Grecia antica

  1. Protostoria. L’età del bronzo e le migrazioni doriche
  2. Il periodo arcaico. L’alto arcaismo
  3. Il medio arcaismo
  4. Il tardo arcaismo
  5. Il periodo classico. La rivolta ionica
  6. Le guerre persiane
  7. La Pentecontetía
  8. La guerra del Peloponneso
  9. L’egemonia spartana
  10. L’ascesa e l’egemonia tebana
  11. L’età di Filippo II
  12. L’età ellenistica fino alla conquista romana. Le conquiste di Alessandro Magno
  13. La Macedonia e gli stati greci (323-200)
  14. La conquista romana della Grecia
1. Protostoria. L’età del bronzo e le migrazioni doriche

La presenza dei greci nella penisola ellenica è percepibile già al momento del passaggio dall’antico al medio elladico (2000-1800 a.C.) con la cosiddetta Grey Minian Ware, un tipo di ceramica che si ritiene rispecchi l’avanzata di genti indoeuropee costituenti il primo nucleo della popolazione greca di età storica. In corrispondenza con gli sviluppi del medio elladico le regioni del mondo egeo, come Creta, l’area cicladica e alcune terre del Vicino Oriente, entrarono tra loro in un fecondo rapporto di scambio culturale. Di particolare importanza fu l’apporto della civiltà minoica fiorita a Creta, dove intorno al 1900 a.C. emerse la civiltà palaziale, con i “primi palazzi” a struttura semplice, che successivamente a Cnosso e a Festo conobbero un notevole ampliamento (circa 1700 a.C.). La ceramica, le decorazioni parietali dei “secondi palazzi” e la diffusione dei sigilli mostrano una società altamente organizzata, con un potere centrale che si struttura in maniere sempre più complesse. La ricerca archeologica evidenzia il rapporto dei nuovi palazzi e dei loro porti con il territorio circostante, in cui si svilupparono centri abitati anche di una certa importanza. Tale civiltà si irradiò nell’Argolide, nelle Cicladi, a Citera, e soprattutto a Tera, grazie all’intensa pratica del mare da parte dei minoici, adombrata nella tradizione della talassocrazia di Minosse riportata dagli storici Erodoto e Tucidide. Nella metà del XV secolo un’improvvisa catastrofe, dovuta all’incursione degli invasori, o all’esplosione del vulcano di Tera, distrusse i grandi centri minoici, eccetto il palazzo di Cnosso, che, subito ripristinato, diventò il centro della civiltà micenea, caratterizzata da insediamenti palaziali in luoghi fortificati, che differiscono dai palazzi minoici per una struttura più chiusa e austera. L’eredità minoica sopravvisse al dominio dei micenei, ma come un patrimonio gestito da questi. Fu introdotto un tipo di scrittura (Lineare B) diversa da quella minoica (Lineare A): questi testi su tavolette d’argilla in lingua sicuramente greca, trovati soprattutto a Cnosso (circa 1400 o 1200 a.C.) e a Pilo in Messenia (circa 1200 a.C.), sono registrazioni di beni e persone relative a un breve periodo, che rivelano un’economia agraria nel quadro di uno stretto controllo del palazzo sulla comunità e sul territorio circostante, con un signore assoluto, cui sono sottoposti un comandante e un’aristocrazia di capi militari. Accanto all’agricoltura e all’allevamento, anche l’artigianato ebbe una funzione notevole per conto del palazzo, mentre l’interesse per la navigazione si evince dalla cura della difesa costiera, attestata nelle tavolette di Pilo. Gli oggetti d’oro, d’argento e d’avorio finemente lavorati, ritrovati un po’ dappertutto nel Mediterraneo e provenienti da Cnosso, Micene, Tebe e Tirinto, e l’espansione della ceramica micenea da Oriente a Occidente sono prova di un’intensa attività commerciale, finalizzata all’acquisto di materie prime, anzitutto dei metalli. A cause naturali sono da imputare le distruzioni (intorno alla fine del XIII secolo a.C.) dei palazzi di Tirinto, Iolco e forse anche di quelli di Micene e di Pilo: per questi ultimi gli incendi potrebbero essere addebitati all’opera distruttiva di invasori che la tradizione epica e storica riconosce nei dori. La penetrazione di queste nuove popolazioni indoeuropee appare come una conquista graduale, cui si accompagnarono forme di convivenza coi popoli preesistenti e di assimilazione della cultura precedente. Gli stessi poemi omerici, con il racconto della guerra di Troia (1194-84 a.C. secondo Eratostene) e la rappresentazione del mondo di Agamennone, Achille e Odisseo, forniscono l’immagine di una società che “dovette riorganizzarsi con nuove istituzioni e nuovi valori corrispondenti alla nuova situazione materiale e sociale, in cui gli immigrati erano un fattore con cui si dovevano fare i conti” (M.I. Finley). In connessione con l’arrivo dei dori nel Peloponneso si sostituì al bronzo a scopo militare il ferro, la cui maggiore disponibilità naturale rispetto al rame finì col far perdere prestigio agli antichi possessori e artigiani del bronzo, contribuendo a determinare una nuova temperie sociopolitica nell’ampia area delle regioni greche in cui si era insediato il nuovo gruppo dominante.

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2. Il periodo arcaico. L’alto arcaismo

Con la fine dei palazzi micenei e le migrazioni doriche si entra nei secoli cosiddetti bui della storia dei greci (XI-IX secolo a.C.), alla fine dei quali emerse una nuova realtà, la polis, che fu poi definita da Aristotele “una comunità di uomini uguali e liberi”. In essa aveva un ruolo centrale un’acropoli concepita come centro del potere; attorno a tale fulcro si collocava l’asty, o città bassa, e intorno a questa la chora, o territorio. La polis, nelle varie forme di organizzazione che assunse, si fondava sullo scambio tra asty e chora, tra città e territorio. Tipica di questo periodo fu la polis dorica, caratterizzata da un accentramento del dominio territoriale e da una distribuzione del potere politico. Altrove, come in Attica, le realtà locali vissero più a lungo in autonomia, finché anche qui non si instaurarono fenomeni di accentramento (ad esempio il sinecismo attribuito al mitico Teseo). All’inizio dell’VIII secolo il lungo processo di trasformazione delle strutture sociali sembra compiuto. Forma sociopolitica prevalente divenne la città aristocratica, la comunità accentrata governata da un’aristocrazia fondamentalmente oplitica. Il rapporto tra la comunità politica e le sue suddivisioni (tribù o phylai, fratrie o comunità artificiali di fratelli, ghene o grandi famiglie, consorterie nobiliari) è tuttora problematico, ma è indubbio che i sistemi di organizzazione sociale tipici del mondo dorico e di quello attico o ionico divennero parte integrante ed essenziale dell’organizzazione cittadina. Anche dai poemi omerici, che proiettano sull’epoca della guerra troiana gran parte dell’esperienza storica dei “secoli bui”, è percepibile una profonda trasformazione nelle istituzioni rispetto all’epoca micenea: se nell’Iliade è evidente il divario tra i poteri del comandante supremo e quelli dei re che comandano un popolo in armi, nell’Odissea, dove è più rappresentata la realtà contemporanea delle poleis greche, emerge la figura di un re come primus inter pares all’interno della classe aristocratica. Analoghi caratteri aristocratici presenta la fondazione di città in Asia Minore in conseguenza delle migrazioni degli ioni, cui si accompagnò più o meno contemporaneamente quella degli eoli e dei dori: si tratta di vere e proprie fondazioni coloniali, che presuppongono l’esistenza di un modello cittadino già esistente nella madrepatria e che non sono da identificare con le precedenti frequentazioni di epoca micenea in Asia Minore, benché la data riportata da Eratostene per la migrazione ionica (1044 a.C.) possa facilmente indurre a erronee sovrapposizioni tra i due fenomeni.

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3. Il medio arcaismo

Emergevano intanto grandi figure di legislatori, come Draconte ad Atene, Licurgo a Sparta, Pittaco a Mitilene, Zaleuco a Locri, Caronda a Catania, che sono avvolte nella leggenda. È indubbio tuttavia che si tratta di personaggi storici, che segnarono la storia delle poleis greche. I codici legislativi, che le aristocrazie facevano emanare a uomini da esse stesse deputati e che sono per lo più in difesa della persona e della proprietà, rappresentano la reazione ai “giudizi storti” dei basileis evocati dal poeta Esiodo (fine VIII secolo a.C.). La tirannide, d’altra parte, rappresentava l’esito del malcontento nato fra i cittadini abbienti, in grado di fornirsi una completa armatura: i tiranni infatti sorgevano dal cuore stesso dell’aristocrazia ed esprimevano la necessità di revisionare la struttura dei rapporti sociali, senza tuttavia rivoluzionarli. Il tyrannos è il signore che emerge come capo dopo aver esercitato con successo la suprema carica militare ed essere riuscito vincitore in una serie di lotte intestine procurandosi il sostegno dei cittadini in armi; egli si arroga un potere personale assoluto, superiore a quello tradizionale dei basileis, soprattutto perché non definito in prerogative concordate dalla comunità, ma non necessariamente più duro di quello dell’aristocrazia. È questo in sostanza il quadro della tirannide presentato da Aristotele, che ben si accorda con la linea di sviluppo economico fornita da Tucidide, che collega il fenomeno con la colonizzazione, l’incremento dei commerci, delle ricchezze e delle attività marittime. La più antica tirannide è quella dei Cipselidi a Corinto, durata più di settant’anni: il suo fondatore Cipselo, nato da una donna dell’aristocrazia regale dei Bacchiadi e da un uomo del demos di Petra, divenuto polemarco, abbatté intorno al 650 a.C. la vecchia dinastia al potere con l’aiuto – secondo una tradizione – di un gruppo di nobili, e assunse la tirannide trasmettendola ai suoi eredi fino alla terza generazione. La crescente diffusione della ceramica tardo-protocorinzia e corinzia dimostra che la tirannide dei Cipselidi portò al perfezionamento le attività economiche e produttive già avviate dai Bacchiadi. Cipselo organizzò anche la fondazione di colonie, ponendo i suoi figli come sovrani delle nuove città. Di fatto, in questo periodo ebbe inizio su larga scala l’importante fenomeno della colonizzazione, promosso dalle stesse aristocrazie per far fronte ai molteplici bisogni suscitati dall’esubero di popolazione e dalle rivendicazioni sociali e politiche del vecchio mondo contadino e dei nuovi intraprendenti ceti mercantili, sovente accomunati nel servizio oplitico. Questa espansione si sviluppò in spazi “vuoti”, cioè non occupati o regolati da civiltà precedenti. Le poleis maggiormente interessate al moto di colonizzazione furono: in Grecia, oltre a Corinto, Megara e le città dell’Acaia; in Eubea, Calcide ed Eretria; in Asia Minore, le città di Rodi, di Lesbo e la polis di Mileto. Ma il fenomeno della colonizzazione fu ben lungi dall’investire tutte le regioni della Grecia: tra le città non toccate è da annoverare Atene.

