Germania

Stato attuale dell’Europa centrale. Nacque nell’ottobre del 1990 dalla riunificazione delle due entità politiche in cui la Germania era stata divisa dopo la seconda guerra mondiale: la Repubblica Federale di Germania e la Repubblica Democratica Tedesca.

  1. Le origini
  2. I rapporti con il mondo romano (I secolo a.C. – V secolo d.C.)
  3. Dall’epoca dei regni latino-germanici alla conquista carolingia (V-IX secolo)
  4. Dal trattato di Verdun alla preponderanza della dinastia sassone (843-936)
  5. La Germania dei Sassoni (936-1024)
  6. La Germania dei Franconi. La lotta per le investiture (1024-1125)
  7. La Germania degli Hohenstaufen (1125-1254)
  8. Dal Grande Interregno al dominio degli Asburgo (1254-1493)
  9. La Germania tra Carlo V e la Riforma protestante (1493-1559)
  10. Dalla pace di Cateau-Cambrésis alla guerra dei Trent’anni: un’Europa “debole” al centro. (1559-1648)
  11. L’emergere della potenza prussiana (1648-1786)
  12. L’impatto della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche (1786-1815)
  13. Una Germania “debole” nel nuovo ordine europeo: il congresso di Vienna (1814-15)
  14. Liberalismo e nazionalismo: (1815-48)
  15. La nazione senza la libertà: Bismarck (1849-71)
  16. Il Secondo Reich (1871-1918)
  17. La repubblica di Weimar (1919-33)
  18. Il Terzo Reich (1933-45)
  19. Il dopoguerra. La Germania occupata (1945-49)
  20. Le due Germanie: la Repubblica Federale (1949-89)
  21. Le due Germanie: La Repubblica Democratica Tedesca (1949-89)
  22. Il 1989. Dalla caduta del muro di Berlino all’unificazione delle due Germanie
  23. I primi decenni della Germania riunificata
1. Le origini

Le popolazioni germaniche, appartenenti al ceppo indoeuropeo, erano originariamente stanziate nell’area compresa tra l’attuale Germania del nord, le regioni meridionali della Svezia e della Danimarca e le coste del Baltico. Privi di vincoli interetnici e politici ma legati da un fondo di credenze religiose e di costumi comuni, i germani (il nome ha un’origine incerta) cominciarono a dividersi in gruppi più o meno strutturati intorno al VII secolo a.C. e acquisirono un ruolo storicamente rilevante nell’Europa centrale in concomitanza con la crisi della civiltà celtica, nel IV secolo a.C. Attraverso una complicata serie di movimenti migratori diretti prevalentemente verso sud, tra il IV e il II secolo a.C. i germani si spinsero fino ai territori che formano l’attuale Germania, in parte mescolandosi ai celti e in parte sospingendo questi ultimi verso il Danubio. In tal modo essi entrarono in contatto con una delle direttrici fondamentali dell’espansionismo romano.

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2. I rapporti con il mondo romano (I secolo a.C. – V secolo d.C.)

Fino all’epoca di quel massiccio spostamento di gruppi e popolazioni che è noto con il termine di invasioni barbariche (Völkerwanderungen) e che segnò la fine dell’impero romano, la storia delle popolazioni germaniche coincide sostanzialmente con la vicenda delle opposte pressioni esercitate da esse e da Roma lungo la linea del confine renano-danubiano. È in quest’epoca che si impose in maniera definitiva, attraverso i Commentari di Cesare e la Germania di Tacito, il termine “Germania”. Dopo che nel 58 a.C. Cesare ebbe stabilito sul Reno il confine tra la Gallia romanizzata (a ovest) e le regioni abitate dai germani (a est), questi ultimi dovettero subire per un breve periodo – dal 12 a.C. fino al 9 d.C. – una serie di profonde incursioni imperiali, che diedero vita a una fittizia dominazione romana nella zona situata tra il Reno e il Weser. Con la vittoria del principe germanico Arminio sulle truppe di Varo nella foresta di Teutoburgo (9 d.C.) la strategia imperiale si modificò radicalmente orientandosi verso una politica di carattere difensivo e, anche dopo le vittoriose spedizioni di Germanico contro i cherusci (14-16), il Reno rimase il confine estremo del mondo romano. Furono piuttosto le popolazioni germaniche a dilagare nei territori dell’impero, nonostante la creazione degli agri decumates e la fortificazione del limes da parte degli imperatori Domiziano, Adriano, Antonino il Pio e Caracalla. Dopo i primi consistenti movimenti dei quadi, dei marcomanni e dei sarmati nella seconda metà del II secolo, con cui si dovette confrontare Marco Aurelio, tra il III e il IV secolo la pressione sul confine renano si fece più intensa: mosse da un assoluto bisogno di nuove terre (prodotto da un forte incremento demografico), chiuse a est dai massicci movimenti dei nomadi delle steppe, organizzate in leghe militari sempre più efficienti, le tribù germaniche occidentali (alamanni, franchi) e orientali (goti) cominciarono ad attaccare in modo sistematico il limes, costringendo i romani ad abbandonare gli insediamenti nella zona orientale del Reno (una prima volta nel 257-59 e poi definitivamente dopo la battaglia di Adrianopoli del 378) e avviando quel processo che un secolo più tardi doveva condurre – nonostante i tentativi di integrazione da parte romana – alla frantumazione dell’unità politica dell’Occidente in una molteplicità di regni latino-germanici.

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3. Dall’epoca dei regni latino-germanici alla conquista carolingia (V-IX secolo)

A partire dal V secolo le popolazioni germaniche dilagarono in tutta Europa. I franchi e i burgundi si stanziarono in Gallia, i visigoti in parte della Gallia e nella penisola iberica, i vandali in Africa, gli ostrogoti in Italia, gli angli e i sassoni in Britannia. Nel territorio dell’attuale Germania – e cioè tra la linea renano-danubiana e l’Elba – rimasero i bavari, i turingi, gli alamanni e una parte consistente delle tribù sassoni. Tra il V e il IX secolo, queste regioni furono progressivamente assimilate al dominio dei franchi: dapprima con Clodoveo, che sconfisse i turingi nel 491 e gli alamanni nel 496; poi con i suoi successori Merovingi, che non riuscirono tuttavia a imporre un controllo stabile; e infine con Carlo Magno, che attraverso una lunga guerra contro i sassoni riuscì a realizzare un completo assoggettamento della Germania. Parallelamente a quest’opera di conquista, i sovrani franchi – convertiti al cattolicesimo fin dall’epoca di Clodoveo – procedettero a un intenso sforzo di evangelizzazione delle regioni transrenane, avvalendosi dell’attività missionaria dei monaci irlandesi (San Colombano) e anglosassoni (San Bonifacio). All’epoca dell’incoronazione imperiale di Carlo Magno (800), dunque, i territori tedeschi non erano soltanto pienamente integrati nel sistema di dominio dei franchi, ma costituivano anche l’estremo baluardo dell’Occidente cristiano.

