si impegnò attivamente nella lotta contro la corruzione e la povertà. Negli anni seguenti il Nicaragua continuò a promuovere la stabilizzazione della regione, incrementando i rapporti di cooperazione con gli stati confinanti, aderendo all’accordo CAFTA-DR (2006) e ponendo termine ad alcune dispute territoriali con l’Honduras (2007) e con la Costa Rica (2009).