Cile

Stato attuale dell’America meridionale.

  1. L’epoca coloniale
  2. Dall’indipendenza alla repubblica oligarchica
  3. La repubblica oligarchica
  4. Il Cile da Alessandri ad Allende
  5. Dalla dittatura militare al ripristino della democrazia
1. L’epoca coloniale

Al momento della colonizzazione europea, il Cile era abitato dagli araucani, stabilitisi nella Gran Vallata centrale dopo aver assoggettato le tribù autoctone in epoca imprecisata. La conquista spagnola ebbe inizio nel 1540, allorché Pedro de Valdivia, inviato da Pizarro, mosse da Cuzco verso sud e fondò la città di Santiago (1541), primo insediamento europeo sul territorio cileno. Dieci anni più tardi Valdivia si spinse fino al fiume Bío-Bío, dove fondò Concepción che rimase per lungo tempo l’avamposto meridionale della Spagna, frenata nella sua espansione dalla indomita resistenza degli araucani ritiratisi a sud del Bío-Bío. Questi impegnarono le forze spagnole in guerre continue e riconobbero l’autorità della Spagna nel 1726, in cambio della rinuncia da parte di quest’ultima a occupare il loro territorio. Posto dapprima alle dipendenze del viceregno del Perú, il Cile divenne indipendente nel 1778, quando si trasformò in capitaneria generale. Scarsamente popolato, privo di risorse minerarie, continuamente in guerra contro gli indios, costituì una delle colonie più povere della Corona spagnola. Soltanto verso la fine del XVII secolo si ebbero un relativo incremento demografico, dovuto essenzialmente alla fusione tra indios ed europei, e un certo sviluppo dell’allevamento e della produzione cerealicola con la formazione, accanto a uno strato di piccoli coltivatori, di un’aristocrazia terriera e mercantile creola.

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2. Dall’indipendenza alla repubblica oligarchica

Le prime aspirazioni autonomistiche si manifestarono dopo l’invasione napoleonica della Spagna e il crollo della monarchia borbonica (1808). Nel 1810 il cabildo abierto di Santiago, formato da esponenti delle élites locali, destituì il governatore ed elesse una giunta, che manifestò tuttavia la sua lealtà al deposto re Ferdinando VII. Subito dopo spagnoli e creoli si divisero tra quanti intendevano mantenere il legame con la Spagna e i fautori dell’indipendenza. Questi ultimi (Juan Martínez de Rozas, José Miguel Carrera, Bernardo O’Higgins), benché divisi tra loro, incitarono il popolo alla ribellione. La Spagna reagì inviando un esercito il quale sconfisse gli insorti nella battaglia di Rancagua (1814) e ristabilì il proprio dominio. L’arroganza degli spagnoli e il loro rifiuto di venir incontro alle richieste, anche le più moderate, della popolazione creola diedero però nuovo slancio al movimento di liberazione che, da fenomeno sostanzialmente elitario, giunse a coinvolgere tutti gli strati sociali. Rifugiatisi in Argentina per sfuggire alla repressione, i capi degli insorti ottennero l’appoggio del generale San Martín. Questi, dopo essersi alleato con O’Higgins, nel 1817 varcò le Ande alla guida di un esercito argentino-cileno e sconfisse gli spagnoli nella battaglia di Chacabuco, aprendosi la strada verso Santiago. O’Higgins venne nominato “direttore supremo” e l’indipendenza fu proclamata formalmente il 12 febbraio del 1818. I primi anni di vita del nuovo stato furono caratterizzati da forti tensioni interne. L’opera di modernizzazione delle strutture statali iniziata da O’Higgins incontrò l’ostilità del clero e dell’aristocrazia terriera. Costretto a dimettersi dopo la crisi seguita alla fucilazione di Carrera (1823), egli lasciò ai suoi successori il problema dell’assetto istituzionale del paese. Tra il 1823 e il 1830 vennero varate diverse costituzioni, nessuna delle quali entrò realmente in vigore. Nel frattempo si delinearono con chiarezza due schieramenti politici opposti: uno conservatore, cattolico e fautore di un ordinamento di tipo centralistico; l’altro liberale, laico e di orientamento federalista. I contrasti degenerarono in guerra civile e furono infine risolti con la forza delle armi nella battaglia di Lírcay (1830), che segnò la sconfitta delle forze liberali.