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4. Dal trattato di Verdun alla preponderanza della dinastia sassone (843-936)

Con la dissoluzione dell’impero carolingio, la Germania cominciò ad assumere un’identità nazionale e politica più precisa. Fondamentale in questa prospettiva fu la divisione dei territori imperiali sanzionata dal trattato di Verdun (843), che attribuì il “regno dei franchi orientali” – vale a dire le regioni a est del Reno – a un nipote di Carlo Magno, Ludovico il Germanico. Da quella data, e fino a primi decenni del X secolo, la storia della Germania fu segnata dai continui riassestamenti prodotti dalla crisi sempre più profonda delle strutture imperiali, dalla potenza crescente della grande feudalità (capitolare di Quierzy, 877) e da una nuova, massiccia ondata di invasioni da parte di popoli provenienti dall’est e dal nord dell’Europa. La deposizione di Carlo III il Grosso (887), che era riuscito per un breve periodo a ricomporre l’unità dell’impero, rese di fatto irreversibile la scissione politica definita dal trattato di Verdun, e dunque l’emergere di un’area tedesca politicamente strutturata; al tempo stesso, rese evidente la profonda frantumazione dell’autorità centrale e l’enorme peso acquisito dai grandi principati territoriali (Sassonia, Franconia, Svevia, Baviera, Turingia, Lotaringia) sorti su base etnica nel corso delle lotte di successione. La potenza di queste formazioni politiche si manifestò nell’affermazione del principio della monarchia elettiva (887) e, quindi, nella progressiva crisi dell’autorità regia durante i regni di Arnolfo di Carinzia (887-99) e di Ludovico III il Fanciullo (899-911), l’ultimo erede del ramo orientale dei Carolingi. Sotto la pressione dei normanni e degli ungari, e di fronte all’incapacità di Ludovico III di organizzare un’efficace difesa, i ducati rafforzarono la proprie strutture territoriali al punto da essere in grado, alla morte di Ludovico, di affidare la dignità regia a un francone – Corrado (911-18) – e poi a un sassone – Enrico l’Uccellatore (918-36) – che riuscì a sconfiggere gli ungari e ad assoggettare al regno gli slavi e i boemi. Forte del prestigio acquisito in queste campagne vittoriose, Enrico poté disporre che alla sua morte gli succedesse il figlio Ottone. Da allora, e fino al 1024, la dinastia sassone rimase alla guida della Germania.

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5. La Germania dei Sassoni (936-1024)

Nel 936 Ottone I di Sassonia, alla presenza dei grandi del regno, si fece consacrare re dall’arcivescovo di Magonza, sottolineando così la sua volontà di rinnovare il prestigio del potere regio. Il suo lungo regno (936-67) fu segnato tuttavia da scelte potenzialmente contraddittorie, che dovevano risolversi in un nuovo incremento del potere già molto solido della grande feudalità e, quindi, in un’ulteriore frammentazione del mondo tedesco. Negli anni immediatamente successivi alla sua incoronazione, di fronte ai ricorrenti tentativi dell’aristocrazia di sottrarsi al controllo centrale, Ottone riprese e rielaborò la tradizione carolingia di un rapporto sistematico tra imperium e sacerdotium istituendo la figura del vescovo-conte: saldamente controllato dal sovrano al momento della nomina, dotato di un’ampia autorità giurisdizionale e privo di una prole legittima a cui trasmettere i propri poteri dopo la morte, il vescovo-conte rappresentò un formidabile strumento di potenza nelle mani del re e un ostacolo efficace alla disgregazione della compagine politica e territoriale controllata dalla monarchia. Le mire imperiali di Ottone I e dei suoi successori, tuttavia, permisero alla grande aristocrazia laica di riacquistare ampi spazi di manovra in Germania, configurando una situazione che doveva protrarsi per diversi secoli. Dopo essere stato incoronato re d’Italia (951), dopo aver sconfitto gli ungari a Lechfeld (955) e dopo aver domato la ribellione degli slavi (955), Ottone I ricevette da Giovanni XII la dignità imperiale nel 962. Sorgeva così il Sacro Romano Impero, la cui parabola fu profondamente intrecciata (fino al 1806) alla storia dei territori tedeschi. All’epoca di Ottone I la dignità imperiale corrispondeva alla potenza egemone che la dinastia sassone aveva acquisito nel cuore dell’Europa; nell’epoca immediatamente successiva, per effetto dell’enorme dispersione di forze richiesta dal controllo delle regioni italiane, il dominio dei sovrani tedeschi sui territori transrenani s’indebolì progressivamente, togliendo sostanza alla prospettiva di una politica imperiale. Ottone II (967-83) e soprattutto Ottone III (983-1002), che vagheggiava l’idea di una renovatio imperii, concentrarono i propri sforzi nella penisola italiana, trascurando gli interessi specifici del mondo tedesco. Lo stesso Enrico II (1002-1024), che pure fu profondamente consapevole del ruolo fondamentale della Germania per le sorti dell’impero, venne quasi totalmente assorbito dalle vicende del regno italico. Con la sua morte ebbe fine la dinastia sassone, che in ultima analisi non fu in grado di imporre un saldo controllo sui grandi principati del regno germanico e di arrestare il progressivo esautoramento del potere centrale.

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6. La Germania dei Franconi. La lotta per le investiture (1024-1125)

Una situazione analoga continuò a caratterizzare la storia del regno tedesco durante il dominio della dinastia di Franconia. La politica di Corrado II (1024-39) fu diretta prevalentemente a consolidare l’egemonia tedesca in Italia e dovette avvalersi dell’appoggio dei feudatari minori contro i grandi (Constitutio de feudis, 1037); allo stesso modo, Enrico III (1039-56), dopo aver rafforzato le frontiere orientali della Germania, riprese gli schemi della politica ottoniana nei confronti della chiesa romana. In entrambi i casi, il mondo tedesco rimase di fatto abbandonato alla potenza dei grandi principi territoriali. Durante il regno di Enrico IV (1056-1106), la situazione fu resa ancor più grave dal profondo conflitto che oppose il papato all’impero nella lotta per le investiture. Condannando la consuetudine dell’investitura laica dei vescovi – uno dei cardini della politica ottoniana – e scomunicando Enrico IV (1075), papa Gregorio VII mise a nudo la debolezza dell’area tedesca: l’opposizione sassone riprese vigore; ma soprattutto si profilò la possibilità che i principi eleggessero un nuovo sovrano – ciò che in effetti avvenne dopo l’umiliazione di Canossa (1077), quando fu eletto re il duca Rodolfo di Svevia. Nel 1080 Enrico IV riuscì ad aver ragione del suo rivale tedesco e, pochi anni più tardi (1084), dello stesso Gregorio VII. Fu Enrico V (1106-1125) a concludere la lotta per le investiture con il concordato di Worms (1122), che pose fine alla tradizione prima carolingia e poi ottoniana di un sistematico rapporto tra sacerdotium e imperium.

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7. La Germania degli Hohenstaufen (1125-1254)

Alla morte di Enrico V (1125), che segnò la fine della dinastia di Franconia, seguì un periodo di gravi disordini che si protrassero durante tutto il regno di Corrado III di Hohenstaufen (1138-52). Negli anni successivi – con Federico I Barbarossa (1152-90), Enrico VI (1190-1212), Federico II (1212-50) e Corrado IV (1250-54) – la storia dei territori tedeschi fu strettamente legata alle alterne fortune della politica imperiale. Pur sconfitto a Legnano dalla Lega lombarda (1176), Federico I riuscì ad aver ragione del suo più temibile avversario, Enrico il Leone, a cui sottrasse i ducati di Sassonia e di Baviera (1180). Con Enrico VI e Federico II, invece, l’asse degli interessi della dinastia si attestò prevalentemente nell’Italia meridionale, dove gli Hohenstaufen avevano ricevuto in eredità il regno normanno delle Due Sicilie. Il risultato fu che ancora una volta la Germania venne abbandonata alla potenza dei grandi principati territoriali. Verso la metà del XII secolo, tuttavia, iniziò una forte espansione verso est, per l’iniziativa di Alberto l’Orso, fondatore del Brandeburgo, del già citato Enrico il Leone, duca di Sassonia, e dei cavalieri teutonici, che fin dal 1226 si erano stabiliti in Prussia. Gli slavi dell’Elba e dell’Oder vennero così definitivamente assoggettati al germanesimo.