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4. Il tardo arcaismo

All’inizio del VI secolo a.C. in Attica venne a maturazione la crisi che investì la comunità aristocratica, cui invano aveva cercato di porre rimedio il legislatore Draconte. Ad Atene era allora al potere un regime politico strettamente oligarchico ed era assai acuto il conflitto tra i grandi proprietari di terra e i coltivatori, clienti o contadini obbligati a versare 1/6 del prodotto fornito dalla terra che lavoravano (hektémoroi); se questi risultavano morosi rispetto all’assolvimento della loro obbligazione, rischiavano di essere venduti schiavi fuori dell’Attica. Eletto arconte nel 594-93 a.C. o nel 592-91 a.C. e nominato “arbitro” delle parti sociali, il nobile Solone abolì la schiavitù per debiti, annullando tutte le obbligazioni esistenti. Sul piano politico confermò l’organizzazione in classi di censo operante nel sistema militare, aggiungendo forse quella dei pentacosiomedimni, cioè di coloro che avevano un raccolto annuo di cinquecento misure e oltre di frumento, di olio o di vino. Le cariche degli arconti e dei tesorieri rimasero appannaggio della prima classe e furono estese, per quanto riguarda gli arconti, anche alla seconda, quella dei cavalieri. Agli zeugiti (possessori di una coppia di buoi) fu confermato il servizio militare nell’esercito oplitico e ai teti (salariati) fu invece garantita la partecipazione all’assemblea e al tribunale del popolo. Forse a Solone va anche ascritta l’istituzione di un nuovo consiglio, quello dei Quattrocento (cento eletti per ciascuna delle quattro tribù gentilizie), accanto a quello tradizionale dell’Areopago, di cui venivano a far parte a vita gli ex arconti. Allontanatosi Solone dalla vita politica, ad Atene continuarono i disordini e le lotte sociali. In questo quadro si colloca, intorno alla metà del VI secolo, l’avvento alla tirannide di Pisistrato, che in una prima fase governò gli ateniesi senza sconvolgere le cariche e senza mutare le leggi, esercitando il potere sulla base delle istituzioni vigenti. Egli avviò lo sviluppo della piccola proprietà mediante l’istituzione di un credito fondiario e di un’imposta sul reddito con la quale sovvenzionò alcune opere della comunità, prima fra tutte una moderna flotta, creata in funzione di una politica estera di espansione, nonché della ricerca di punti di appoggio per le attività commerciali. Diede anche un notevole impulso allo sviluppo artigianale e commerciale e all’istituzione della moneta. In politica interna, l’istituzione delle Grandi Dionisie cittadine e la creazione di un corpo di giudici itineranti confermano l’attenzione di Pisistrato sia per la campagna, sia per la popolazione del centro abitato. Morto nel 528-27 a.C., gli succedette il figlio maggiore Ippia, che governò, sia pure con maggiore durezza, secondo le linee politiche del padre fino a quando il fratello Ipparco, che praticava uno splendido mecenatismo, fu assassinato dagli aristocratici Armodio e Aristogitone per motivi apparentemente privati (514-13 a.C.): trucidati da Ippia, i tirannicidi entrarono presto nella leggenda come restauratori della libertà. In realtà, l’improvviso fatto di sangue dimostrò che ad Atene l’instaurazione della tirannide non aveva cancellato l’opposizione aristocratica alimentata dagli Alcmeonidi. Questi, esuli probabilmente a seguito del terzo avvento di Pisistrato al potere (535-34 a.C.), si erano creati una base a Delfi, dove avevano assunto l’appalto della ricostruzione del tempio di Apollo incendiato di recente. Ma il loro rientro poté avvenire solo qualche anno dopo il tirannicidio e solo con l’aiuto di Sparta (511-10 a.C.). Si accese allora nuovamente un aspro conflitto tra gruppi aristocratici, guidati rispettivamente dall’alcmeonide Clistene e dal nobile Isagora figlio di Tisandro, con ogni probabilità fautore di un assetto oligarchico gradito a Sparta. Nel 508-507 a.C. l’esito della lotta per le elezioni alla suprema carica di arconte eponimo risultò favorevole a Isagora. Fu allora che Clistene cercò il favore dei ceti popolari ateniesi, promettendo un loro effettivo inserimento nel governo della polis; ma solo più tardi, una volta fuggito Isagora, Clistene poté portare a compimento le sue riforme democratiche in qualità di “guida e protettore del popolo”. Con l’intento di “amalgamare tutti i cittadini fra loro e sciogliere i legami preesistenti” (Aristotele), istituì una nuova organizzazione delle phylai su base territoriale, anziché familiare, e il loro numero fu aumentato da quattro a dieci. Ottenne ciò suddividendo territorialmente l’Attica in tre grandi zone – la città, l’entroterra e la costa – e organizzando al loro interno una nuova struttura di rapporti politici, impostati su base dieci, tra piccole comunità di villaggio preesistenti (i demi) e vecchi segmenti delle tribù gentilizie (le trittie). Fu fissato che ciascuna delle tribù fornisse alla falange un reggimento di opliti sotto la guida di uno stratego elettivo, nonché uno squadrone di cavalleria. Fu istituito inoltre un consiglio di Cinquecento cittadini, cinquanta da ciascuna delle nuove tribù, “forse il primo esempio di rappresentanza popolare su base proporzionale che la storia ricordi” (K.J. Beloch). Sembra pure che Clistene abbia introdotto l’ostracismo: nell’ottava pritania di ogni anno si dava la possibilità di scrivere sui cocci (óstraka) il nome del cittadino che fosse sospettato di aspirare alla tirannide; colui che aveva ricevuto il numero più alto di segnalazioni doveva andare in esilio per dieci anni, senza danno per le sue sostanze. Fu a partire dalle riforme di Clistene (508-507 a.C.) che s’instaurò ad Atene un regime popolare. Sparta intanto, dopo aver combattuto lunghe guerre coi popoli vicini (i messeni, gli argivi, gli elei e gli arcadi), non solo aveva ottenuto cospicue conquiste territoriali, ma aveva anche definito il suo ruolo egemonico nel Peloponneso mediante una serie di alleanze bilaterali, con la formazione della lega peloponnesiaca. Verso la fine del VI secolo dovevano farne parte non solo le città dell’Arcadia e del Peloponneso sud-orientale, ma anche quelle di Ermione ed Epidauro, insofferenti del predominio di Argo, e ancora Egina, Corinto e altre. Proprio da Sparta e da altri popoli, i cui regimi erano più o meno omologhi a quello spartano, non tardarono a farsi sentire violente reazioni al nuovo modello costituzionale instaurato ad Atene. Nel 506 a.C. beoti e calcidesi invasero l’Attica, ma furono respinti e sconfitti; poco dopo gli spartani si mostrarono pronti a restaurare ad Atene la tirannide, ma ne furono dissuasi dai corinzi. La democrazia attica riuscì a liberarsi del suo isolamento, ma ciò avvenne non solo grazie al valore dimostrato dal popolo ateniese contro i calcidesi e i beoti, ma anche grazie agli eventi di politica estera che di lì a poco unirono i greci contro i persiani.

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5. Il periodo classico. La rivolta ionica

Bastarono pochi anni perché la democrazia ateniese si affermasse e facesse sentire la sua influenza, prima nelle Cicladi e poi nelle città greche dell’Asia Minore. Intorno al 500 a.C. gli aristocratici di Nasso, cacciati dal popolo, giunsero esuli a Mileto a chiedere aiuto al tiranno Aristagora, che convinse Artaferne, satrapo di Sardi, a intraprendere una spedizione comune contro Nasso. Alle altre città ioniche fu ingiunto di fornire ciascuna un certo numero di navi che trasportassero le truppe da sbarco persiane: era la prima volta che il satrapo di Sardi prendeva un’iniziativa espansionistica nell’Egeo. Ma, contro ogni previsione, l’intera spedizione si risolse in un disastro. Fu allora che Aristagora, temendo di dover pagare di persona la sconfitta, si decise a innalzare il vessillo della rivolta contro la Persia: depose la tirannide e convinse le altre città ioniche a cacciare i tiranni collocativi dai persiani. Portarono il loro sostegno navale anche Atene ed Eretria. La rivolta culminò nel 498 a.C. con l’incendio di alcuni quartieri periferici di Sardi, cui seguì l’immediata adesione di altri popoli dell’Asia Minore: dei greci dell’Ellesponto, dei cari, dei lidi, della stessa Cipro. La reazione dei persiani non si fece attendere: risospinti gli insorti verso la costa, inflissero loro una prima sconfitta a Efeso. Nel frattempo ateniesi ed eretriesi fecero ritorno in patria. Gli anni successivi furono contrassegnati dalla riconquista persiana di Cipro (497 a.C.) e dalla morte di Aristagora in Tracia nel corso di una battaglia contro gli edoni (496 a.C.). Intanto, per consolidare i successi militari, Dario, re della Persia, inviava da Susa in Ionia Istieo, già tiranno di Mileto, per convincere gli insorti a desistere; ma questi tradì la sua fiducia e simpatizzò apertamente con i rivoltosi. Durante una scorreria in Eolide, Istieo fu infine catturato dai persiani e morì sulla croce (493 a.C.). Intanto la rivolta era stata domata dalla flotta fenicia, vittoriosa nello scontro navale che si svolse presso l’isola di Lade, nelle acque di Mileto: la città, assediata per terra e per mare, fu conquistata e in gran parte distrutta, mentre un gran numero di abitanti fu deportato in Babilonia (494 a.C.).

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6. Le guerre persiane

Rientrato in possesso di Chio, di Lesbo e dell’Ellesponto, nel 492 a.C. Dario inviò il generale Mardonio in Tracia per una prima spedizione punitiva contro gli insorti. I successi furono vanificati da un improvviso attacco dei traci brigi, mentre gran parte della flotta andò perduta nella circumnavigazione dell’Athos. Dopo un anno di preparativi, nella primavera del 490 a.C. Dario inviò in Grecia una seconda grande spedizione punitiva, che raggiunse le Cicladi, l’Eubea e l’Attica. Nasso fu distrutta, le Cicladi si sottomisero, Eretria fu conquistata e data alle fiamme. Ma la grande armata persiana fu fermata a Maratona, nella parte nord-orientale dell’Attica, dall’esercito oplitico ateniese al comando del polemarco Callimaco e dei dieci strateghi, fra i quali si distinse Milziade. Fu una grande vittoria della tattica oplitica: caddero solo 192 ateniesi contro 6400 persiani. Invano la flotta nemica cercò di cogliere di sorpresa Atene sguarnita di uomini, doppiando il capo Sunion: avvertito tempestivamente, l’esercito ateniese costrinse i persiani a prendere la via del ritorno. L’anno successivo una spedizione di Milziade nelle Cicladi occidentali incontrò la resistenza della medizzante Paro e portò alla condanna del vincitore di Maratona (489 a.C.). Costretto al pagamento di un’enorme ammenda, questi morì di lì a poco, mentre si apriva per Atene un altro disastroso conflitto, quello con Egina, all’epoca grande potenza navale (488 a.C.). In quei frangenti riuscì a rinforzare il suo prestigio Temistocle, già arconte nel 493 a.C.: homo novus privo dell’appoggio delle tradizionali eteríe aristocratiche, impostò la sua carriera politica sul sostegno del popolo e fu probabilmente il promotore di una riforma costituzionale ricordata da Aristotele, che mirava al potenziamento della capacità militare ateniese (487-86 a.C.). Nell’ambito di questo progetto va letto anche il riarmo e il potenziamento della flotta, finalizzati innanzitutto a risolvere il conflitto con Egina: secondo Aristotele, furono costruite cento nuove navi da guerra grazie al finanziamento da parte dello stato (483-82 a.C.). Così Atene divenne la principale potenza navale, che alla fine degli anni Ottanta possedeva, secondo Erodoto, circa duecento triremi. Intanto sul trono degli Achemenidi era succeduto a Dario il figlio Serse, che voleva effettuare una spedizione punitiva, diretta questa volta contro la Grecia intera. Dopo lunghi preparativi, nel giugno del 480 a.C., il grande esercito di Serse, affiancato e sostenuto dalla flotta, varcò l’Ellesponto. Sotto la minaccia persiana gli stati greci proclamarono una pace generale e furono richiamati in patria gli esuli politici. Mentre la duplice armata persiana avanzava in Macedonia e Tessaglia, l’esercito greco, sotto la guida degli spartani, si attestò alle Termopili. Difendevano lo stretto varco tra il mare e le pendici dell’Eta 4000 opliti al comando del re Leonida, coadiuvati da focesi, locresi e beoti, mentre la flotta greca appostata presso l’Artemisio, sulla costa settentrionale dell’Eubea, infliggeva al nemico gravi perdite. Nonostante l’eroica resistenza dei lacedemoni, i persiani riuscirono ad avere la meglio: restarono sul campo 4000 greci e ben 400 spartiati con il loro re, mentre focesi, beoti e locresi opunzi, presi dal panico, defezionavano. Alla notizia di tale disfatta, Atene fu abbandonata alle devastazioni dei persiani, mentre la flotta greca si pose in ordine di battaglia nei pressi di Salamina, dove avvenne lo scontro con l’armata avversaria: la flotta greca riuscì a sospingere quella persiana verso il Falero, procurandole gravissime perdite (settembre 480 a.C.). La battaglia di Salamina fu esaltata come una vittoria decisiva per l’esito complessivo delle guerre persiane, a cominciare dai Persiani di Eschilo, mentre, in effetti, la forza dell’esercito persiano non era stata scalfita, tanto è vero che esso fu ricondotto da Serse in Tessaglia e affidato al generale Mardonio, in previsione di un nuovo attacco terrestre; bisogna riconoscere però l’importanza di questa vittoria dal punto di vista strategico, in quanto infliggeva un duro colpo al progetto d’invasione persiano, fondato sull’interazione dell’esercito con la forza navale. Nella primavera dell’anno successivo (479 a.C.) Mardonio invase la Beozia e diede fuoco ad Atene. Poi le forze peloponnesiache, insieme a quelle di Atene, Megara e Platea, affrontarono in Beozia gli effettivi almeno doppi dell’esercito persiano, riuscendo alla fine a travolgerlo vicino a Platea, grazie a un contrattacco guidato dal reggente spartano Pausania. Questa vittoria fu celebrata splendidamente, come testimoniano i monumenti rimasti; la medizzante Tebe fu punita e la lega beotica fu sciolta. Intanto la flotta greca si muoveva in soccorso degli ioni desiderosi di liberarsi dei superstiti tiranni filopersiani che ancora li governavano. Nell’agosto del 479 a.C. le navi fenicie, che erano state tratte in secco nei pressi del promontorio di Micale di fronte a Samo, furono oggetto di un attacco a sorpresa da parte dei greci e date alle fiamme. Di conseguenza, come dice Erodoto, “la Ionia si ribellò ai persiani una seconda volta” e abbatté dappertutto le residue tirannidi; seguì la decisione di ammettere nella lega ellenica le grandi isole dell’Egeo: Samo, Chio e Lesbo. Fu una prima, anche se ancora parziale, vittoria diplomatica di Atene, che si erigeva ormai a madrepatria e protettrice degli ioni contro il barbaro, mentre Sparta, angustiata da problemi strutturali e costituzionali che le rendevano impossibile la continuazione del conflitto oltremare, desiderava ormai chiudere la guerra con i persiani. Così, all’inizio dell’autunno 479 a.C., i peloponnesi se ne ritornarono in patria, mentre gli ateniesi, passando dal versante asiatico a quello europeo, proseguirono la guerra di liberazione. Nell’anno seguente (478 a.C.) la crescita di potere e di prestigio della democratica Atene non poteva non preoccupare la dirigenza spartana, che invano tentò d’impedirle la ricostruzione delle mura abbattute dai persiani e il completamento del nuovo porto militare del Pireo. Intanto in Asia il rapporto degli ioni delle isole con gli spartani andava deteriorandosi a tal punto che nella primavera successiva (477 a.C.) il passaggio delle consegne tra Sparta e Atene era ormai un fatto compiuto. Atene si pose allora alla testa di una nuova alleanza, la cosiddetta lega delio-attica, comprendente come alleati, oltre alle isole dell’Egeo, anche gli ioni del continente asiatico e gli altri greci liberatisi nel frattempo dal barbaro. Gli ateniesi stabilirono quali degli alleati dovessero contribuire con denaro e quali con navi, in proporzione alle risorse di cui ognuno disponeva. Fu inoltre istituita la carica degli ellenotami, formata annualmente da cittadini ateniesi. Come sede del tesoro e delle riunioni del consiglio federale fu scelta Delo, l’isola sede del santuario di Apollo, tradizionale meta dei pellegrinaggi delle città ioniche.