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3. La repubblica oligarchica

Tra il 1830 e il 1891 il Cile conobbe un periodo di forte stabilità interna. La costituzione del 1833, rimasta sostanzialmente immutata fino al 1925, delineò un regime autoritario e centralistico, saldamente in mano a una ristretta oligarchia formata dai grandi proprietari terrieri e minerari, dall’alta borghesia e dalle gerarchie ecclesiastiche e militari. Ciò consentì al Cile un notevole sviluppo economico, favorito dal massiccio afflusso di capitale britannico e dalla superiorità acquisita dalla propria flotta commerciale sugli altri paesi del Pacifico meridionale. Si ebbe anche la ripresa di una spinta espansionistica in politica estera. Nel 1836-39 il Cile condusse una guerra contro il Perú e la Bolivia, riuscendo a ottenere lo scioglimento della confederazione tra questi due stati, ritenuta lesiva dei propri interessi. Verso la metà del secolo iniziò la conquista della Frontera, cioè dei territori a sud del Bío-Bío, che si concluse con il definitivo assoggettamento degli araucani nel 1883 ma che aprì un contenzioso con l’Argentina a proposito dei confini meridionali. Un nuovo conflitto con la Bolivia e il Perú per il controllo del deserto di Atacama, ricco di salnitro, degenerò nella cosiddetta guerra del Pacifico (1879-83) in seguito alla quale il Cile, vittorioso, ottenne in via definitiva, oltre al territorio conteso, le province marittime di Antofagasta e Tarapacá e, in via provvisoria, Tacna e Arica. La fine del conflitto coincise con una nuova fase espansiva dell’economia cilena che assicurò al paese, grazie soprattutto allo sfruttamento dei giacimenti di salnitro, rame e altri minerali, una prosperità senza precedenti. Nell’arco di un cinquantennio, però, la struttura sociale era mutata profondamente, alterando i rapporti di forza tra le classi sociali e minando la compattezza del vecchio blocco dominante. Si ebbe in tal modo, agli inizi degli anni Ottanta, dietro la pressione di nuovi strati sociali (piccola e media borghesia urbana, quadri intermedi dell’esercito, nascente proletariato), una svolta liberalizzatrice di cui si fece interprete José Manuel Balmaceda, eletto presidente nel 1886. Il suo programma di riforme, tuttavia, incontrò l’ostilità del Congresso, dominato dalle forze conservatrici. Seguì un braccio di ferro tra presidente e Congresso che sfociò nel 1891 in una sanguinosa guerra civile, al termine della quale Balmaceda fu rovesciato e fu di fatto smantellato il regime presidenziale.

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4. Il Cile da Alessandri ad Allende