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8. Dal Grande Interregno al dominio degli Asburgo (1254-1493)

L’emancipazione dei grandi principati tedeschi divenne un dato irreversibile dopo la morte dell’ultimo Hohenstaufen, Corrado IV (1250-54), durante il Grande Interregno (1254-73): un periodo di forte instabilità istituzionale, segnato da una serie di violente lotte di successione. L’elezione di Rodolfo d’Asburgo (1273-91) pose fine alla crisi e diede inizio a una fase più propriamente “tedesca” della vicenda imperiale, caratterizzata dalla rinuncia a una sistematica politica italiana e, soprattutto, dal prevalere delle ragioni dei più potenti casati germanici: i Wittelsbach di Baviera, i Wettin di Sassonia, gli Asburgo d’Austria, gli Ascani e gli Hohenzollern di Brandeburgo. I successori di Rodolfo, Adolfo di Nassau (1291-96) e Alberto I d’Austria (1296-1308), e quindi i membri della dinastia di Lussemburgo, che rimasero al potere dal 1308 fino al 1437, continuarono a concentrare i propri interessi nell’Europa centrale. In conseguenza di ciò, per quasi due secoli, e cioè fino all’elezione di Alberto II d’Asburgo (1438), la dignità regia e quella imperiale furono in ragione diretta dei rapporti di forza esistenti all’interno del mondo tedesco. Questa situazione fu formalizzata alla dieta di Rhens (1338), che associò automaticamente la corona regia e quella imperiale senza il ricorso all’investitura papale; e con la Bolla d’Oro, emanata da Carlo IV nel 1356 e rimasta in vigore fino al 1806, che affidava la prerogativa dell’elezione imperiale a sette grandi Elettori, tre ecclesiastici e quattro laici, col proposito di mantenere la dignità imperiale nell’ambito delle grandi dinastie feudali. Negli stessi anni, proseguì la colonizzazione delle regioni orientali (che fu tuttavia arrestata tra il 1410 e il 1466 dall’espansione della Polonia degli Jagelloni) e iniziò a fiorire l’attività delle grandi città commerciali (Hansa), dove sorse un ricco patriziato urbano. Dopo l’elezione di Alberto II d’Austria (1438-39), salì al trono il figlio Federico III (1440-93): da allora, con il successivo ininterrotto dominio degli Asburgo – che divenne la più potente dinastia tedesca – la Germania fu nuovamente coinvolta in una lunga serie di conflitti internazionali estranei alla sfera dei suoi reali interessi.

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9. La Germania tra Carlo V e la Riforma protestante (1493-1559)

Alla radice di questi conflitti vi fu il profondo mutamento della carta geopolitica europea indotto dalla politica dinastica di Massimiliano I d’Asburgo (1493-1519), che pure si era sforzato di rinsaldare l’unità politica e amministrativa della Germania e dei territori austriaci riformando la dieta imperiale e creando alcuni organi amministrativi centrali (Reichskammer e Reichsrat): attraverso il matrimonio di Filippo il Bello (figlio di Massimiliano e di Maria di Borgogna) con Giovanna la Pazza (figlia di Ferdinando d’Aragona e di Isabella di Castiglia) suo nipote Carlo V (1519-58) avrebbe ereditato i domini asburgici, quelli spagnoli e, ancora, la Borgogna di Carlo il Temerario, ponendo così le premesse di un nuovo, ambizioso progetto imperiale che avrebbe dato l’avvio a un lungo conflitto con la Francia. Contro di essa Carlo V dovette condurre, tra il 1516 e il 1556-58, una lunga serie di guerre per il predominio in Italia. Negli stessi anni, la vicenda ormai secolare del particolarismo germanico trasse nuovo impulso dagli effetti contraddittori della Riforma protestante. In questo senso fu decisiva la posizione assunta dai principi. Dopo aver represso la rivolta dei cavalieri (1523) e la guerra dei contadini (1524-1525), i principi convertiti al luteranesimo scesero in campo contro Carlo V, ostile alla Riforma, legato alla chiesa romana dal vincolo dell’elezione imperiale (1530) e impegnato nella guerra contro la Francia. La confessione di Augusta (1530) e la lega di Smalcalda (1531) furono gli strumenti principali dell’opposizione anti-imperiale. Sconfitti a Mühlberg nel 1547, i principi luterani riuscirono a rovesciare le sorti del conflitto con l’aiuto della Francia (cui cedettero i tre vescovati di Toul, Metz e Verdun). La pace di Augusta (1555), stabilendo il principio del cuius regio eius religio, sanzionò di fatto la frammentazione religiosa e soprattutto politica del mondo tedesco, che pure trovò nella traduzione luterana della Bibbia un potente impulso allo sviluppo di una coscienza nazionale unitaria. Un anno più tardi, nel suo testamento, Carlo V abbandonò ogni prospettiva universalistica separando la corona spagnola (che deteneva dal 1516) dalla dignità imperiale: la prima andò a suo figlio Filippo II, la seconda a suo fratello Ferdinando I (1556-64). L’impero ritornava così a coincidere con i confini del mondo tedesco. La rinnovata forza dei principi si tradusse in una decadenza politica ed economica delle città, che fu favorita anche dalla concorrenza commerciale fiamminga e inglese.

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10. Dalla pace di Cateau-Cambrésis alla guerra dei Trent’anni: un’Europa “debole” al centro. (1559-1648)

Nel periodo compreso tra la pace di Cateau-Cambrésis (1559) – che riconobbe alla Spagna asburgica un ruolo egemone in Europa – e la pace di Vestfalia (1648) – che pose fine alla guerra dei Trent’anni (1618-48) – l’area tedesca conobbe un’ulteriore processo di frammentazione, dettato da ragioni al tempo stesso politiche, sociali e religiose. Il problema decisivo su cui si sedimentarono le principali tensioni dei territori posti sotto il controllo dell’impero – e dunque, in primo luogo, della Germania – fu quello del rapporto tra cattolici e protestanti. Nella seconda metà del secolo XVI, infatti, il compromesso raggiunto nel 1555 con la pace di Augusta fu reso precario da due nuovi elementi: da un lato, dallo sforzo espansivo del cattolicesimo della Controriforma, che col sostegno degli Asburgo e dei Wittelsbach di Baviera riuscì a riconquistare all’ortodossia romana le regioni meridionali della Germania; dall’altro lato, dalla penetrazione – soprattutto nel Palatinato – del calvinismo, che non era stata regolata dagli accordi del 1555. Impegnati a contenere l’espansionismo ottomano, Ferdinando I (1556-64) e Massimiliano II (1565-76) praticarono una politica di tolleranza religiosa. Rodolfo II (1576-1612) invece, con l’appoggio della Baviera cattolica, fu un paladino intransigente dei principi della Controriforma. Quando nel 1608-1609 sorsero l’Unione evangelica – fondata dall’elettore del Palatinato e sostenuta da Enrico IV di Francia – e la santa lega cattolica – sostenuta dagli stati della Germania meridionale e dagli Asburgo – furono poste le premesse di un conflitto che, nel giro di pochi anni avrebbe coinvolto l’intera Europa: la guerra dei Trent’anni. La guerra si svolse lungo una duplice linea di frattura: da un lato, la contrapposizione tra protestanti e cattolici, dall’altro, quella tra il progetto centralistico degli Asburgo e lo sforzo autonomistico dei diversi principati territoriali. Scoppiata in seguito alla revoca, da parte di Ferdinando II, dell’editto di tolleranza che era stato concesso nel 1609 alla Boemia, la guerra coinvolse progressivamente tutte le grandi potenze in un conflitto per l’egemonia in Europa. Dopo alterne vicende, la pace di Vestfalia (1648) sanzionò, insieme all’egemonia francese in Europa, il tramonto di qualsiasi velleità imperiale e una profonda frammentazione del mondo tedesco che doveva protrarsi per oltre due secoli: la Germania fu divisa in 350 stati sovrani in materia di politica interna e internazionale, posti poi sotto la tutela della Francia (1658); al tempo stesso, sulla falsariga del compromesso di Augusta, furono poste le condizioni per una pacifica convivenza tra i protestanti (luterani e calvinisti) e i cattolici. Altrettanto gravi furono le conseguenze economiche e sociali della guerra che, oltre a decimare la popolazione, portò una forte contrazione della produzione agricola e delle attività commerciali, che a sua volta rese ancor più oppressivo il governo dei principi. La Germania perse inoltre i territori situati sulle rive del Baltico, che passarono alla Svezia, e la propria influenza sull’Alsazia-Lorena. Il dato decisivo è che dopo Vestfalia, per oltre due secoli, divenne un assioma fondamentale della logica dell’equilibrio tra le grandi potenze il principio di un “centro debole” in Europa: la frammentazione del mondo tedesco.