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7. La Pentecontetía

Con la fondazione della lega delio-attica comincia il periodo di circa cinquant’anni, detto Pentecontetía, che termina con lo scoppio della guerra del Peloponneso. Fin dalle prime operazioni militari della nuova alleanza, si rivelò la tendenza ateniese a trasformare la propria egemonia in potere imperiale. È quanto dimostrò palesemente l’assoggettamento di Nasso, “la prima città alleata a essere ridotta in condizione di servitù; poi la stessa sorte toccò anche alle altre, in circostanze e maniere diverse, caso per caso” (Tucidide). Sull’attuazione di questo programma imperialistico non vi furono ad Atene vere e proprie contrapposizioni di gruppi politici. Divergenze sorsero solo quando, in opposizione alla linea politica perseguita da Aristide e Cimone, che erano interessati a un’intesa con Sparta e al perdurare del conflitto con la Persia, Temistocle si mostrò attento al contributo portato dai ceti popolari alla crescita della potenza navale e al maturare del conflitto con Sparta, incline allo scontro per il recupero dell’egemonia marittima. Quando Temistocle (già ostracizzato) fu raggiunto da una condanna in contumacia per alto tradimento e scomparve definitivamente dall’orizzonte politico ateniese (circa 467 a.C.), Cimone guidò le operazioni che portarono alla decisiva vittoria sui persiani presso la foce dell’Eurimedonte in Panfilia (circa 466 a.C.) e svolse più tardi un notevole ruolo nella spedizione contro l’isola di Taso, ribellatasi ad Atene (465-63 a.C.). Ma il fallimento del progetto d’installare in Tracia 10.000 coloni ateniesi e alleati finì per coinvolgere nei sospetti anche Cimone, che fu accusato di corruzione davanti all’Areopago. Poco dopo i ceti popolari, guidati da Efialte e dal giovane Pericle, esautorarono l’Areopago, roccaforte dei conservatori, e ostracizzarono Cimone (462-61 a.C.). Seguì la denuncia unilaterale da parte di Atene dell’alleanza con Sparta contro i persiani: un atto che rese libera Atene di stipulare giuramenti di alleanza anche con popoli che avevano medizzato, come gli argivi e i tessali. A queste nuove intese si aggiunse l’alleanza con Megara, che aveva esplicite finalità anticorinzie, e perciò antipeloponnesiache. Poco dopo Efialte pagò con la vita le riforme che avevano dato ad Atene un regime di piena democrazia (461 a.C.). Gli succedette alla guida dei ceti popolari Pericle, discendente per linea materna di Clistene. Per trent’anni egli operò per rafforzare la componente popolare all’interno della città e portò a maturazione il progetto di creare una sorta di stato assistenziale attraverso la remunerazione dei magistrati, dei buleuti e soprattutto degli eliasti, ossia dei 6000 giudici componenti le giurie popolari. Questo rese possibile la partecipazione dei cittadini meno abbienti alle cariche pubbliche, che venivano sorteggiate fra tutti i cittadini, a eccezione di quelle strettamente militari e finanziarie. Importante fu la riforma che Pericle attuò nel 457 a.C., aprendo l’accesso all’arcontato alla penultima classe censitaria, quella degli zeugiti. Il potere decisionale restò all’assemblea popolare, ma il potere esecutivo passò stabilmente al collegio degli strateghi, eletti tra le classi più elevate. Di tale organo fece poi parte stabilmente lo stesso Pericle, che, per riservare al popolo di Atene i benefici dell’impero marittimo, si adoperò per la promulgazione di una legge che escludeva dalla cittadinanza chi non fosse nato da genitori entrambi cittadini (451 a.C.). Ma se decisivo fu il suo contributo nella politica interna, non altrettanto si può dire del suo apporto nella politica estera, specie per la prima fase, quella più dinamica e aggressiva dell’imperialismo ateniese. È difficile precisare infatti quanto Pericle fosse ispiratore e direttamente responsabile dell’arrogante politica estera avviata dal demos dopo la rottura dell’alleanza con Sparta: la spedizione in Egitto, conclusasi con un disastro navale (460-54 a.C.); il contemporaneo conflitto con Corinto, provocato dall’alleanza ateniese con Megara (459 a.C.); la guerra con Sparta, esplosa a causa dei dissidi tra la Doride e la Focide (458-57 a.C.), e quella con Egina, chiusasi con la sottomissione dell’isola (459-56 a.C.); le campagne in Beozia, culminate nella sconfitta di Tanagra e nella vittoria di Enofita (457 a.C.); la spedizione navale di Tolmide intorno al Peloponneso (455 a.C.), seguita da quella condotta dallo stesso Pericle verso l’Acarnania (454-53 a.C.). Di fatto, solo nel 451 a.C., dopo la defezione di diversi alleati ionici, con il ritorno di Cimone dall’ostracismo e la stipulazione di una tregua quinquennale con Sparta, la politica estera di Atene sembrò ispirarsi nuovamente a criteri più moderati, avviandosi lungo i parametri tradizionali della guerra su un solo fronte, quella con la Persia. Al 450-49 a.C. si data una spedizione di Cimone contro Cipro occupata dai persiani, durante la quale il grande generale trovò la morte. Assai dubbia, già nell’antichità, è la stipulazione, che sarebbe avvenuta subito dopo (449 a.C.), di una pace con la Persia (la cosiddetta pace di Callia), che avrebbe previsto la rinuncia persiana al mare Egeo e l’interdizione alla costa occidentale dell’Asia Minore. Verso l’inizio degli anni Quaranta si constata una flessione della spinta imperialistica di Atene, anche se questa continuò a esercitare una funzione guida negli affari generali della Grecia. Quando in Beozia gli esuli aristocratici furono in grado di occupare alcune località, costringendo alla sconfitta presso Coronea lo stratego ateniese Tolmide (447-46 a.C.), si ebbe come effetto la liberazione della Beozia dal decennale predominio ateniese. Seguì subito dopo la rivolta dell’Eubea, cui fece fronte Pericle intervenendo con la flotta, benché fosse poi costretto a tornare precipitosamente indietro, avendo saputo della defezione di Megara sostenuta da una coalizione peloponnesiaca. Contemporaneamente, scaduta la tregua quinquennale (446 a.C.), si ebbe l’attacco degli spartani, arrestato a Eleusi dal pronto intervento di Pericle, che punì poi le città euboiche ribelli. L’anno successivo (446-45 a.C.) Atene stipulò con Sparta la cosiddetta pace dei trent’anni, che pose termine a quella che viene chiamata la prima guerra del Peloponneso (459-46 a.C.). Il trattato di pace comprendeva il ritorno di Megara nella lega peloponnesiaca, la conferma degli opposti schieramenti, la rinuncia di Sparta e Atene a ingerenze nelle rispettive aree di dominio, il riconoscimento della libertà delle città fino a quel momento autonome di aderire all’una o all’altra alleanza. Iniziò per Atene un periodo di relativa tranquillità, durante il quale si consolidò la politica sociale di Pericle, s’incrementò l’attività nel campo dell’edilizia pubblica (con i grandiosi lavori del Partenone, finanziati in gran parte con i tributi degli alleati), si sviluppò la democrazia nautica fondata sulla classe censitaria dei teti, s’intensificarono i traffici che fecero del Pireo il centro commerciale più importante del Mediterraneo, aumentò notevolmente il numero degli stranieri residenti (meteci), s’accrebbe il numero degli schiavi comprati sul mercato. Sul fronte interno si rafforzò l’opposizione con a capo Tucidide di Melesia, che venne ostracizzato probabilmente nello stesso anno in cui venne fondata la colonia panellenica di Sibari/Thurii (444-43 a.C.), mentre si stabilì un dominio più duro nell’ambito della lega marittima, riorganizzata in cinque distretti in funzione di una più rigorosa esazione del tributo. Nel 441 a.C. si ribellò l’isola di Samo retta da un governo oligarchico, una delle tre grandi alleate navali, con Chio e Lesbo. Pericle, intervenuto con la flotta, s’impadronì dell’isola e v’instaurò un regime democratico. Ma l’anno successivo una rivolta riportò al potere gli oligarchici. Dopo nove mesi di assedio, Samo si arrese, perdendo con l’autonomia il dominio su Amorgo e la flotta da guerra; fu costretta anche ad abbattere le mura e a pagare una forte indennità di guerra (439 a.C.). Con l’assoggettamento di Samo, quasi tutti gli alleati di Atene, tranne le città autonome di Chio e Lesbo, furono ridotti alla condizione di sudditi. Nel giro di qualche anno gli avversari di Pericle riuscirono a riorganizzarsi sino a intentare una serie di processi contro il suo entourage: prima contro lo scultore del Partenone, Fidia (438-37 a.C.), poi, approfittando del ritorno in patria di Tucidide di Melesia, contro Aspasia, la compagna di Pericle, e il filosofo Anassagora (333-32 a.C.). Nella seconda metà degli anni Trenta era ormai in crisi la tregua trentennale con Sparta a causa della forte ingerenza di Atene nella sfera degli interessi corinzi. Nel settembre 433 a.C. non bastò ad Atene stipulare un trattato strettamente difensivo con Corcira, colonia ribelle di Corinto, per evitare un suo intervento armato a protezione dei corciresi. Poco dopo Atene interferì nuovamente nell’area d’influenza corinzia: intimò alla città di Potidea, colonia di Corinto facente parte della lega delio-attica, di non accogliere più il supermagistrato che la metropoli le inviava ogni anno, e di abbattere le mura. Il rifiuto di Potidea, e la sua disdetta degli obblighi di città alleata di Atene, scatenò la guerra tra Atene e Potidea, sostenuta dal re macedone Perdicca II. Subito dopo fu adottata da Atene una misura senza precedenti, che doveva rivelarsi decisiva per lo scoppio del conflitto: fu fatto divieto ai megaresi di frequentare l’agorà attica e i porti dell’impero ateniese, il che significava danneggiare irrevocabilmente l’economia di una città facente parte della lega peloponnesiaca. Queste furono quelle che Tucidide chiama le aitíai, ossia le cause immediate, della grande guerra del Peloponneso, la cui causa vera (próphasis) fu però individuata dallo storico nella crescita di un organismo in piena espansione, qual era l’impero ateniese. Nell’estate del 432 a.C. l’assemblea spartana prima, e l’assemblea federale poi, dichiararono che Atene aveva violato la pace e decisero la guerra, che scoppiò all’inizio della primavera del 431 a.C. a causa di un fallito assalto, organizzato dai tebani e da alcuni esuli oligarchici, contro Platea, alleata di Atene.