Gli anni tra il 1891 e il 1920 furono contrassegnati, al di là dei successi sul piano economico e diplomatico (vennero risolte in modo favorevole per il Cile le controversie con l’Argentina e la Bolivia), dall’approfondirsi degli squilibri. Attorno all’attività estrattiva, che conobbe un vero e proprio boom tra gli anni Dieci e Venti anche grazie ai massicci investimenti stranieri, prosperò un capitalismo aggressivo le cui fortune andarono di pari passo con l’impoverimento delle masse lavoratrici. Queste, organizzatesi nel 1912 nel Partido obrero, contribuirono in modo determinante alla vittoria del liberale Arturo Alessandri Palma, candidato di un vasto schieramento di forze progressiste alle elezioni presidenziali del 1920. Alessandri conquistò il consenso degli operai e delle classi medie con un programma di riforme radicali, la cui realizzazione incontrò gravi ostacoli nella crisi economica del primo dopoguerra, dovuta al crollo delle esportazioni di salnitro. Costretto ad abbandonare la carica da un colpo militare nel 1924, egli venne richiamato nel 1925 per pochi mesi, giusto in tempo per far approvare una nuova costituzione che ristabilì in Cile il sistema presidenziale. Approdato a posizioni apertamente conservatrici, Alessandri tornò al potere nel 1932, dopo una fase di instabilità caratterizzata dall’alternarsi di governi di destra e di sinistra. Durante la sua presidenza si ebbe un miglioramento della situazione economica e finanziaria, ma crebbero le tensioni interne sia per la politica repressiva adottata dal governo nei confronti del movimento operaio sia per la comparsa sulla scena politica di un movimento nazionalsocialista apertamente eversivo. Per fronteggiare la minaccia fascista, liberali, radicali, socialisti e comunisti diedero vita nel 1936 a un Fronte popolare, che nel 1938 vinse le elezioni portando alla presidenza il proprio candidato, il radicale Pedro Aguirre Cerda. Il nuovo governo non ebbe vita facile. La sua azione non riuscì a incidere sugli squilibri strutturali del paese né a limitare la dipendenza dal capitale straniero (nel 1936 l’industria del rame e quella dei nitrati erano per quattro quinti sotto il controllo statunitense). Inoltre, esso risentì delle contraddizioni interne al Fronte tra moderati e fautori di un più audace riformismo. Sotto il suo successore, Juan Antonio Ríos, il Cile condusse una politica di intesa con gli Stati Uniti sia sul piano internazionale sia su quello interno, ottenendo in cambio un consistente aiuto economico. Nel 1946, nel clima di unità antifascista creatosi durante il conflitto mondiale, una coalizione progressista portò al potere il radicale Gabriel Gonzáles Videla, che per la prima volta inserì nel governo tre ministri comunisti. L’esperimento fu interrotto con l’inizio della guerra fredda, in seguito alla quale Videla, cedendo agli Stati Uniti, ruppe con le sinistre mettendo fuori legge il Partito comunista (1948). Da allora fino agli inizi degli anni Sessanta il Cile tornò a una politica conservatrice mantenendo però, a differenza di molti stati latino-americani, il regime democratico. Una ripresa dell’iniziativa riformistica si ebbe a partire dal 1964, con la presidenza del democristiano Eduardo Frei. Questi tentò di limitare il peso delle grandi compagnie americane acquistando una rilevante quota delle azioni e impegnandole a investire in Cile i profitti derivanti dalla sfruttamento delle miniere di rame; varò una riforma agraria, accanitamente osteggiata dai conservatori e approvata con i voti delle sinistre; e attuò un programma di edilizia pubblica. La politica di Frei non conseguì però sul piano pratico successi tali da assicurargli l’appoggio delle masse popolari, mentre allarmò decisamente i grandi proprietari terrieri. Si ebbe pertanto un indebolimento della DC, divisa al suo interno, e il parallelo rafforzamento sia del Partito nazionale, espressione delle forze di destra, sia di Unità popolare, che riuniva le forze di sinistra, dai comunisti ai democristiani dissidenti. In un clima di tensione, resa più acuta dall’aggravarsi della situazione economica in seguito alla ripresa dell’inflazione, si tennero nel 1970 le elezioni presidenziali: con la maggioranza relativa dei voti (36,7%) fu eletto il socialista Salvador Allende Gossens, candidato di Unità popolare. Deciso a introdurre nel paese riforme radicali che segnassero una rottura con il passato e ponessero le premesse per una trasformazione socialista del Cile nel rispetto della legalità democratica, Allende procedette alla nazionalizzazione delle miniere di rame, delle banche, dell’industria di base e al completamento della riforma agraria; al tempo stesso innalzò i minimi salariali e concesse maggiori poteri alle organizzazioni dei lavoratori nelle imprese pubbliche e a partecipazione pubblica. La sua azione incontrò l’ostilità degli Stati Uniti, decisi a fermare qualsiasi tentativo di allargare l’area del socialismo in America Latina, dopo il caso di Cuba. Sul fronte interno, egli dovette fronteggiare non solo l’opposizione delle destre ma anche quella del Movimento della sinistra rivoluzionaria (MIR), che premeva per un’accentuazione dello scontro di classe. Nel 1972, mentre la crisi economica si faceva esplosiva, la DC che aveva fino ad allora garantito la sua astensione al governo passò all’opposizione. Allende nella speranza di rafforzare la propria posizione compì un atto che gli fu fatale: sollecitò l’ingresso al governo dei militari, rompendo una lunga tradizione di non intervento delle forze armate cilene nelle questioni di politica interna. Nel marzo del 1973 le elezioni per il rinnovo del parlamento segnarono un grosso successo per Unità popolare, che ottenne quasi il 44% dei voti. Ciò indusse gli avversari del governo a porsi sulla strada dell’azione sovversiva. Nel giugno un colpo di stato fu sventato dalle truppe fedeli ad Allende. Seguì un’ondata di scioperi e di agitazioni senza precedenti, promossi sia dai sostenitori sia dagli avversari del governo. L’11 settembre, un nuovo colpo di stato guidato dal generale Augusto Pinochet Ugarte e appoggiato dalla CIA, pose tragicamente fine al tentativo di rivoluzione socialista e democratica in Cile. Allende morì combattendo contro i golpisti nel palazzo presidenziale della Moneda.