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11. L’emergere della potenza prussiana (1648-1786)

Nella seconda metà del XVII secolo i rapporti di forza nell’area tedesca iniziarono a modificarsi in modo radicale per effetto di tre processi concomitanti. Innanzitutto, per il declino progressivo del Sacro Romano Impero, che con la guerra dei Trent’anni aveva perso ogni reale consistenza. In secondo luogo, per il ricostituirsi della potenza austriaca, saldissima nei suoi territori e protesa verso l’area danubiana. Infine, per l’emergere della Prussia degli Hohenzollern, che era destinata a divenire la potenza egemone in Germania. Elettori del Brandeburgo fin dal 1415, gli Hohenzollern dopo aver aderito alla Riforma riuscirono progressivamente ad ampliare il proprio dominio trasformando in ducato ereditario di Prussia i territori che erano appartenuti all’ordine dei cavalieri teutonici. Nel 1618 questi territori furono uniti al Brandeburgo. La fortuna della Prussia moderna fu costruita dall’energica personalità di Federico Guglielmo di Brandeburgo (1640-88), che avviò un dinamico processo di modernizzazione, rafforzando l’autorità centrale dello stato, imponendo saldi controlli sulla nobiltà e le assemblee provinciali (Landtage), creando un efficiente apparato burocratico civile e militare e rafforzando le basi economiche dello stato. Fu Federico III, figlio di Federico Guglielmo, a raccogliere i frutti della nuova potenza prussiana ottenendo dall’imperatore Leopoldo I d’Asburgo, nel 1701, il titolo di re come Federico I. Il suo successore Federico Guglielmo I (1713-40) diede ulteriore impulso alla potenza militare della Prussia. Soprannominato il “re sergente”, si dedicò a un’opera di sistematico rafforzamento dell’esercito, sostenuta da ampi interventi sul piano amministrativo, economico e fiscale e dalla creazione di un solido blocco sociale a sostegno della corona. L’esercito fu organizzato sulla base di una netta prevalenza dell’elemento “nazionale”, fu professionalizzato nei suoi quadri superiori e ampliato in misura considerevole. Nel frattempo, tra il 1680 e il 1713 la Francia di Luigi XIV penetrò profondamente nei territori tedeschi ottenendo, con la paci di Utrecht e di Rastadt (1713-14), siglate all’indomani della guerra di Successione spagnola, il possesso definitivo dell’Alsazia. Al tempo stesso si fece sempre più debole il controllo esercitato dagli Asburgo che, dopo la morte di Carlo VI (1740), dovettero affrontare una vasta coalizione internazionale per assicurare a Maria Teresa la legittima successione ai domini ereditari (guerra di Successione austriaca). In quello stesso anno salì al trono di Prussia Federico II il Grande (1740-86), che si trovò a disporre di un esercito tra i più efficienti del mondo, di una burocrazia saldamente legata alla corona, di una situazione finanziaria positiva. Con questo apparato, la Prussia entrò in competizione con gli Asburgo per l’egemonia sul mondo tedesco, ottenendo con la pace di Aquisgrana (1748) – che pose fine alla guerra di Successione austriaca – la Slesia. La crescente potenza prussiana, tuttavia, provocò un rovesciamento delle alleanze che avevano caratterizzato la storia precedente delle relazioni internazionali: la Francia, tradizionalmente in conflitto con l’Austria ma preoccupata dalla prospettiva di un’egemonia prussiana, si alleò con la sua antica avversaria nella guerra dei Sette anni (1756-63), che si concluse, dopo alterne vicende, con una sostanziale vittoria di Federico, il quale si vide riconfermare il possesso della Slesia. In politica interna, Federico proseguì l’opera del padre, perfezionando la macchina burocratica, ampliando e professionalizzando ulteriormente la struttura dell’esercito, intervenendo a sostegno dello sviluppo economico del paese. Al tempo stesso, secondo gli schemi tipici del dispotismo illuminato concesse la libertà di stampa e di culto; fondò l’Accademia delle scienze di Berlino (1743); istituì l’insegnamento elementare obbligatorio (1763); avviò la riforma del codice processuale (1781) e fece abolire la tortura, diventando in tal modo un punto di riferimento importante per i philosophes.

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12. L’impatto della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche (1786-1815)

A Federico II succedette Federico Guglielmo II (1786-97). Dopo aver realizzato un’intesa con l’Austria e la Russia per la spartizione della Polonia, il nuovo sovrano dovette confrontarsi con i contraddittori processi suscitati in Germania e in Europa dalla Rivoluzione francese e dalle guerre napoleoniche, che modificarono nuovamente gli equilibri complessivi del mondo tedesco. L’adesione ai principi della Rivoluzione – che all’inizio raccolse grandi consensi tra la borghesia e gli intellettuali tedeschi – fu presto offuscata dal corso delle vicende militari. Nel marzo del 1793 la Prussia aderì alla prima coalizione ma, ripetutamente sconfitta, fu costretta a sottoscrivere la pace di Basilea (1795) e a mantenersi neutrale fino al 1806. Nel frattempo, con il protocollo imperiale del 1803 la carta geopolitica della Germania fu drasticamente semplificata con l’inglobamento delle entità politiche minori nei grandi principati territoriali (gli stati tedeschi da 350 divennero circa 40). Nel 1806 gli stati della Germania meridionale (Baviera, Württemberg, Baden, Assia-Darmstadt, Nassau) si sottrassero all’impero per dar vita alla Confederazione del Reno, posta sotto il controllo di Napoleone. In quello stesso anno, Francesco II rinunciò al titolo di imperatore del Sacro Romano Impero, ponendo così fine, anche formalmente, alla vicenda quasi millenaria dell’impero fondato da Ottone. Con Federico Guglielmo III (1797-1840), infine, la Prussia riaprì le ostilità contro la Francia partecipando alla quarta coalizione; ma sconfitta a Jena dagli eserciti napoleonici (1806), perdette lo slancio egemonico che aveva caratterizzato la sua storia fin dal principio del secolo XVIII. Fu proprio questa pesante sconfitta, tuttavia, seguita dall’occupazione francese, a promuovere un’intensa rinascita nazionale, che trovò la sua più alta espressione nei Discorsi alla nazione tedesca di Fichte (1807-1808). Con due abili ministri – Stein e Hardenberg – la Prussia avviò una serie di importanti riforme amministrative, militari ed economico-sociali (fu abolita la servitù della gleba), che posero le premesse della riscossa nazionale. Dopo la pesante sconfitta delle armate francesi in Russia, con la vittoria di Lipsia (16-19 ottobre 1813), che fu opera soprattutto dei contingenti prussiani, la Germania fu liberata dall’occupazione francese. Due anni più tardi, doveva esaurirsi a Waterloo l’intera vicenda delle guerre napoleoniche.