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8. La guerra del Peloponneso

Ebbe così inizio l’epocale conflitto fra i greci. Dalla parte di Sparta erano schierati quasi tutti i peloponnesiaci (tranne gli argivi e le città dell’Acaia), i megaresi, i beoti, i locresi, i focesi e le colonie corinzie di Ambracia, Leucade, Anattorio; e dalla parte di Atene le città suddite dell’Egeo, i chii, i lesbi, i plateesi, i messeni stanziati a Naupatto dopo il loro esodo dal monte Itome nel 458 a.C., la maggior parte degli acarnani, le isole ioniche di Corcira e di Zacinto. La prima fase della guerra durò dieci anni (431-21 a.C.). Tra gli avvenimenti più importanti sono da annoverare la morte di Pericle nel febbraio del 429 a.C.; la rivolta delle città dell’isola di Lesbo (a eccezione di Metimna), capeggiata da Mitilene e la sua dura repressione da parte di Atene (428-27 a.C.); la guerra civile di Corcira tra democratici filoateniesi e oligarchici filospartani, conclusasi con un massacro degli oligarchici (427-25 a.C.); un tentativo ateniese di allargamento del conflitto in Sicilia contro l’espansionismo siracusano in aiuto dei leontini (427-24 a.C.); la presa di Pilo in Messenia da parte dell’ateniese Demostene, che utilizzò la flotta attica in navigazione verso la Sicilia, inaugurando una strategia che prevedeva l’attacco diretto alla basi nemiche (primavera 425 a.C.); la cattura a Sfacteria di 292 opliti lacedemoni (di cui 120 spartiati) nell’estate del 425 a.C., per merito dello stesso Demostene e del demagogo Cleone; l’occupazione dell’isola di Citera, di fronte alla costa meridionale della Laconia, da parte dello stratego Nicia, rivale di Cleone, e l’insediamento ateniese nel porto megarese di Nisea sul golfo Saronico (primavera 424 a.C.); la reazione di Sparta dopo il rifiuto delle offerte di pace da parte ateniese, con la caduta nelle mani del comandante spartano Brasida della ricca città di Anfipoli, caposaldo strategico ed economico dell’impero ateniese (estate 424-inverno 423 a.C.); la disfatta degli opliti ateniesi presso il santuario di Apollo Delio nel territorio di Tanagra a opera delle truppe beotiche (autunno 424 a.C.); la stipulazione di una tregua di un anno nel febbraio del 423 a.C. da parte di Lachete, amico di Nicia; la ribellione di Scione, città della penisola di Pallene, che fu punita da Atene in maniera durissima, perché il suo esempio servisse da monito alle altre città della Calcidica (estate-autunno del 423 a.C.); la ripresa della guerra allo spirare della tregua per impulso soprattutto di Cleone che, rieletto stratego per il 422-21 a.C., assunse vittoriosamente l’iniziativa di un attacco alle posizioni già ateniesi conquistate da Brasida; la morte dello stesso Cleone durante una ricognizione nelle vicinanze di Anfipoli, cui si accompagnò quella di Brasida (422 a.C.). La caduta dei due generali e problemi interni al Peloponneso, oltre alla stanchezza per le fatiche della guerra, predispose gli animi alle trattative e poi alla pace, che ebbe il nome di Pace di Nicia dal suo maggiore fautore. Si trattava di una tregua di cinquant’anni, che prevedeva il ripristino dello status quo ante bellum, da ottenere operando le restituzioni di Pilo e Citera agli spartani e di Anfipoli agli ateniesi, attuando la remissione reciproca dei prigionieri e accordando l’autonomia alle città ribelli della Calcidica. Ma l’accordo fu rifiutato, per la parte peloponnesiaca, da corinzi, elei, megaresi, beoti. Tale trattato di tregua fu poi rinforzato da un’alleanza tra Sparta e Atene, di durata anch’essa cinquantennale, voluta soprattutto da Sparta, dato lo scadere della pace trentennale tra Argo e Sparta e il timore che si ricostituisse un asse argivo-ateniese, cosa che di fatto accadde un anno dopo per iniziativa dell’ateniese Alcibiade, che, eletto stratego per l’anno 420-19 a.C., promosse un’alleanza difensiva con Argo, Mantinea ed Elide. Nell’inverno 419-18 a.C. si ebbe la denuncia ateniese della violazione della pace da parte di Sparta, cui tra l’altro si addebitava la mancata restituzione di Anfipoli. Scoppiò di nuovo il conflitto. Nell’agosto del 418 a.C. si svolse sotto le mura di Mantinea la più grande battaglia terrestre fino ad allora combattuta tra eserciti greci: ateniesi ed argivi subirono gravissime perdite e restarono sul campo entrambi gli strateghi ateniesi, mentre Sparta riprendeva le redini sui popoli riottosi del Peloponneso. Ad Atene la disfatta seminò inquietudine nel demos cittadino, che continuava a essere incline alla guerra, voluta sia dai ceti imprenditoriali che si arricchivano con le forniture militari, sia dai teti che traevano il loro sostentamento dall’imbarco sulle navi. Fu pronto a gestire il malcontento Alcibiade, che colludeva ora con il nuovo protettore del popolo, Iperbolo. Nell’estate del 416 a.C., mentre ad Argo veniva restaurato un regime democratico in chiave antispartana, Nicia riprese un progetto aggressivo contro una delle isole doriche delle Cicladi, Melo, finora rimasta neutrale, pur facendo parte della lega attica. Dall’estate del 416 all’inverno del 415 a.C. si svolse il lungo assedio dell’isola, che finì con la sua capitolazione a condizioni durissime: i maschi adulti furono massacrati, donne e bambini venduti schiavi. Nell’episodio di Melo si espresse in tutta la sua crudeltà la logica di potenza di Atene. Nella primavera del 415 a.C., in virtù di un trattato stipulato due anni prima (418-17 a.C.), la città di Segesta invocò l’aiuto di Atene contro Selinunte, alleata di Siracusa. Alcibiade propose di cogliere l’occasione per accrescere la potenza di Atene e aprire ampie possibilità politiche ed economiche. Inutilmente Nicia cercò di opporsi: l’assemblea votò per la spedizione e nominò strateghi plenipotenziari Alcibiade, Nicia e Lamaco. Una grande flotta stava ormai per partire (maggio 415 a.C.), quando furono trovate mutilate tutte le statue di Ermes erette nei quadrivi: era un presagio funesto per le sorti della spedizione. Nominata una commissione d’inchiesta, fra le numerose denunce e delazioni vi fu quella di uno schiavo che rivelava nefande parodie dei misteri di Eleusi svoltesi in case di aristocratici, alle quali avrebbe partecipato anche Alcibiade. Vera o falsa che fosse, la denuncia fu accolta per buona dai commissari. Invano Alcibiade chiese che il processo si facesse subito, prima della partenza della flotta, quando erano in città i soldati e gli equipaggi che potevano far pressione a suo favore; si decise invece di farlo ugualmente partire, lasciando pendere sul suo capo l’infamante accusa. In sua assenza i nemici personali ne approfittarono per metterlo sotto inchiesta e riuscirono infine a far spedire in Sicilia, dove Alcibiade stava tessendo una serie di alleanze, la nave di stato Salaminia con un mandato di comparizione ad Atene davanti ai tribunali del popolo. Alcibiade fingendo di obbedire, accompagnò la Salaminia con la sua nave fino a Thurii, ma qui fece perdere le sue tracce per riapparire poi a Sparta, dove imbastì la sua vendetta (inverno 415-14 a.C.). Così la grande spedizione in Sicilia fu privata del suo promotore. Caduto Lamaco nella tarda estate del 414 a.C., il comando supremo rimase nelle mani del solo Nicia, le cui incertezze e i cui indugi, insieme all’arrivo del comandante spartano Gilippo, furono tra le cause del disastro ateniese. Dopo il lungo assedio di Siracusa e una sconfitta navale, che costrinse gli ateniesi ad abbandonare le navi e a fuggire per via di terra, cadde nelle mani dei siracusani tutto l’esercito, compreso Nicia: con lui fu giustiziato lo stratego Demostene, giunto con rinforzi da Atene nel luglio del 413 a.C., mentre gli altri prigionieri furono trattenuti nelle latomie (fine agosto 413 a.C.). Finiva così l’ultimo miraggio dell’imperialismo ateniese. Intanto, nell’estate, gli spartani avevano ripreso la guerra in Grecia e occupato, su consiglio di Alcibiade, la fortezza di Decelea in Attica, dove installarono una guarnigione, da cui partivano spedizioni continue che devastavano e saccheggiavano le campagne di Atene. La notizia del disastro in Sicilia provocò numerose rivolte degli alleati, fra cui fu particolarmente grave quella di Chio. Ma gli ateniesi trovarono la forza per reagire, reperendo i fondi per la costruzione di una nuova flotta. Da parte sua, Sparta impresse una svolta alla guerra grazie all’appoggio finanziario e militare offerto dai due satrapi persiani Tissaferne e Farnabazo. Dopo la presa di Mileto a opera delle forze peloponnesiache (estate 412 a.C.), furono redatti ben tre testi di un trattato (412-11 a.C.), dei quali l’ultimo sembra costituire la sintesi e la formalizzazione degli altri due: Sparta rinunciava all’autonomia dei greci d’Asia, mentre la Persia concedeva ai lacedemoni cospicui aiuti finanziari per la guerra. Mentre il conflitto continuava con fasi alterne, l’isola di Samo, in cui era avvenuta una rivoluzione democratica che aveva fatto strage dei capi oligarchici, era divenuta la base operativa della flotta ateniese. Alcibiade, giunto nel frattempo presso la corte di Farnabazo, offriva la sua mediazione per sostituire all’intesa spartano-persiana un’alleanza tra Atene e la Persia, a condizione che in Attica il regime politico si trasformasse da democratico in oligarchico. Nella primavera del 411 a.C. Pisandro, partito da Samo, raggiunse con pochi altri Atene, facendosi latore di queste proposte e trovando un clima favorevole a una congiura ordita dalle eteríe aristocratiche. Di lì a poco gli oligarchici s’imposero col terrore ed eliminarono tutti i capi democratici: il regime democratico fu abolito e il governo della città affidato a un consiglio di Quattrocento membri. Il nuovo consiglio aveva il mandato di governare e di compilare una lista di 5000 cittadini possidenti, cui sarebbe stato affidato l’esercizio dei pieni poteri politici. Con il pretesto di sanare il deficit finanziario, fu altresì abolita la remunerazione dei pubblici uffici. Nel frattempo a Samo si era avviata un’insurrezione oligarchica contro il demos a opera di trecento congiurati: chiamati in aiuto, i soldati ateniesi intervennero a sostegno dei democratici dell’isola e deposero i precedenti strateghi e trierarchi ateniesi, sospettati di voler indurre l’esercito ad accettare, come ad Atene, un regime oligarchico. Si erano così formati due regimi ateniesi contrapposti nell’unica polis: quello oligarchico della città di Atene e quello democratico degli equipaggi della flotta ateniese di stanza a Samo. Preoccupati per gli avvenimenti nell’isola, invano gli oligarchi di Atene cercarono di placare gli uomini della flotta di Samo tentando di mostrare che, una volta passati i poteri ai 5000, nulla sarebbe stato diverso dal passato. Nell’agosto del 411 a.C. gli opliti ateniesi, incitati dal moderato Teramene, che pur faceva parte del collegio dei Quattrocento, insorsero contro gli oligarchi, abolirono il potere dei Quattrocento e decisero di istituire al suo posto un governo che fosse espressione dei 5000 cittadini più abbienti (tarda estate del 411 a.C.). Intanto nell’agosto le triremi ateniesi sconfiggevano in due scontri navali gli spartani nelle acque dell’Ellesponto. Nella primavera successiva la flotta comandata da Alcibiade, richiamato a Samo dai soldati ateniesi, conseguiva a Cizico una grande vittoria e catturava l’intera armata peloponnesiaca. Conseguenza immediata fu il ritorno in Attica della democrazia, con il consiglio dei Cinquecento e il sistema delle indennità pubbliche. Nuovi successi nell’Ellesponto, che portarono al recupero delle posizioni perdute, crearono i presupposti per il ritorno di Alcibiade ad Atene. Già eletto alla strategia nella primavera del 408 a.C. e rientrato in patria, Alcibiade riprese il comando delle operazioni con una flotta di cento navi, ma nella primavera del 407 a.C. lo spartano Lisandro sconfisse l’armata ateniese a Notion, all’imboccatura del porto di Efeso, mentre Alcibiade era assente. Vittima del malcontento del popolo, Alcibiade fu deposto dall’assemblea e sostituito da Conone. Si ritirò in volontario esilio nelle sue fortezze dell’Ellesponto, dove qualche anno dopo fu fatto assassinare da Farnabazo su istigazione di Lisandro. Nella tarda estate del 406 a.C. la flotta ateniese e quella spartana vennero a una nuova battaglia presso le isole Arginuse, situate tra Lesbo e il continente asiatico: questa volta gli ateniesi riportarono una grande vittoria, che però pagarono a caro prezzo perdendo 25 navi nel mare in tempesta. Degli otto strateghi che avevano comandato l’armata vittoriosa, due si salvarono non rientrando in patria, gli altri sei, fra i quali erano Trasillo e il figlio di Aspasia e di Pericle, vennero processati e condannati a morte per aver omesso di soccorrere i naufraghi. L’estate seguente (405 a.C.) la flotta ateniese si fece sorprendere da quella spartana guidata da Lisandro presso Egospotami sull’Ellesponto, dove fu vinta e distrutta. Tutti gli strateghi furono fatti prigionieri, a eccezione di Conone che riuscì a fuggire con poche navi; tremila ateniesi furono giustiziati. Lisandro, dopo aver ricevuto la notizia della capitolazione delle città della lega ateniese che ancora resistevano (ma non di Samo), comparve con 150 navi nel golfo Saronico, espugnò Egina e schierò la flotta dinanzi al Pireo. Assediati per terra e per mare, gli ateniesi tentarono un’estrema resistenza, respingendo dissennatamente le moderate richieste di Sparta; infine decisero di arrendersi, grazie alla mediazione di Teramene. Questi, nominato ambasciatore plenipotenziario, si recò a Sparta a trattare la pace, che fu infine stipulata alle seguenti condizioni: Atene doveva rinunciare a tutti i possedimenti esteri comprese le cleruchie; abbattere le lunghe mura e le fortificazioni del Pireo; consegnare le navi a eccezione di dodici; revisionare la costituzione; entrare in alleanza con Sparta, accettandone gli stessi amici e nemici; richiamare i fuoriusciti. L’assemblea popolare accettò le condizioni. Così “Lisandro mandò a prendere molte suonatrici; poi, al suono del flauto, fece abbattere le mura e dar fuoco alle triremi, mentre i confederati, incoronati di fiori, tripudiavano: pensavano che quel giorno avrebbe segnato l’inizio della libertà per la Grecia” (Plutarco). In realtà si apriva un nuovo periodo di dominio: quello di Sparta (404 a.C.)