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5. Dalla dittatura militare al ripristino della democrazia

Con la giunta presieduta dal generale Pinochet si instaurò in Cile una dittatura militare basata sul terrore di stato. Gli oppositori furono perseguitati, imprigionati e torturati. Molti scomparvero nel nulla, eliminati dalla polizia segreta (DINA). Le garanzie costituzionali furono sospese e fu vietata ogni forma di attività politica e sindacale; venne decretato il blocco dei salari e avviata una politica di riprivatizzazione (restituzione ai vecchi proprietari di terre e imprese espropriate da Allende) e di incentivazione per gli investimenti stranieri. Sul piano internazionale una controversia con l’Argentina per il controllo del canale di Beagle, composta poi nel 1984 con la mediazione della Santa Sede, portò a momenti di grave tensione tra i due paesi. La condanna della commissione per i diritti umani dell’ONU nel 1975 e l’isolamento nella comunità internazionale (gli stessi Stati Uniti sospesero poco dopo gli aiuti economici) indussero Pinochet a mitigare, con una operazione per lo più di facciata, gli aspetti più odiosi della dittatura: venne sciolta la DINA, fu tolto lo stato d’assedio, alcuni civili entrarono nel governo e fu ristabilita una limitata libertà di sciopero. Una nuova costituzione dai tratti fortemente autoritari venne varata nel 1980 e approvata con referendum popolare; essa prevedeva per il 1988 un plebiscito col quale il popolo cileno avrebbe scelto se rinnovare il mandato a Pinochet per altri otto anni o andare alle elezioni. Il plebiscito si tenne regolarmente il 5 ottobre del 1988 alla presenza di numerosi osservatori internazionali. Nel frattempo, però, la solidità del regime era andata incrinandosi. La chiesa cattolica cilena si era apertamente dissociata dal regime per bocca dell’arcivescovo di Santiago ed era cresciuta l’opposizione interna fino a coinvolgere quelle forze moderate che ne avevano favorito l’affermazione. Gli stessi Stati Uniti dovettero prendere le distanze da un alleato divenuto troppo ingombrante. Alle urne, la maggioranza della popolazione (il 54% contro il 43%) si pronunciò contro la rielezione di Pinochet e a favore del ritorno a un governo civile. Si giunse quindi nel 1989 alle elezioni presidenziali. Il fronte delle opposizioni, schieratosi compatto a favore del candidato della DC, Patricio Aylwin, ottenne la maggioranza col 55% dei suffragi, seguito dal ministro delle finanze Hernán Buchi (29%) e da un altro rappresentante della destra, Francisco Javier Errazúriz (15%). Aylwin dovette affrontare il problema della pacificazione interna, che portò avanti con grande moderazione e spirito di conciliazione. Il 4 settembre del 1990, nell’anniversario della sua elezione, il corpo di Allende per volontà della famiglia venne tumulato nel cimitero generale di Santiago: il nuovo presidente e il suo gabinetto parteciparono alla cerimonia onorandone la memoria. Il generale Pinochet rimase tuttavia capo delle forze armate. Una commissione di indagine governativa documentò senza possibilità di dubbio le gravi violazioni dei diritti umani del passato regime, ma evitò precise attribuzioni di responsabilità. Nel 1994 ad Aylwin succedette il democristiano Eduardo Frei Ruiz-Tagle. Un importante accordo portò il Cile nel 1996 a fare il proprio ingresso nel Mercosur, il trattato di libero commercio tra i sei maggiori stati latinoamericani. Nel 1998-99 il paese fu investito dall’“affare Pinochet”. Il generale, che nel 1998 aveva dato le dimissioni da capo delle forze armate ed era stato nominato senatore a vita, fu arrestato in Gran Bretagna su richiesta della magistratura spagnola, la quale ne richiese l’estradizione per le responsabilità nell’assassinio di cittadini spagnoli, estradizione concessa dall’Alta Corte formata dalla Camera dei Lord, ma avversata dal governo britannico. Con la motivazione della precaria salute del generale, questi nel 1999 venne fatto rientrare in Cile, che per protesta aveva ritirato il proprio ambasciatore. L’“affare” provocò una viva eco in Cile, con manifestazioni delle parti opposte. Nel gennaio del 2000 fu eletto presidente il socialista Ricardo Lagos, che rilanciò l’economia e promosse numerose riforme sociali. Nel 2005 gli succedette alla guida del paese la compagna di partito Michelle Bachelet, che divenne così la prima donna cilena a ricoprire l’incarico di presidente. Per fronteggiare il problema della disoccupazione, la Bachelet riformò il sistema pensionistico e stimolò la creazione di nuovi posti di lavoro. Nelle successive elezioni del 2010 si affermò un candidato conservatore, Sebastian Pinera. Nel corso dei primi anni Duemila il Cile continuò a essere tra le economie più floride del Sudamerica.

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