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13. Una Germania “debole” nel nuovo ordine europeo: il congresso di Vienna (1814-15)

Le grandi potenze riunite al congresso di Vienna (1814-15) per decidere i nuovi assetti politici dell’Europa ribadirono un assioma radicato nella storia delle relazioni internazionali fin dalla pace di Vestfalia (1648): il principio per cui l’equilibrio tra i grandi stati europei presupponeva la frammentazione dell’area tedesca, un “centro debole” nel cuore del vecchio continente. Questo assioma, tuttavia, dovette essere coniugato con i nuovi rapporti di forza che si erano affermati nel mondo germanico nel corso del secolo XVIII – vale a dire, con il nuovo ruolo assunto dalla Prussia e dall’Austria – e con le spinte all’unificazione nazionale che si erano manifestate durante l’epoca napoleonica. Dall’attività diplomatica del congresso emersero tre poli fondamentali che dovevano caratterizzare per oltre un cinquantennio la storia successiva della Germania: in primo luogo, il regno di Prussia – allora sotto Federico Guglielmo III di Hohenzollern (1797-1840) – ingrandito dal punto di vista territoriale e sempre più chiaramente proiettato verso occidente; in secondo luogo, l’impero multinazionale austriaco, orientato lungo le tre direttrici della Germania meridionale, dei Balcani e dell’Italia; in terzo luogo, la Confederazione germanica, con sede a Francoforte, che subentrava alla struttura ormai anche formalmente dissolta del Sacro Romano Impero (1806) e che comprendeva – oltre all’Austria e alla Prussia – i 37 stati che erano sopravvissuti alla riorganizzazione territoriale definita dal protocollo imperiale del 1803. La Confederazione, presieduta dall’Austria, rappresentò senza dubbio un passo fondamentale verso l’unificazione del mondo tedesco. Al suo interno, tuttavia, dovevano prevalere innanzitutto le ragioni di Vienna e di Berlino, che fino alla seconda metà del XIX secolo lottarono per conquistare una posizione egemonica. Il carattere assolutistico, burocratico e militaristico della Prussia di Federico Guglielmo III e dell’Austria di Metternich – che insieme alla Russia diedero vita alla Santa Alleanza – finì per trasmettersi alla maggior parte degli stati della Confederazione. Solo gli stati del sud (la Sassonia, la Baviera, il Baden e il Württemberg) si diedero delle costituzioni moderate, che alimentarono un liberalismo destinato a contrapporsi frontalmente, ancora dopo l’unificazione, allo spirito prussiano.

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14. Liberalismo e nazionalismo: (1815-48)

Dopo il congresso di Vienna la storia tedesca fu dominata da due spinte fondamentali: da un lato, dall’esigenza di attivare un graduale processo di unificazione, che aveva ragioni al tempo stesso politiche, ideali, economiche e sociali; dall’altro lato, dal tentativo di instaurare un ordine politico e costituzionale ispirato ai principi del liberalismo. Nel 1818, per iniziativa prussiana, fu istituito lo Zollverein – un’unione doganale avente lo scopo di creare un mercato unico nell’area tedesca per facilitare la circolazione delle merci, che fu perfezionato nel 1834. Per il resto, la Germania rimase sostanzialmente estranea alla duplice ondata di moti che negli anni Venti e Trenta scossero l’Europa (un timido tentativo liberale nel 1832 ad Hambach non fece che inasprire il controllo repressivo di Metternich). Nel 1848, sull’onda della rivoluzione parigina e contro la politica illiberale di Metternich e di Federico Guglielmo IV (1840-61), s’imposero le due parole d’ordine del liberalismo e del nazionalismo. Quasi contemporaneamente, nel marzo del 1848, Vienna e Berlino furono conquistate alla rivoluzione. In Prussia, Federico Guglielmo IV fu costretto a promettere una costituzione e a convocare un Landtag che introdusse la libertà di stampa, il suffragio universale maschile, il controllo parlamentare sul bilancio e, ancora, l’eguaglianza religiosa. A Vienna, l’imperatore Ferdinando I fu costretto a licenziare il Metternich e a convocare un Reichstag che decretò l’abolizione del servaggio e il suffragio universale. A Francoforte, sede ufficiale della Confederazione germanica, il 18 maggio si riunì il parlamento federale degli stati tedeschi e dell’Austria, eletto a suffragio universale: in questa sede le rivendicazioni liberali si saldarono all’esigenza di ricercare una soluzione al problema dell’unificazione tedesca. Furono prospettate due vie possibili: da un lato, l’idea di una “grande Germania” formata da tutti i territori tedeschi, compresa l’Austria, e posta sotto l’egemonia degli Asburgo; dall’altro, l’idea di una “piccola Germania” senza l’Austria sotto l’egemonia degli Hohenzollern. Entrambi i progetti – così come le rivoluzioni di Berlino e di Vienna – fallirono: in parte per l’ostilità dei governi di Austria e di Prussia (Federico Guglielmo IV rifiutò la corona che gli era stata offerta dall’assemblea rivoluzionaria), in parte per le divisioni che si crearono in seno allo schieramento rivoluzionario tra l’ala moderata liberale e quella democratica, incline a una soluzione repubblicana. Il 18 giugno del 1849 il parlamento di Francoforte, ormai disertato dalla maggioranza dei deputati, fu sciolto con la forza: da allora il progetto dell’unità nazionale iniziò a percorrere una strada che non coincise più con quella del progetto liberale. Doveva imporsi piuttosto una soluzione “prussiana” e “dinastica”, fondata sulla ragion di stato e sulla potenza militare più che sulla volontà popolare.

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15. La nazione senza la libertà: Bismarck (1849-71)