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9. L’egemonia spartana

Installata una guarnigione spartana sull’Acropoli, Lisandro, d’accordo con Teramene e con altri oligarchi, impose l’abolizione del regime democratico e una commissione di trenta costituenti, che furono poi chiamati i Trenta tiranni, incaricati di redigere la costituzione “patria” (giugno 404 a.C.). Questi limitarono i diritti politici a tremila cittadini abbienti, colpendo con condanne a morte, esili e confische tutti coloro che si erano compromessi con il regime popolare. Nella città regnava il terrore. Crizia, uno dei Trenta, che si proponeva di fare di Atene un’altra Sparta, venne in conflitto con Teramene e ne procurò la condanna a morte per tradimento. Nel frattempo i capi democratici fuoriusciti si erano raccolti a Corinto, a Megara e a Tebe. Verso la fine dell’anno o l’inizio del successivo, Trasibulo e Anito, capi dei fuoriusciti democratici rifugiatisi a Tebe, occuparono di sorpresa, con settanta seguaci, la posizione attica di File presso il confine attico-beotico, favoriti dal fatto che la reazione armata dei Trenta fu impedita da un’imprevista nevicata. Trasibulo occupò poi il Pireo, dove fu raggiunto da altre migliaia di fuoriusciti, tra cui molti meteci, che si rafforzarono sulla collina di Munichia (aprile-maggio 403 a.C.). Là si schierò Crizia con le milizie cittadine dei Tremila, ma fu sconfitto trovandovi la morte. Il re spartano Pausania accordò segretamente a Trasibulo di restaurare la democrazia, purché Atene mantenesse l’alleanza con Sparta e fosse concessa un’amnistia ai fautori degli oligarchi, fatta eccezione per i Trenta. Era così inevitabile che il nuovo regime democratico avesse un carattere assai più prudente sia in politica interna che in politica estera. I democratici moderati e i terameniani fecero accettare l’idea di un necessario controllo delle leggi già esistenti e di quelle future: a tal fine fu designata una commissione di nomoteti, che finì per diventare un’istituzione permanente, mentre le accuse pubbliche destinate a proteggere le leggi vennero rafforzate. Vittima del nuovo clima fu il filosofo Socrate, già maestro di Alcibiade e Crizia, condannato a morte per aver corrotto i giovani, diseducandoli al rispetto delle leggi e della tradizione patria (399 a.C.). Intanto a Sparta, oltre a questioni irrisolte di politica interna e costituzionale, si ponevano gravi problemi di politica estera: la vittoria era stata conseguita grazie agli aiuti finanziari e navali dei persiani, ma gli spartani si trovavano così a mettere a repentaglio la propria immagine di fronte ai greci. Posti di fronte al dilemma se sacrificare la libertà delle città greche d’Asia o rompere con la Persia, furono costretti a scegliere la seconda alternativa. Sorto un conflitto tra il re Artaserse II e il fratello Ciro per la successione al trono di Dario II, Sparta decise di appoggiare Ciro, reclutando in suo favore 12.000 mercenari greci. Nel 401 a.C. gli eserciti di Artaserse e Ciro si scontrarono nella battaglia di Cunassa, in Mesopotamia: nonostante l’ottima prova fornita dai soldati greci, Ciro ebbe la peggio e cadde sul campo. I superstiti greci si ritirarono verso il Mar Nero, sotto la guida del cavaliere ateniese Senofonte, che raccontò la storia nella sua Anabasi. Quando nel 400 a.C. il satrapo Tissaferne impose la sottomissione alle città greche della costa asiatica, Sparta accolse le loro richieste di aiuto. Dopo alcune infruttuose campagne, la guerra riprese vigore nel 396 a.C. sotto il comando del re Agesilao, grande generale erede della politica aggressiva di Lisandro: in quello stesso anno egli vinse Artaserse ed espugnò Sardi. Verso la fine dell’inverno 395 a.C. preparava una nuova spedizione, il cui obiettivo doveva essere la Cappadocia, quando fu richiamato urgentemente, sotto l’incombere di pericoli che minacciavano Sparta più da vicino. Per il momento la guerra con la Persia si concluse con una pace di compromesso: il Gran Re concedeva l’autonomia alle città greche d’Asia a patto che versassero un tributo. In Grecia e nell’Egeo si era messa in moto, nel corso del 395 a.C., la ribellione all’egemonia spartana non soltanto di città che una volta facevano parte della lega delio-attica, ma anche di vecchi alleati di Sparta (tebani, corinzi e arcadi), e di suoi nemici storici (gli argivi), che costituirono una lega antispartana, sostenuta dal denaro persiano. Anche Atene, sotto l’impulso di Trasibulo, decise di rompere il trattato che la legava a Sparta e di stringere alleanza con Tebe, Argo e Corinto. L’esercito della coalizione fu sconfitto nell’agosto 394 a.C. a Coronea in Beozia da Agesilao, ma nello stesso tempo la flotta spartana fu sconfitta a Cnido dalla flotta persiana comandata da Conone, mentre in Grecia il conflitto spostava il suo centro di gravità nell’area dell’Istmo, dove gli spartani vinsero ancora i collegati a Nemea: per questo, successivamente, la guerra decennale prese il nome di corinzia (395-86 a.C.). Dopo la vittoria a Cnido i presìdi e i governatori spartani furono cacciati dalle città dell’Egeo e Conone poté finalmente rientrare ad Atene, dove avviò la ricostruzione delle lunghe mura e del Pireo con l’ausilio dei sussidi finanziari persiani, con i quali anche i corinzi poterono allestire una flotta. Di lì a poco Sparta, allarmata dai successi di Atene, si riavvicinò alla Persia, ribaltando ancora una volta la propria politica nei suoi riguardi (393-92 a.C.). Appena si diffuse la voce di una possibile intesa spartano-persiana, giunsero a Sardi i rappresentanti degli ateniesi, degli argivi e dei tebani, facendola fallire. Finalmente si venne a un chiarimento grazie all’attività diplomatica pazientemente condotta per anni da Antalcida, sicché nel 386 a.C. spartani e persiani arrivarono alla stipulazione della pace alle seguenti condizioni: le città greche dell’Asia rimanevano sotto il potere del Gran Re; le altre città greche dell’Egeo dovevano essere autonome, tranne Lemno, Imbro e Sciro riconosciute come dominio ateniese; il re di Persia avrebbe fatto guerra contro chiunque dei greci non avesse accettato i termini della pace. La “pace comune” (koinè eiréne) era fondata sul principio della libertà e dell’autonomia delle poleis, ma chi la imponeva era un re straniero e chi la garantiva militarmente era una potenza greca, Sparta, che perseguiva suoi fini egemonici. Nel 382 a.C. l’armosta spartano Febida s’impadronì della rocca di Tebe e instaurò nella città un governo oligarchico con un presidio spartano. Non si fece attendere la reazione tebana: nell’inverno 379-78 a.C. un gruppo di fuoriusciti capeggiati da Pelopida entrò di notte in Tebe e massacrò gli oligarchi, espulse la guarnigione spartana e restaurò la democrazia. Quindi Atene e Tebe respinsero una spedizione spartana comandata dal re Cleombroto, intervenuto in Beozia per ristabilire l’autorità di Sparta. Il fallito attacco a sorpresa dell’armosta spartano Sfodria, che da Tespie aveva tentato di occupare il Pireo, e l’arrivo in Beozia delle truppe spartane guidate da Agesilao (primavera-estate 378 a.C.), sciolsero l’atteggiamento cauto degli ateniesi, che erano nel frattempo impegnati nella ricerca di nuove alleanze: essi inviarono un esercito in Beozia a sbarrare la strada agli spartani, formalizzando un patto di alleanza con Tebe. Intanto attorno ad Atene (che già aveva raccolto come alleate Chio, Mitilene e Metimna, Bisanzio, Rodi e la stessa Tebe) si costituiva una nuova lega marittima e militare (febbraio-marzo 377 a.C.), che nel corso di vent’anni portò il numero degli alleati a 75 membri. Nell’atto di fondazione della lega Atene prendeva l’impegno di garantire la libertà e l’autonomia di tutti gli stati afferenti e assicurava loro il possesso del territorio e la capacità di darsi il governo che volevano; si proclamava altresì che nessuno di essi avrebbe dovuto accogliere presìdi o magistrati stranieri né pagare tributo, se non contribuzioni volontarie. A tali garanzie, che rinnegavano l’imperialismo ateniese del V secolo e si contrapponevano alla recente dominazione spartana, faceva da corollario l’istituzione di un consiglio federale (sinedrio), a cui Atene poteva presentare mozioni proprie, riservandosi il comando delle operazioni in guerra. In tal modo la pace di Antalcida venne messa abilmente a frutto dagli ateniesi, che usarono il principio di libertà e di autonomia dei singoli stati proprio, e in maniera esplicita, contro Sparta.

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10. L’ascesa e l’egemonia tebana