Un primo passo in questo senso fu compiuto all’indomani dello scioglimento del parlamento di Francoforte, quando Federico Guglielmo IV tentò di realizzare un’“unificazione dall’alto” fondata non più sulla legittimità di un’assemblea rivoluzionaria ma su un “libero accordo” dei principi tedeschi (1849-50). La “politica unionista” degli Hohenzollern fallì di fronte alla ferma opposizione dell’Austria e della Russia, che con il trattato di Olmütz (29 novembre 1850) imposero alla Prussia la rinuncia a qualsiasi velleità unitaria e il ritorno alla situazione del 1815. Nel corso degli anni Cinquanta, tuttavia, maturarono condizioni diverse: la potenza prussiana crebbe ulteriormente, acquistando un’egemonia di fatto sul resto della vecchia Confederazione attraverso lo strumento dello Zollverein che, rinnovato nel 1853, costituì la base di un prepotente sviluppo economico; al tempo stesso, per impulso della Corona e poi del ministro della Guerra Albrecht von Roon, fu dato l’avvio a una profonda riorganizzazione dell’apparato militare, che nel giro di pochi anni diventò una delle macchine da guerra più potenti d’Europa; infine, dopo la guerra di Crimea (1853-56) e il conflitto austro-franco-piemontese del 1859 il ruolo internazionale dell’Austria e della Russia – le due potenze che avevano inflitto alla Prussia l’“umiliazione di Olmütz” – fu drasticamente ridimensionato. In questo modo, si ponevano le premesse di un processo di unificazione che si sarebbe compiuto, sotto la regia del principe Otto von Bismarck, nel segno del militarismo e della politica di potenza. Chiamato al potere nel settembre del 1862 da Guglielmo I – che l’anno precedente era subentrato al fratello Federico Guglielmo IV sul trono di Prussia – Bismarck dovette innanzitutto liquidare l’opposizione di quelle forze che in parlamento avevano rifiutato di approvare il bilancio necessario per procedere alle riforme militari programmate dalla Corona e poi dal ministro von Roon: il cosiddetto “conflitto costituzionale” (1858-66). Dopo un debole tentativo di compromesso con le forze liberali, nel 1863 Bismarck fece sciogliere la Camera, abolì la libertà di stampa e iniziò a governare senza presentare il bilancio, attraverso decreti reali immediatamente operativi. Tessendo una complessa trama di alleanze e facendo affidamento sul potenziale bellico di un esercito rinnovato contro le prerogative del parlamento, Bismarck condusse tre guerre vittoriose, che nel giro di sette anni (1864-1871) avrebbero portato alla realizzazione dell’unità tedesca. Dopo la guerra contro la Danimarca (1864), che la Prussia combatté insieme all’impero asburgico per il controllo dei due ducati dello Schleswig e dello Holstein, Bismarck riuscì a garantirsi la neutralità della Francia di Napoleone III e l’alleanza dell’Italia in vista di un decisivo confronto con l’Austria – il principale ostacolo sulla strada della costruzione di una “piccola Germania”: tra il 14 giugno e il 26 luglio del 1866 l’esercito austriaco, gravemente sconfitto a Sadowa, venne annientato dalle armate prussiane; il 23 agosto dello stesso anno fu siglata a Praga la pace che doveva regolare in modo definitivo i rapporti di forza all’interno del mondo tedesco. La Confederazione germanica del 1815 fu sciolta e l’Austria dovette rinunciare a ogni futura influenza sugli stati tedeschi. Nel luglio del 1867 fu creata la “Confederazione germanica degli stati del nord”, vale a dire degli stati tedeschi situati a nord del Meno. Gli stati della Germania meridionale invece, per il veto posto da Napoleone III, rimasero formalmente indipendenti. Sull’onda del successo militare e diplomatico, il parlamento approvò retrospettivamente l’esercizio delle spese militari compiute fin dal 1863, ponendo così fine al “conflitto costituzionale” (settembre 1866). Dopo la guerra austro-prussiana, l’impero asburgico non fu più in grado di riconquistare le posizioni perdute e fu anzi costretto ad avviare una profonda ristrutturazione interna con il compromesso del 1867, che istituì la duplice monarchia austroungarica; al tempo stesso, molti degli stati tedeschi che erano rimasti fuori dalla Confederazione del nord sottoscrissero con la Prussia accordi militari ed economici, entrando di fatto nella sua sfera d’influenza. L’unico ostacolo che si frapponeva ancora al compimento dell’ipotesi unitaria “piccolo-tedesca” era la Francia di Napoleone III. Contro di essa Bismarck condusse una guerra fulminea che, iniziata il 19 luglio del 1870, terminò di fatto con la vittoria prussiana di Sedan, il 2 settembre dello stesso anno. Crollato il regime napoleonico e proclamata la repubblica, la Francia tentò ancora una vana resistenza, ma fu costretta a firmare l’armistizio (28 gennaio 1871) e quindi la pace di Francoforte (10 maggio 1871), in virtù della quale dovette cedere l’Alsazia-Lorena, pagare una forte indennità di guerra e accettare sul proprio territorio un esercito d’occupazione. Nel frattempo, il 18 gennaio del 1871, nella sala degli specchi della reggia di Versailles, Guglielmo I ricevette dai sovrani degli stati tedeschi la corona di imperatore (Kaiser) di Germania: la Confederazione del nord si trasformava così nel Secondo Reich della nazione tedesca. Con esso fece la sua comparsa al centro dell’Europa – contrariamente a quanto era avvenuto dopo la pace di Vestfalia (1648) e il congresso di Vienna (1814-15) – uno stato forte e potenzialmente aggressivo, che doveva rendere sempre più precarie le sorti dell’equilibrio tra le grandi potenze.

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16. Il Secondo Reich (1871-1918)

Il profilo politico-istituzionale dell’impero fu definito dalla costituzione del 14 aprile 1871, che estese agli stati tedeschi meridionali l’ordinamento già in vigore, fin dal 1867, nella Confederazione del nord. Il Reich si diede una struttura formalmente federale. Ognuno dei venticinque stati che lo costituivano mantenne il proprio governo, le proprie assemblee legislative e i propri apparati amministrativi. Al tempo stesso, gli stati confederali furono inquadrati in un meccanismo politico più ampio fondato su tre istituzioni fondamentali: il Reichstag (parlamento imperiale) eletto a suffragio universale da tutti i cittadini dell’impero; il Bundesrat (consiglio federale) composto da funzionari nominati dai singoli stati; e la Cancelleria imperiale, titolare del governo del Reich, formata dal cancelliere e dai segretari di stato. Limitato a funzioni puramente consultive, il Reichstag non poté esercitare un potere reale; i veri centri della potenza politica furono piuttosto il Bundesrat – dominato dall’elemento prussiano – e soprattutto la Cancelleria, responsabile soltanto di fronte al sovrano. Tra il 1871 e il 1890 questa costruzione politica fu interamente dominata da Bismarck, al tempo stesso cancelliere dell’impero e primo ministro dello stato prussiano, che fu sostenuto dalla corona, dalla grande aristocrazia fondiaria delle province a est dell’Elba (i Junker), dai più alti gradi dell’esercito, dai partiti conservatori e dal partito nazional-liberale. In questi anni Bismarck perseguì un duplice disegno: da un lato, quello di attuare una più rigida centralizzazione del sistema politico imperiale a favore della Prussia; dall’altro lato, quello di bloccare ogni sviluppo nella direzione del parlamentarismo e delle libertà politiche. Con questo progetto, il “cancelliere di ferro” si dovette scontrare dapprima con il partito del Centro cattolico (1871-78) e quindi con il Partito socialdemocratico (1878-90). Il conflitto con il partito del Centro e con la chiesa cattolica – il Kulturkampf – fu diretto a colpire le tendenze particolaristiche e antiprussiane ancora tenacemente radicate negli stati tedeschi meridionali e si tradusse nell’introduzione di una serie di provvedimenti che sottoponevano la chiesa nazionale al controllo dello stato. Condotto con l’appoggio del partito nazional-liberale, il Kulturkampf si risolse in un insuccesso: non soltanto i vescovi tedeschi rifiutarono fermamente i provvedimenti imposti dal governo, ma anche il partito del Centro – il destinatario politico della strategia bismarckiana – finì per rafforzare la propria presenza in parlamento ottenendo alle elezioni del 1878 quasi il doppio dei seggi che aveva al principio degli anni Settanta. Nello stesso anno, la strategia bismarckiana mutò radicalmente. In conseguenza della crisi economica internazionale iniziata nel 1873 venne profilandosi un’intesa sempre più stretta tra il grande capitale industriale e la grande proprietà terriera sull’ipotesi di una scelta protezionistica; in questo quadro, la vecchia alleanza tra Bismarck e i nazional-liberali – che erano orientati in senso liberista – venne meno; al tempo stesso il Cancelliere ricercò l’appoggio del Centro, che era ormai diventato il punto di equilibrio di qualsiasi maggioranza in seno al Reichstag. L’avversario principale del sistema di potere bismarckiano divenne a questo punto il Partito socialdemocratico tedesco (SPD), che era sorto nel 1875 dall’unione dell’Associazione generale degli operai di Ferdinand Lassalle (1863) e del Partito operaio socialdemocratico di Wilhelm Liebknecht e August Bebel (1869) e che nel 1877 aveva raccolto circa mezzo milione di voti, sull’onda anche della prepotente industrializzazione della Germania. Contro la SPD Bismarck mise in atto una duplice strategia: da un lato, a partire dall’ottobre del 1878, fece approvare una serie di leggi eccezionali che abolivano la stampa di partito e limitavano fortemente il diritto di associazione; dall’altro lato, tra il 1883 e il 1889 inaugurò un ampio progetto di legislazione sociale teso a realizzare l’integrazione del movimento operaio nelle strutture politiche del Reich. Come era accaduto con il Kulturkampf, anche in questo caso la politica bismarckiana si risolse, sui tempi lunghi, in un insuccesso: nonostante la repressione, la SPD continuò a raccogliere consensi sempre più ampi, ottenendo nelle elezioni del 1890 circa un milione e mezzo di voti e dandosi, al congresso di Erfurt (1891), un programma pienamente marxista. Nel frattempo Bismarck fu costretto a rassegnare le dimissioni (1890): in parte, per il sostanziale fallimento della politica antisocialista; in parte per il contrasto personale che lo oppose all’imperatore Guglielmo II, salito al trono nel 1888; e in parte, ancora, per la volontà del blocco conservatore agrario-industriale di avviare quella politica di potenza mondiale (Weltmachtpolitik) che il vecchio cancelliere aveva escluso dal proprio orizzonte ricercando un possibile equilibrio tra la Russia e l’impero asburgico e circoscrivendo le imprese coloniali per non entrare in conflitto con la Gran Bretagna (congresso di Berlino 1878; patto dei tre imperatori 1881; Triplice Alleanza 1882; trattato di controassicurazione 1887). Dopo la sua caduta, si susseguirono alla Cancelleria Caprivi (1890-94), Hohenlohe (1894-1900), Bülow (1900-1909) e Bethmann-Hollweg (1909-17). Il sistema politico rimase quello definito dalla costituzione del 1871; in realtà, dopo Bismarck, la Cancelleria cessò di essere il punto di equilibrio del sistema imperiale e governarono direttamente le forze politicamente irresponsabili che – con la copertura di Guglielmo II – gravitavano attorno alla corte, ai circoli militari e ai grandi gruppi di interesse. Fino al 1914, in ogni caso, la vicenda complessiva del II Reich fu dominata dal blocco agrario-industriale e dal crescente peso politico dei militari. Con la paralisi definitiva dello schieramento liberale, l’unica forza democratica e progressista rimase la SPD – dal 1912 partito di maggioranza relativa al Reichstag – che finì tuttavia per scindersi in varie correnti e per integrarsi nelle strutture del Reich, giungendo a votare nel 1914 – contro il principio dell’internazionalismo operaio – i crediti di guerra. In politica estera, la Germania di Guglielmo II abbandonò la strategia della prudenza che aveva caratterizzato le scelte bismarckiane: un’intensa politica di armamento navale rese sempre più difficili i rapporti con l’Inghilterra; venne a cadere l’accordo con la Russia, che si avvicinò alla Francia, e si fece invece sempre più stretto il rapporto con l’Austria. Coinvolta in un impetuoso sviluppo economico e divenuta quindi la prima potenza industriale europea, dopo una serie di disastrose iniziative diplomatiche la Germania tentò quindi l’“assalto al potere mondiale”, col progetto di inserirsi organicamente nei conflitti imperialistici tra le grandi potenze e di ottenere una radicale redistribuzione delle risorse mondiali. Decisa a legittimare la politica balcanica dell’impero di Francesco Giuseppe, allo scoppio della prima guerra mondiale (1914-18) la Germania si schierò con l’Austria contro le potenze della Triplice Intesa, e dopo alcuni fulminei successi iniziali fu costretta a una lunga guerra di logoramento da cui uscì gravemente sconfitta. A partire dal 1917 la guida del paese fu di fatto assunta dai vertici militari, controllati allora dai generali Hindenburg e Ludendorff. Nello stesso periodo ripresero fiato le opposizioni, che animarono un’intensa campagna di scioperi contro la guerra e la classe politica guglielmina.

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17. La repubblica di Weimar (1919-33)