Mentre Atene sfruttava a proprio vantaggio tutti gli spazi che le erano concessi dal nuovo assetto interstatale greco, Tebe continuava la sua prepotente ascesa: dopo aver cacciato dalla Beozia i presìdi spartani (inverno 379-78 a.C.) e nuovamente sottomesso le città beotiche divenute indipendenti in virtù della pace di Antalcida, ricostituì la confederazione beotica, sostituendo nelle città gli antichi governi oligarchici con regimi democratici. Alle riforme politiche si accompagnò una riorganizzazione militare. L’ascesa di Tebe fu guidata da Pelopida ed Epaminonda, che avevano eccezionali doti militari e diplomatiche e un programma politico di ampio respiro: essi miravano a ridare autonomia a quelle popolazioni del Peloponneso (arcadi ed elei) e della Grecia centrale (focesi), che un tempo erano unite in entità confederali di carattere etnico ed erano poi cadute sotto il dominio o l’influenza di Sparta. Diffidenti per lo sviluppo ai loro confini della potente confederazione beotica, gli ateniesi stipularono un trattato di pace con Sparta (autunno 375 a.C.), che nei suoi intenti riguardava tutti i greci: una nuova koinè eiréne, questa volta promossa da elleni, che si rivelò però di scarsa efficacia. Nonostante la pace, lo Ionio rimaneva uno dei punti caldi del confronto fra Sparta e Atene: gli interventi dell’ateniese Timoteo nelle vicende di Zacinto infransero la tregua e indussero Sparta a intervenire contro Corcira in due riprese (374 e 373 a.C.). Ma quando Tebe, pur appartenendo nominalmente alla lega attica, distrusse Platea (373-72 a.C.), le antiche rivali si riavvicinarono ancora una volta. Nell’estate del 371 a.C., su iniziativa del Gran Re, si tenne a Sparta una nuova conferenza di pace, sempre sulla base del principio di autonomia degli stati greci, cui parteciparono anche Dionisio I di Siracusa e Aminta III di Macedonia: gli spartani s’impegnarono a ritirare tutti i loro governatori e presìdi militari; gli ateniesi ottennero una conferma alle loro pretese su Anfipoli e sul Chersoneso tracico. Tra gli stati appartenenti alla lega attica figurava nel documento di pace anche Tebe, che però rifiutò di firmare perché l’accordo metteva in discussione l’esistenza della lega beotica. La nuova intesa tra Sparta e Atene fu il preludio alla sfida che Tebe lanciò a Sparta. Un esercito spartano, al comando del re Cleombroto, marciò su Tebe, ma venne affrontato presso Leuttra da quello tebano guidato da Epaminonda. Per quanto inferiori di numero, i tebani riuscirono vincitori grazie a un’audace innovazione introdotta da Epaminonda: l’uso della “tattica obliqua”. Fu una disfatta da cui Sparta non si riprese più. Iniziava così il breve decennio dell’egemonia tebana (371-62 a.C.). Intanto il declino di Sparta apriva nel Peloponneso un periodo di disordini, durante il quale il movimento democratico fino allora represso conquistò posizioni ovunque, specialmente ad Argo dove furono massacrati ben mille oligarchi. Nell’autunno del 370 a.C. gli arcadi dettero vita a uno stato federale, che aveva come città guida la democratica Mantinea, ricostruita dopo un sinecismo. Un intervento di Agesilao per l’autonomia di Tegea fornì ai tebani il pretesto tanto atteso per invadere la Laconia, con l’intento di eliminare definitivamente Sparta. Nell’impossibilità di raggiungere la città, Epaminonda puntò verso la Messenia, i cui abitanti avevano defezionato e iniziato la costruzione della città di Messene sul monte Itome. I successi di Epaminonda nel Peloponneso indussero Atene e Sparta a riavvicinarsi ulteriormente e a stipulare un patto di mutua difesa su basi paritarie, che segnò una svolta decisiva nei rapporti tra le due città (primavera 369 a.C.). Mentre Epaminonda era impegnato nel Peloponneso, l’altro protagonista tebano, Pelopida, operava nella Grecia settentrionale per rafforzarvi la presenza e l’influenza beotica. Nell’estate del 366 a.C. conseguì un brillante successo diplomatico nelle trattative svoltesi a Susa sotto l’egida del Gran Re, riuscendo ad avere la meglio nella disputa tra le maggiori città greche per procacciarsi il favore di Artaserse II. L’accordo concluso tra persiani e beoti comprendeva come clausola essenziale il riconoscimento dell’indipendenza messenica e come corollario lo smantellamento della flotta ateniese, autentico incubo dei persiani. Il successo tebano produsse un orientamento nuovo della politica ateniese, segnato da un’alleanza difensiva con gli arcadi senza che fosse disdetta quella con Sparta, sicché Atene si trovò nella situazione di dover appoggiare gli uni contro gli altri, quando di volta in volta uno dei due alleati si fosse visto aggredito. Intanto Atene sottrasse ai persiani l’isola di Samo (365 a.C.), insediandovi 2000 cleruchi attici; rimise piede nel Chersoneso tracico, riconquistò Pidna e Metone, fece di Potidea un’altra cleruchia attica, fallendo però nell’occupazione di Anfipoli (364 a.C.). Sembrava materializzarsi il sogno di un nuovo impero marittimo, il cui rilancio poteva essere favorito dalla caotica situazione della Grecia e, soprattutto, dalla stasi delle iniziative persiane. Nello stesso anno i tessali richiesero l’intervento tebano contro il tiranno Alessandro di Fere: a Cinoscefale Pelopida conseguiva la vittoria, pagata però con la perdita della vita. Rimaneva Epaminonda, che con l’ausilio di una grande flotta cominciò a interferire nell’Egeo settentrionale, un’area controllata da Atene: Bisanzio fu espugnata, Chio e Rodi si schierarono con i tebani. Intanto nel Peloponneso erano esplosi violenti conflitti: dapprima tra elei e arcadi per il possesso della Trifilia (365 a.C.) e la direzione dei giochi olimpici, ora affidata dagli arcadi ai pisati (364 a.C.); poi tra gli arcadi stessi, la cui lega subì un’aperta frattura (primavera 362 a.C.). Poiché Mantinea e Sparta stavano sempre più avvicinandosi l’una all’altra, i beoti videro profilarsi la minaccia di una forte coalizione peloponnesiaca. Chiamati in soccorso, i tebani installarono a Tegea una guarnigione e sequestrarono temporaneamente i rappresentanti di tutte le città arcadiche, che vi si erano riuniti per stipulare una pace con l’Elide. Nell’estate Epaminonda scese ancora una volta nel Peloponneso per un’azione contro Sparta, che però fallì per il contrattacco di Agesilao. Fiducioso nella potenza del suo esercito e sostenuto dagli alleati sicioni, argivi, arcadi e messeni, attaccò battaglia sull’altopiano di Mantinea. L’urto dei beoti fu irresistibile: passarono attraverso le file avversarie “come la prua di una nave” (Senofonte), ma la morte di Epaminonda impedì loro di gustare la vittoria. Con la scomparsa del generale tebano, si aprì, per l’intero mondo greco, un periodo di grande incertezza militare e politica. L’ennesima koinè eiréne, da cui si dissociò Sparta, sancì lo status quo: l’indipendenza della Messenia e l’esistenza delle due Leghe arcadiche, l’una intorno a Mantinea, l’altra intorno a Tegea e a Megalopoli, confinante con la Laconia e antispartana. Mentre finiva l’epoca della polis, anche la lega marittima di Atene mostrava chiari segni di cedimento. Il sistema di alleanze guidato da Atene aveva perduto la sua ragion d’essere fin da quando Atene si era riconciliata con Sparta. Inoltre un vivo malcontento si era impadronito degli alleati in quanto le continue guerre avevano indotto Atene ad aumentare le contribuzioni, che da volontarie erano divenute obbligatorie, mentre le risorte mire imperialistiche le avevano fatto persino dimenticare gli impegni assunti nel documento di rifondazione della lega. Questo disagio degli alleati sfociò nel 357 a.C. in una rivolta generale, che ebbe il nome di “guerra sociale” (dal latino socii, alleati) e fu provocata dal rifiuto di Chio, ritornata nell’alleanza ateniese, di versare la contribuzione di guerra. Appoggiati da Mausolo, satrapo della Caria, i ribelli tennero testa alle forze ateniesi, finché nel 355 a.C. Atene si vide costretta a riconoscere l’indipendenza delle città che avevano defezionato. Le residue ambizioni di Sparta, Atene e Tebe crearono le condizioni per un nuovo conflitto, che fu dapprima ristretto al mondo delle poleis, ma poi si sviluppò e concluse con l’intervento di un nuovo soggetto politico, la Macedonia.

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11. L’età di Filippo II

Nel 359 a.C., alla morte del fratello Perdicca III, succedeva sul trono della Macedonia il giovane Filippo II, che prendeva in mano il governo di un paese ancora arretrato, le cui risorse principali erano l’agricoltura, la pastorizia e lo sfruttamento delle foreste. Attorno al re un centinaio di nobili godeva di una certa autonomia e componeva l’élite dell’assemblea del popolo in armi. La Macedonia era rimasta fino a quel momento ai margini della grande politica sia per le continue lotte dinastiche, sia per la minaccia dei popoli barbari circostanti, soprattutto gli illiri. Il giovane sovrano riorganizzò il paese cominciando dall’esercito, mentre in politica estera riuscì ad attrarre dalla propria parte Atene con un trattato segreto, in cui le prometteva Anfipoli in cambio di Pidna: presto disatteso alla dichiarazione di guerra da parte di Atene (357 a.C.), il re rispose alleandosi coi calcidici, la maggiore potenza settentrionale insieme alla Macedonia. Peoni, traci e illiri formarono una lega nordica alleata di Atene (356 a.C.), ma furono a più riprese sconfitti, subendo decurtazioni del loro territorio: in tal modo divenne schiacciante la superiorità militare della Macedonia nella Grecia settentrionale. Nell’estate 354 a.C. si offrì a Filippo l’occasione per un intervento negli affari della penisola greca, dove si combatteva la terza guerra sacra, scoppiata nel 356 a.C. tra i focesi, che si erano impadroniti del santuario di Delfi, e i tebani, che ancora coltivavano pretese egemoniche nell’ambito dell’anfizionia. Filippo trovò il modo di scendere in battaglia, adducendo il pretesto di difendere le città tessale da Licofrone, il tiranno di Fere alleato dei focesi, su cui conseguì una grande vittoria presso Pagase (352 a.C.). Da quel momento la Tessaglia, pur rimanendo formalmente autonoma, fu controllata da Filippo e riconobbe l’egemonia macedone. Invano il re cercò di forzare il passaggio delle Termopili; pensò allora di evitare uno scontro con Atene, ben consapevole che, per poter attuare i progetti di egemonia in Grecia e di espansione fino all’Ellesponto, aveva bisogno della sua flotta. Intanto ad Atene l’esito infelice della guerra sacra aveva contribuito ad aumentare il desiderio di una pace possibilmente solida e duratura, che ora sembrava garantita dal prevalere del partito dei pacifisti e dalla presenza al vertice dello stato di un uomo attento al bilancio finanziario come Eubulo. Dopo due vittoriosi interventi di Filippo in aiuto dei beoti contro i focesi (348 e 347 a.C.), Atene si rassegnò ad avviare trattative di pace, nonostante l’opposizione dell’oratore Demostene, che pur fece parte, insieme a Eschine e Filocrate, della delegazione inviata a Filippo. La pace, che ebbe il nome da Filocrate, fu stipulata sul principio dello status quo, per cui Atene e la Macedonia mantennero i territori in loro possesso (346 a.C.). Quindi Filippo riunì il consiglio anfizionico di Delfi, nel quale fu deciso che i due voti dei focesi passassero alla Macedonia e che fosse attribuita a Filippo la presidenza dei giochi pitici: in tal modo il re dei macedoni si presentava al mondo delle città greche nella posizione più legittima possibile. Spregiudicato fu il suo procedere verso gli altri stati, ma quando entrò nelle aree di diretta frizione con Atene (nel Chersoneso tracico, a Perinto e Bisanzio), fu attento ad adottare una politica di guerra limitata (342-41 a.C.). Di fronte al rinnovato pericolo, gli ateniesi decisero di agire e già all’inizio del 340 a.C. ottennero buoni risultati: si formò quella che venne chiamata “la lega delle leghe”, che comprendeva leghe di poleis (i resti della lega navale ateniese, la lega euboica e, da ultimo, la lega beotica) e poneva di fatto sullo stesso piano tutti i partecipanti. Nell’autunno del 340 a.C. Atene decise di rompere la pace, ma Filippo, per non entrare in collisione aperta con la flotta ateniese, rinunciò all’assedio di Bisanzio e rientrò in Macedonia quando ormai stava per scoppiare in Grecia una nuova guerra sacra (autunno 339 a.C.). Fattosi dare dal consiglio anfizionico il comando delle operazioni, Filippo ne approfittò per intervenire in Beozia, con la speranza di avere dalla sua Atene, ma Demostene riuscì ad allineare su una posizione ostile sia Atene che Tebe. Nell’agosto del 338 a.C. si svolse la battaglia decisiva nella pianura di Cheronea in Beozia tra i macedoni e i collegati greci (beoti, corinzi, achei, ateniesi). La cavalleria macedone, comandata dal giovanissimo Alessandro, infranse la resistenza del battaglione sacro tebano, mentre Filippo ebbe cura di non combattere frontalmente con gli opliti di Atene. Molti degli alleati caddero sul campo, 2000 ateniesi furono fatti prigionieri. Nel trattato di pace Atene cedeva alla Macedonia il Chersoneso tracico e otteneva in cambio la città di Oropo sempre contesa ai tebani; scioglieva la lega navale e aderiva alla lega panellenica che Filippo si accingeva a fondare; riotteneva inoltre i prigionieri di Cheronea senza pagamento di riscatto, mentre Filippo s’impegnava a non varcare con l’esercito i confini dell’Attica. Tebe fu trattata più duramente: doveva sciogliere la lega beotica e accettare un presidio macedone. Filippo nell’autunno entrò con un esercito nel Peloponneso, devastò la Laconia e trasse dalla sua parte argivi, arcadi e messeni. Nell’inverno del 338-37 a.C. convocò a Corinto i rappresentanti di tutti gli stati greci (eccetto Sparta) per proclamare una pace generale e l’autonomia di tutti gli stati greci, facenti parte di un Consiglio comune. Alla koinè eiréne si collegò nella primavera seguente la fondazione di un’alleanza difensiva e offensiva tra Filippo e gli elleni confederati, nell’ambito della quale il comando generale per terra e per mare spettava al re macedone. Tutto era ormai pronto per la guerra contro il barbaro, che fu dichiarata nell’autunno 337 a.C., prendendo a pretesto l’intervento persiano in Europa a difesa di Perinto. Di lì a poco Filippo sposava Cleopatra, una giovane della più alta nobiltà macedone, preferendola a Olimpiade, madre di Alessandro. Nella primavera del 336 a.C. una forte avanguardia macedone, comandata da Parmenione e da Attalo (zio di Cleopatra), varcava l’Ellesponto come testa di ponte per la guerra incipiente. Ma nell’estate successiva Filippo fu assassinato nel corso delle fastose nozze di riconciliazione da lui stesso disposte tra Cleopatra, figlia sua e di Olimpiade, e il re dei Molossi Alessandro, fratello della regina.

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12. L’età ellenistica fino alla conquista romana. Le conquiste di Alessandro Magno

Succedette al trono di Macedonia Alessandro, figlio di Filippo e di Olimpiade, che eliminò subito il cugino Aminta e quanti ne avevano sostenuto i diritti. Il drammatico trapasso del potere in Macedonia rinfocolò in Grecia le speranze di poter vanificare i risultati della battaglia di Cheronea: ad Ambracia, in Etolia, a Tebe e soprattutto ad Atene si registrava un fermento antimacedone. Animavano la resistenza indipendentistica ateniese i rhetores Demostene e Iperide. Ma ben presto Alessandro provvide ad assicurarsi le più importanti posizioni già acquisite da Filippo: in Tessaglia, nell’ambito dell’anfizionia delfica e nel sinedrio ellenico di Corinto. Poi nella primavera del 335 a.C. affrontò al nord triballi, geti, peoni e illiri. Alla falsa notizia della sua morte in battaglia, si determinò ad Atene e a Tebe un moto di rivolta antimacedone, alimentato dagli agenti del Gran Re. Alessandro concentrò la sua reazione su Tebe: dopo aver condotto fulmineamente il suo esercito dal confine illirico in Beozia, sconfisse i tebani e occupò la città (autunno 335 a.C.). Deliberò che Tebe fosse rasa al suolo e la sua popolazione venduta schiava. In quella occasione Atene si congratulò spudoratamente con il re, mandando avanti un’ambasceria guidata da Demade. Alla fine del 335 a.C. il consiglio della lega ellenica decise di dare inizio all’offensiva contro la Persia. Così nella primavera successiva Alessandro lasciava il governo della Macedonia ad Antipatro, partendo con una forza di 40.000 uomini (macedoni, greci, alleati balcanici) e con una flotta di 160 navi, quasi tutta di alleati greci; conduceva con sé anche uno staff di tecnici e uomini di cultura. Appena giunto in terra asiatica, visitò Troia e rese onore alla tomba di Achille, di cui si riteneva discendente. Il comando delle forze persiane era affidato al rodio Memnone, il quale intendeva attirare Alessandro all’interno del paese e contrattaccarlo alle spalle, fino a spostare in Grecia l’epicentro del conflitto; ma i satrapi preferirono affrontare subito Alessandro sulle rive del fiume Granico, nella Frigia settentrionale (maggio-giugno 335 a.C.). Fu una vittoria greca, sebbene non decisiva. Facile fu l’avanzata di Alessandro fino a Mileto, dove incontrò una qualche resistenza, instaurando dappertutto regimi democratici al posto dei governi oligarchici filopersiani; quindi rimandò a casa la gran parte della flotta offertagli dalle città greche. Conquistata Sardi, restituì ai Lidi le loro antiche leggi, presentandosi come liberatore dei popoli asiatici dall’egemonia persiana. Sottomessa l’intera Asia Minore, Alessandro si preparò ad affrontare il grosso dell’esercito persiano, che si stava raccogliendo nella Siria settentrionale sotto la guida del debole re Dario III Codomanno. Lo scontro tra i due eserciti avvenne a Isso, nella pianura costiera siriaca: Dario perse il controllo delle operazioni, si ritenne sconfitto prima del tempo e si diede alla fuga (autunno 333 a.C.). Con un immenso bottino, caddero nelle mani del macedone la madre, la moglie e i figli del re persiano, mentre la notizia dell’inattesa vittoria di Alessandro placava momentaneamente in Grecia i fermenti ostili. Conquistata la Fenicia e impadronitosi della sua potente flotta, Alessandro procedette verso l’Egitto, la cui conquista rientrò nel piano strategico complessivo, che prevedeva il possesso delle aree costiere e l’acquisizione di una solida base operativa, che gli avrebbe procurato ricchezze e rifornimenti per il prosieguo della guerra: l’impresa culminò con la fondazione di Alessandria e con la visita al santuario di Siwah, dove l’oracolo salutò Alessandro con il titolo di “figlio di Ammone”, attribuito ai faraoni (inizio estate 331 a.C.). Quindi il macedone ritornò in Siria e avanzò verso l’alta Mesopotamia, dove lo attendeva Dario per lo scontro decisivo, che avvenne nella pianura dell’alto Tigri, presso Gaugamela (ottobre 331 a.C.). Ancora sconfitto, il persiano fu costretto a darsi alla fuga, mentre caddero in mano di Alessandro immensi tesori e decine di migliaia di prigionieri. Fu allora che il macedone fu proclamato ufficialmente re dell’Asia. Seguirono le conquiste di Babilonia, di Susa e di Persepoli, dov’erano le tombe degli Achemenidi e un deposito di 120.000 talenti. Qui, con un gesto simbolico, Alessandro diede ordine di dare alle fiamme il palazzo imperiale: la guerra di rappresaglia condotta da lui e dagli elleni confederati era così conclusa e il sacrilegio perpetrato da Serse nei santuari greci era vendicato. Dario, intanto, fu ucciso a tradimento da Besso, un membro della famiglia degli Achemenidi, satrapo della Battriana, che si era fatto incoronare re. La campagna asiatica, che iniziò con l’inseguimento e la cattura di Besso (329 a.C.), durò tre anni (329-27 a.C.) e portò l’esercito macedone a valicare la catena del Paropomiso (Hindukush). Il matrimonio di Alessandro con Rossane, figlia di Ossiarte, signore della Battriana, fu un gesto di riconciliazione con il popolo persiano, volto a significare e a rinsaldare i legami tra il re macedone e l’elemento iranico, che però ebbe ripercussioni negative sui rapporti già tesi del sovrano con le alte sfere macedoni. Alessandro si volse quindi alla conquista dell’India, mirando a ricostituire l’intera struttura del confine naturale e storico dell’antico impero persiano (l’Indo e i suoi emissari), ma, raggiunto il corso più esterno dell’odierno Punjab, fu costretto a prendere la via del ritorno (luglio 325 a.C.). Tornato in Mesopotamia (primavera 324 a.C.), Alessandro si dedicò alla sistemazione dell’impero, confrontandosi con gravi problemi di carattere organizzativo concernenti in particolare il rapporto tra greco-macedoni e persiani. Una risposta programmatica e simbolica fu data dal re con le nozze in massa celebrate a Susa tra 80 ufficiali macedoni e altrettante nobili persiane. Già sposato a Rossane, Alessandro sposava ora Statira, figlia di Dario III, e Parisatide, figlia di Artaserse Oco. Queste celebrazioni non furono accolte di buon grado dai macedoni, ma ancor più gravi furono le loro reazioni alla riforma dell’esercito avviata da Alessandro. Sul Tigri il re dovette fronteggiare l’ammutinamento dei veterani, desiderosi di ritornare in patria e gelosi dei loro privilegi. In quello stesso anno (324 a.C.) il re avanzò ai greci la richiesta inusitata di tributargli onori divini e promulgò l’editto che imponeva il rimpatrio di tutti gli esiliati. Trasferitosi a Babilonia, Alessandro morì lasciando un grande impero multietnico e un cumulo di problemi irrisolti. Con le sue immense conquiste la storia greca mutava repentinamente e radicalmente il suo corso: la dialettica fra le poleis greche cedeva il posto all’integrazione fra la civiltà greco-macedone e le culture anelleniche. Se la civiltà greca s’impose come modello su molti dei popoli cosiddetti “barbari”, il processo di acculturazione fu tuttavia reciproco, sicché la nuova civiltà che nacque dall’incontro fra grecità e popoli orientali (e anche, sia pure in misura minore, occidentali) è stata giustamente chiamata, da Gustav Droysen, ellenismo.

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13. La Macedonia e gli stati greci (323-200)

L’ampia portata delle conquiste di Alessandro, la preesistente organizzazione dei suoi vastissimi territori, l’assenza di un erede all’altezza del sovrano scomparso, condizionarono fortemente gli eventi successivi, segnati dalle guerre dei diadochi e degli epigoni, che occuparono complessivamente un quarantennio (323-281 a.C.). Dopo la morte di Alessandro la penisola greca non fu più al centro della storia del mondo ellenico, anche se la polis, fortemente indebolita, continuò a sussistere come struttura municipale, subordinata agli interessi delle grandi monarchie ellenistiche, in cui si suddivise l’immenso impero conquistato dal macedone. Conservarono una certa autonomia e una discreta forza militare le leghe e le federazioni di città in regioni un tempo arretrate, come l’Epiro, l’Etolia e l’Acaia. Invano alla morte del grande sovrano Atene si pose a capo di una coalizione di città contro la dominazione macedone, guidando uno degli ultimi moti dei greci in nome della libertà nella “guerra lamiaca”, detta così dal nome della roccaforte tessalica presso il golfo Lamiaco (Lamia), dove il reggente macedone Antipatro fu per qualche tempo bloccato dai greci ribelli. La resistenza fu presto soffocata (estate 322 a.C.) con gravissime conseguenze interne per Atene: la democrazia fu trasformata in un regime timocratico (basato sul censo), l’assemblea dichiarò la condanna a morte dei capi democratici che avevano istigato la rivolta antimacedone (fra cui Iperide e Demostene), mentre a Munichia fu imposta da Antipatro una guarnigione per controllare il porto del Pireo e la città. Nel Peloponneso, dove anche Sparta era stata ridotta all’obbedienza (331 a.C.), il reggente istituì dovunque oligarchie filomacedoni e installò il corinzio Dinarco come governatore del Peloponneso per conto della Macedonia. Dal 320 al 275 a.C. le varie città della Grecia furono coinvolte nelle guerre dei successori di Alessandro, fornendo truppe e sostegno ai vari sovrani che via via si succedettero sul trono macedone. Ad Atene nel 317 a.C. il figlio di Antipatro, Cassandro, pose Demetrio Falereo a capo di un governo oligarchico sotto la protezione di un presidio macedone: tale situazione durò ben dieci anni fino al 307 a.C., quando Demetrio I Poliorcete (figlio di uno dei grandi successori di Alessandro, Antigono Monoftalmo) liberò Atene dal “tiranno” e ristabilì la democrazia. Nel 302 a.C. lo stesso Poliorcete restaurò la lega di Corinto e trattò le città greche come alleate anziché come suddite. Ma la reviviscenza della lega ellenica e l’autonomia delle città greche non erano destinate a prolungarsi. Le lotte dei diadochi, che si contendevano l’eredità dell’impero universale di Alessandro, ebbero un primo esito con la battaglia di Ipso, in Frigia (301 a.C.), che vide la sconfitta di Antigono Monoftalmo (re dell’Asia) e di suo figlio Demetrio (signore dell’Egeo) da parte degli eserciti coalizzati dei tre re, Lisimaco (sovrano della Tracia), Tolomeo I Sotere (basileus dell’Egitto) e Seleuco (signore di Babilonia e delle satrapie superiori). Ma la fine delle lotte tra i successori di Alessandro si cominciò a intravvedere solo nel 281 a.C., data della battaglia di Corupedio in Siria, che vide di fronte Lisimaco e Seleuco. La vittoria consentì a quest’ultimo di diventare padrone dell’Asia, anche se solo per pochi mesi, perché subito dopo fu assassinato da un suo alleato, Tolomeo Cerauno. Nel contrasto che aveva opposto Antigono e Demetrio da un lato, e Cassandro figlio di Antipatro dall’altro, s’era inserito anche Pirro, re dei Molossi, la cui ostilità con Cassandro aveva segnato i primi vent’anni della sua vita. Dopo aver combattuto al fianco di Demetrio a Ipso, Pirro era stato ostaggio di Tolomeo Sotere, del quale aveva sposato la figlia Antigone (298 a.C.). Richiamato dopo pochi mesi in Epiro col consenso di Tolomeo, aveva assunto il potere regio, prima condividendolo con Neottolemo, poi da solo; morto Cassandro nel 297 a.C., aveva fronteggiato i personaggi più potenti che aspiravano al trono di Macedonia. La complessa situazione si chiarì definitivamente nel 277-76 a.C., quando Antigono Gonata sconfisse nel Chersoneso tracico i celti, che nel 279 a.C. avevano invaso la Macedonia, riuscendo così a impossessarsi saldamente del trono macedone. A partire da questo momento l’impero di Alessandro risultò diviso in tre grandi monarchie: quella di Macedonia sotto Antigono Gonata, quello di Egitto sotto i Tolomei e quella dell’Asia (compresa la Siria) sotto la dinastia dei Seleucidi. I tre grandi regni ebbero vita duratura e per circa un secolo la pace fu interrotta solo da guerre di confine tra i Tolomei e i Seleucidi per il possesso della Celesiria. Dopo un lungo periodo di anarchia e di disordini, si assisté finalmente alla rinascita della Macedonia: Antigono Gonata, uno dei monarchi più colti dell’età ellenistica, estese il suo potere sulla Tessaglia e su ampie zone della Grecia orientale e meridionale. Sotto la protezione delle armi macedoni salirono al potere, soprattutto nel Peloponneso, molti tiranni. Se, dopo la sconfitta di Demetrio Poliorcete a opera di Seleuco (285 a.C.), i Tolomei erano rimasti gli incontrastati signori dell’Egeo, ora i macedoni cominciarono a insidiare questa loro supremazia, sicché Tolomeo II Filadelfo impiegò tutte le sue risorse diplomatiche per spingere i greci a entrare in guerra contro la Macedonia: per sua iniziativa nacque un’alleanza con Sparta e Atene contro il Gonata, che provocò la cosiddetta “guerra cremonidea” (267-61 a.C.). Ma prima Sparta, con la sconfitta presso Corinto (265 a.C.), poi Atene, stretta d’assedio, dovettero capitolare (262-61 a.C.). Così Atene, che con Alessandria continuava a essere il principale centro della cultura antica, fu ridotta al livello di una città sottomessa. Durante gli anni Cinquanta del III secolo a.C. si verificò in Grecia una grave crisi che portò a un cambiamento radicale. Essa fu originata dalle pretese di autonomia avanzate da Alessandro, figlio di Cratero e viceré macedone in Grecia, e dalla crescente importanza delle federazioni di stati greci: tra questi, gli etoli, temutissimi per le loro imprese piratesche, il cui koinòn estese la sua influenza sulla Grecia centrale fino a Delfi; e gli achei che, sotto la guida di Arato di Sicione, riattivarono le energie da tempo sopite del Peloponneso settentrionale e stipularono un’alleanza in funzione antimacedone anche con Sparta, travagliata in quegli anni da forti tensioni sociali, che portarono alla condanna a morte del re riformatore Agide IV (244-41 a.C.). Di lì a poco moriva, dopo quarant’anni di regno, Antigono Gonata (239 a.C.), cui succedeva il figlio Demetrio II, che entrò in una lunga guerra contro gli etoli e gli achei, senza tuttavia conseguire alcun risultato significativo. Alla morte di questo debole re (229 a.C.), le due grandi confederazioni raggiunsero l’apice della loro potenza, che ormai si estendeva su gran parte dei territori che erano stati la base dell’egemonia macedone in Grecia. Nel medesimo anno, insediatosi sul trono di Macedonia Antigono Dosone in qualità di reggente e tutore del giovane Filippo, Atene veniva liberata dalle truppe di occupazione macedoni e riacquistava l’indipendenza perduta. L’egemonia macedone restava ora circoscritta a Demetriade in Tracia, all’Eubea e ad alcune isole delle Cicladi. Un’epoca nuova pareva aprirsi per i mutamenti di equilibrio che si verificavano soprattutto nel Peloponneso, dove era esploso un violento conflitto tra la lega achea e Sparta (229 a.C.). Il re spartano Cleomene III, tentando di assicurarsi il consenso soprattutto dei perieci, riprese e ampliò il programma di riforme del suo predecessore Agide, impegnandosi a risolvere il problema della redistribuzione delle terre, date le gravi perdite di territori fertili, come quelli della Messenia e della Cinuria, e l’inarrestabile calo demografico. Di fronte all’accanita resistenza da parte degli efori, Cleomene effettuò un colpo di stato: fatti massacrare gli efori, abolì l’eforato, esiliò i cittadini più ricchi, ridistribuì le terre tra i poveri, cancellò i debiti, estese la cittadinanza ai migliori tra i perieci e rimise in vita l’antica disciplina spartana, dichiarando di voler riattualizzare l’autentica costituzione di Licurgo. La realizzazione del programma di politica interna era la premessa per un ritorno spartano sulla scena della politica interstatale, con l’obiettivo di ripristinare l’antica egemonia sul Peloponneso (227 a.C.); ma di fronte a questo pericolo, Arato, stratego plenipotenziario della lega achea, stipulò un patto con Antigono Dosone (225-24 a.C.), che riunì una grande alleanza di popoli liberi sotto l’egemonia della Macedonia (224 a.C.). Cleomene poté per qualche tempo tener testa all’enorme massa di nemici, grazie anche agli aiuti di Tolomeo III Evergete; ma poi, venuti meno i soccorsi egiziani, gli spartani subirono una sconfitta definitiva a Sellasia, in Laconia (estate 222 a.C.). Antigono Dosone occupò Sparta e soppresse le riforme. Qualche mese dopo gli succedette sul trono il diciassettenne Filippo V, figlio di Demetrio II, che accolse e fece sue le proteste della lega achea per le scorrerie e le azioni piratesche degli etoli a danno delle città achee: nell’autunno del 220 a.C. fu dichiarata la guerra alla lega etolica e scoppiò la “guerra sociale” delle due leghe che divise la Grecia su due fronti: i macedoni e i loro numerosi alleati greci, tra cui gli achei, scesero in campo contro gli etoli, sostenuti dagli spartani. Fu una guerra contrassegnata da devastazioni e saccheggi, ma che risultò senza vincitori. Nel 217 a.C. venne conclusa la Pace di Naupatto, che fu l’ultimo accordo stipulato fra soli greci. Sull’Ellade si allungavano ormai “le nubi che crescevano a Occidente”, secondo il vaticinio del pacifista Agelao di Naupatto, che con ciò alludeva al contemporaneo scontro fra romani e cartaginesi in Occidente, pregno di conseguenze anche per i greci.

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14. La conquista romana della Grecia

Da quando Roma aveva occupato l’Illiria (229-28 a.C.), lo spettro della conquista romana gravava sulla Macedonia: proprio questo timore indusse Filippo ad allearsi con Cartagine e a far scoppiare la prima guerra macedonica (215-205 a.C.), nel corso della quale invano il re macedone cercò di espellere i romani dall’Illiria. Sfruttando sapientemente le rivalità interne, Roma fece degli etoli un grande avversario della Macedonia (212 a.C.). Mentre i romani prendevano parte alle operazioni belliche con una flotta, Filippo fu costretto a impegnarsi su vari fronti (in Illiria, al confine settentrionale della Macedonia, nel Peloponneso), dando prova delle sue capacità strategiche e riuscendo a fiaccare talmente le forze degli etoli da indurli a concludere una pace separata (206 a.C.), che costò loro notevoli perdite territoriali. Qualche tempo dopo Roma, impegnata nella guerra contro Cartagine, stipulò anch’essa un trattato di pace, che prende il nome “Pace di Fenice” da una città dell’Epiro (205 a.C.). Filippo orientò quindi i suoi interessi verso l’Egeo, dove il vuoto di potere era stato colmato da Rodi e da Pergamo. Per aver ragione di Rodi, la “Venezia dell’antichità”, egli prese parte alla cosiddetta guerra cretese (205-204 a.C.) e intensificò la costruzione della flotta. Morto in Egitto Tolomeo IV Filopatore (204 a.C.), che lasciava come erede al trono il figlio Tolomeo V ancora bambino, Antioco III di Siria e Filippo V di Macedonia si accordarono segretamente per una spartizione del regno dei Tolomei, approfittando anche del momento di debolezza economica e di difficoltà finanziarie che l’Egitto stava attraversando per il prolungarsi della seconda guerra punica. Fu così che Antioco invase nel 201 a.C. la Siria, sottraendola al controllo dei Tolomei (200 a.C.), e Filippo conquistò una serie di città nella zona degli stretti e pose l’assedio a Chio, provocando l’intervento di Rodi, già in allarme per l’espansione macedone nei Dardanelli (202 a.C.). Minacciate, Rodi, Bisanzio e Cizico conclusero un’alleanza antimacedone con il re di Pergamo Attalo I (201 a.C.), e nell’estate inviarono a Roma una delegazione per chiedere aiuto. La guerra dei romani contro Filippo e Antioco (seconda guerra macedonica) non poté iniziare prima dell’anno 200 a.C., ma la loro decisione d’intervenire impresse una svolta decisiva alla politica di tutto il bacino del Mediterraneo. Roma riuscì subito ad assicurarsi la neutralità del re di Siria, mentre faticò ad abbattere il dominio macedone in Grecia. Il conflitto si trascinò per due anni, benché le flotte riunite dei romani, dei rodii e di Attalo riuscissero a imporre nell’Egeo la loro supremazia e aderissero alla coalizione antimacedone anche gli etoli e gli ateniesi. Solo nel 198 a.C., quando T.Q. Flaminino assunse il comando supremo dell’esercito romano, guadagnandosi le simpatie dei greci per il suo filellenismo, Filippo fu costretto a ritirarsi dalla Tessaglia fino a Tempe, mentre anche la lega achea aderiva alla coalizione antimacedone. Dopo un fallito tentativo di composizione fra le due parti, Flaminino nel giugno del 197 a.C. affrontò Filippo a Cinoscefale in una battaglia campale nella quale ebbero la meglio la mobilità dei manipoli romani e l’impiego degli elefanti. Nell’inverno del 196 a.C. si giunse alla pace, che costò a Filippo i possedimenti di Grecia e d’Asia Minore, l’intera flotta da guerra e 1000 talenti d’argento come risarcimento, nonché l’obbligo di fornire truppe ausiliarie ai romani. Alle Istmiche del 196 a.C. Flaminino proclamò l’autonomia dei greci fino ad allora soggetti alla Macedonia. Nel frattempo Antioco s’impadronì degli stretti e strinse poi un accordo di pace con i Tolomei. Dopo una sconfitta subita alle Termopili nei primi mesi del 191 a.C., il seleucide fuggì a Efeso e l’Egeo divenne il principale campo di battaglia. Sconfitta nelle due battaglie di Capo Corico e di Mionneso (settembre 191 e 190 a.C.), la flotta di Antioco lasciò via libera per l’Asia: passando per la Macedonia e la Tracia, l’esercito romano raggiunse l’Ellesponto. Fallite le trattative tra Antioco e i romani, si venne alle armi nella battaglia di Magnesia sul Sipilo (inverno 190-89 a.C.), in cui Antioco fu battuto dai romani e da Eumene II di Pergamo. Seguì la pace di Apamea (188 a.C.), con cui Antioco dovette riaprire i mercati del regno di Siria ai rodi e agli alleati. Intanto in Grecia erano esplosi nuovi contrasti fra gli etoli e i macedoni, e all’inizio del 189 a.C. era ripresa la guerra degli etoli contro Roma. La situazione si sbloccò solo quando i romani inviarono in Grecia un esercito sotto il comando di M.F. Nobiliore: Ambracia, difesa strenuamente da un presidio etolico, fu a lungo assediata. Infine, nell’inverno successivo, si arrivò alla conclusione della pace con un trattato che impose agli etoli, lo stato più vasto della Grecia centrale, di aiutare i romani in caso di guerra. Per la seconda volta (188 a.C.) le truppe di Roma abbandonarono il continente greco, ma la Grecia era ben lontana da una vera pace: gli anni tra il 188 e il 180 a.C. segnarono una crescente crisi per il mondo ellenistico, sicché alla fine del decennio Roma decise d’interferire direttamente negli affari della Grecia. Intanto si avviava un processo di riavvicinamento tra Siria e Macedonia, sancito dal matrimonio di Perseo (succeduto nel 179 a.C. a Filippo V) con Laodice, figlia di Seleuco IV, succeduto al padre Antioco III. I romani adottarono verso Perseo una propaganda ostile, facendolo passare come l’ideatore dell’attentato subito a Delfi da Eumene II di ritorno da Roma (172 a.C.). La guerra tra Roma e Perseo scoppiò nel 171 e durò fino al 168 a.C. (terza guerra macedonica). Durante il suo corso la Macedonia dovette combattere da sola su tre fronti: contro i romani, contro il loro alleato Eumene II in Tracia e contro i dardani a nord-ovest, mentre sul mare dominava la flotta romana, sostenuta dai contingenti di Rodi e di Pergamo. Solo nel 168 a.C. L. Emilio Paolo inflisse a Perseo una durissima sconfitta presso Pidna, in seguito alla quale Perseo fu deportato a Roma come prigioniero. La Macedonia fu allora divisa in quattro repubbliche, isolate l’una dall’altra dal divieto di connubio e di commercio; fu altresì proibito il tradizionale mercato macedone del legname per costruzioni navali e furono chiuse le miniere d’oro e d’argento. Alcuni dei possedimenti macedoni in Grecia ottennero l’autonomia, mentre le isole di Lemno, Imbro e Sciro furono assegnate ad Atene. Grazie a L. Emilio Paolo, Atene ottenne anche la città beotica di Aliarto e l’isola di Delo, dove venne creato un porto franco (166 a.C.), che in breve tempo privò i Rodi delle entrate portuali di cui avevano finora goduto e li mandò in rovina. Dure punizioni furono inferte ai greci alleati della Macedonia, secondo nuovi procedimenti coercitivi che impressionarono lo storico Polibio, il quale si trovò a essere privilegiato testimone dell’imperialismo romano in qualità di ostaggio. D’ora in poi Roma era ormai pronta a intervenire decisamente nel mondo ellenistico dovunque si presentassero fermenti d’indipendenza nazionalistica. Così approfittò del fatto che un certo Andrisco si spacciasse per figlio del re Perseo, per intervenire duramente con un esercito guidato dal pretore P. Cecilio Metello, che vinse l’avventuriero nella seconda battaglia di Pidna (148 a.C.). La Macedonia fu dichiarata provincia romana. Analoga, e ancora più severa, fu la reazione romana contro la lega achea, che pensava di sfruttare il malcontento generale per intraprendere una politica nazionalistica, obbligando gli spartani, sempre riluttanti, a piegarsi al suo predominio. I romani imposero agli achei di lasciare libere non solo Sparta, ma anche Argo, Corinto e altre città. Al loro rifiuto scoppiò la guerra: gli achei si fortificarono sulla linea dell’Istmo, chiamando alle armi per difenderla anche gli schiavi. Il console Lucio Mummio attaccò a Leucopetra le forze achee e alleate, riportando una vittoria decisiva (146 a.C.). Entrò in Corinto e saccheggiò la città: centinaia di opere d’arte furono distrutte o trafugate in Italia, la popolazione fu venduta schiava. Per ordine del senato, la Grecia fu posta alle dipendenze del governatore della provincia di Macedonia, mentre tutte le città vennero ridotte in condizione di tributarie, a eccezione di Atene e di Sparta, costituite federate di Roma in virtù della loro antica amicizia con l’Urbe e del loro glorioso passato. Dappertutto furono creati regimi timocratici fedeli a Roma. Si spegneva così per lunghi secoli la libertà della Grecia. [Silvio Cataldi]

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