Con la catastrofe militare, il sistema di potere costruito da Bismarck e perpetuato dall’imperatore Guglielmo II entrò definitivamente in crisi. Dopo il fallimento di un debole tentativo di riforma nel senso della monarchia parlamentare, promosso dal cancelliere Max von Baden nell’ottobre del 1918, si diffusero su tutto il territorio del Reich i consigli degli operai e dei soldati, strutturati secondo il modello dei soviet della Rivoluzione russa del 1917. L’8 novembre fu proclamata la repubblica a Monaco; il giorno successivo il socialdemocratico Scheidemann proclamò la repubblica a Berlino; la notte fra il 9 e il 10 novembre il Kaiser fuggì in Olanda; l’11 novembre, a Rethondes, fu firmato l’armistizio con le potenze vincitrici. Fu quindi creato un governo provvisorio dominato dai socialdemocratici moderati e presieduto da Friedrich Ebert, che prese contatti con lo stato maggiore dell’esercito per lottare contro il pericolo di una rivoluzione comunista. Fra il 30 dicembre del 1918 e il 1° gennaio del 1919, infatti, il gruppo dei cosiddetti “spartachisti” aveva fondato, sotto la guida di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg il Partito comunista tedesco, che si proponeva di fondare in Germania una repubblica dei consigli sul modello sovietico. Questo tentativo, tuttavia, fu represso nel sangue durante la “settimana rossa” (4-13 gennaio 1919). Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg furono assassinati il 15 gennaio. Da allora l’ultimo focolaio della rivoluzione socialista si concentrò in Baviera, dove dopo l’assassinio di Kurt Eisner (21 febbraio 1919) fu proclamata una repubblica dei consigli. Anche questo esperimento, tuttavia, fu soffocato nel sangue al principio del maggio 1919. Nel frattempo, dopo l’elezione dell’Assemblea costituente (19 gennaio 1919), che nominò Ebert presidente del Reich, fu promulgata la nuova costituzione, detta “di Weimar” (agosto 1919), che trasformava la Germania in una repubblica federale ispirata ai principi della democrazia parlamentare borghese: il potere legislativo fu affidato a un Reichstag di fronte al quale il cancelliere era responsabile; il presidente della repubblica, eletto ogni sette anni direttamente dal popolo, fu dotato di ampie prerogative, tra cui quella di sospendere le libertà civili e di governare attraverso decreti in caso di emergenza (art. 48). Uno dei problemi più gravi che afflisse la nuova repubblica fin dall’atto della sua fondazione fu quello delle conseguenze derivanti dal diktat imposto alla Germania nella conferenza di pace di Versailles (28 giugno 1919). La Germania, dichiarata unica responsabile della guerra, fu costretta a restituire alla Francia l’Alsazia-Lorena e a rinunciare a tutti i suoi possedimenti coloniali; al tempo stesso, le province della Prussia orientali furono separate dal resto del territorio tedesco da un “corridoio polacco” che terminava con Danzica, proclamata “città libera”. Dovette inoltre ridurre il proprio esercito a 100.000 unità e smobilitare la flotta militare. Infine fu costretta al pagamento di riparazioni di guerra, che nel 1921 furono fissate a 132 miliardi di marchi-oro. A garanzia del rispetto di queste clausole fu stabilita l’occupazione per 15 anni della riva sinistra del Reno e la smilitarizzazione della fascia destra. Il diktat di Versailles ebbe conseguenze disastrose sulla stabilità economica e politica della nuova repubblica tedesca e alimentò – accanto all’inflazione, alla disoccupazione e alla miseria – un nazionalismo autoritario di destra, che ebbe uno dei suoi principali esponenti nel generale Ludendorff e una delle sue organizzazioni più combattive nel Partito operaio tedesco fondato a Monaco il 5 gennaio del 1919 e poi divenuto, nell’agosto del 1920, Partito nazionalsocialista operaio tedesco (NSDAP), a cui aderì Adolf Hitler. Questa opposizione di destra – che costruì gran parte della sua fortuna sul mito di una presunta disfatta “interna” della Germania in guerra – organizzò, nel marzo del 1920, un colpo di stato sotto la guida di Wolfgang Kapp, che cercò di abbattere il governo socialdemocratico di Berlino. Il putsch, tuttavia, non ebbe il sostegno della borghesia, dell’esercito e suscitò la compatta reazione dei socialisti e dei sindacati, che organizzarono un grande sciopero generale. Al fallimento del colpo di stato, in ogni caso, seguì un periodo di forti tensioni, segnato dalla comparsa del terrorismo politico, che fece due vittime illustri: nel 1921 il ministro delle Finanze Erzberger, nel 1922 il ministro degli Esteri Rathenau. Nel 1923, nello stesso anno in cui l’inflazione e la disoccupazione avevano ormai raggiunto livelli di guardia, la situazione della repubblica fu ulteriormente aggravata dall’intransigenza della Francia che, in seguito ai ritardi nel pagamento delle riparazioni, occupò le regioni carbonifere della Ruhr (gennaio 1923) suscitando la “resistenza passiva” dei tedeschi. Il 9 settembre dello stesso anno le destre, guidate da Adolf Hitler e dal generale Ludendorff, tentarono nuovamente di rovesciare la situazione con un colpo di mano. Anche questa volta, tuttavia, il putsch fallì. Gustav Stresemann, chiamato alla guida del governo, riuscì a imprimere una svolta nel senso della stabilità avviando un’importante riforma monetaria (fu creato il Rentenmark) e ottenendo con il piano Dawes (settembre 1924) il sostegno economico degli Stati Uniti. La Germania poté così risollevarsi. Con Hindenburg presidente (1925), Stresemann avviò anche una nuova stagione di rapporti internazionali. Con il trattato di Locarno (16 ottobre 1925), con l’ingresso nella Società delle Nazioni (1926) e con il piano Young (1928) le relazioni con la Francia si fecero più distese: il problema delle riparazioni di guerra fu ripensato radicalmente e la Francia decise di evacuare la Ruhr (1929). Questi sviluppi furono interrotti dagli effetti devastanti provocati dalla crisi del 1929 in Europa, la quale riacuì le tensioni sociali che avevano segnato la storia del primissimo dopoguerra (la disoccupazione giunse a coinvolgere circa 6 milioni di persone) ridando fiato alle opposizioni estreme, soprattutto ai movimenti nazionalisti e autoritari di destra. Se ne avvantaggiarono soprattutto Hitler e il Partito nazionalsocialista che, con un organizzatissimo apparato paramilitare, le SA, con l’appoggio del grande capitale e dell’aristocrazia finanziaria tedesca, e con il consenso dei ceti medi rovinati dalla crisi, salirono poco per volta alla ribalta della scena politica, ottenendo alle elezioni del settembre del 1930 107 deputati. In questa situazione, il vecchio Hindenburg, che era stato rieletto alla presidenza nel 1932, affidò il governo a Franz von Papen (giugno 1932) e quindi al generale Kurt von Schleicher (dicembre 1932). Intanto, alle elezioni del luglio del 1932 il partito nazionalsocialista, con 230 deputati, si impose come il Partito di maggioranza nel Reichstag. Il 30 gennaio del 1933, dunque, Hindenburg nominò Hitler cancelliere.

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18. Il Terzo Reich (1933-45)

Giunto al potere come capo del partito di maggioranza e secondo la prassi prevista dalla costituzione, Hitler riuscì nel giro di pochissimi mesi a rovesciare gli equilibri politici e di potere che avevano caratterizzato la repubblica di Weimar. Dopo una brevissima fase in cui Hitler si pose a capo di un governo di coalizione, i nazisti organizzarono una vera e propria dittatura. L’incendio del Reichstag (27 febbraio 1933), realizzato dagli stessi nazisti, diede il pretesto per l’introduzione di una serie di leggi eccezionali che annullavano di fatto la costituzione ponendo sotto controllo la stampa, limitando le libertà politiche e civili e sottoponendo i Länder al controllo del governo centrale. Il 23 marzo dello stesso anno fu approvata dal Reichstag una legge che attribuiva pieni poteri al governo. Nasceva così il Terzo Reich. Tra il maggio e il luglio del 1933 tutti i partiti e i sindacati furono sciolti d’autorità. Una legge del 14 luglio stabilì il “monopolio politico” del partito nazionalsocialista, le cui strutture si vennero progressivamente a sovrapporre a quelle dello stato. Al tempo stesso Hitler procedette all’epurazione dei quadri amministrativi, allo smantellamento della struttura federale della repubblica, alla costruzione di un efficiente apparato poliziesco (la Gestapo, che fu creata nell’aprile del 1933) e all’istituzione dei primi “campi di concentramento”. Preoccupato di assicurarsi l’appoggio del grande capitale e dell’esercito, Hitler decise di eliminare le frange estremistiche che all’interno del partito nazionalsocialista, e soprattutto delle SA, teorizzavano l’idea di una “seconda rivoluzione” diretta ad abbattere il capitalismo privato e a sostituire all’esercito tradizionale un esercito popolare: nella “notte dei lunghi coltelli” (30 giugno 1934) Röhm, Strasser, Schleicher e molti altri esponenti di questa tendenza furono uccisi dagli uomini delle SS. Dopo la morte di Hindenburg (2 agosto 1934), Hitler concentrò nella sua persona la carica di cancelliere e quella di presidente, diventando il capo indiscusso dello stato, del partito e dell’esercito. Negli anni successivi la costruzione dello “stato totale” (totalitarismo) fu ulteriormente perfezionata. La magistratura fu asservita al potere politico; la Gestapo, posta sotto il controllo di Himmler, nel 1936 divenne totalmente indipendente dalle interferenze dei tribunali e fu organizzata su scala nazionale; i campi di concentramento, sorvegliati da reparti speciali delle SS, cominciarono ad accogliere oppositori di ogni tipo: accanto agli ebrei, i socialdemocratici, i comunisti, i liberali, intellettuali di diverse tendenze, i protestanti e i cattolici. Al tempo stesso fu realizzato un programma di educazione e di propaganda integrale. L’istruzione fu nazificata, l’università si piegò quasi senza eccezioni al regime, fu creata un’ampia rete di organizzazioni giovanili; nel settembre del 1933 fu istituita la Camera per la cultura del Reich, sotto la direzione del ministro della Propaganda Goebbels. Giornali, radio e cinema divennero strumenti di una sistematica irreggimentazione delle masse. Al tempo stesso, un concordato siglato il 20 luglio del 1933 con Pio XI, regolò i rapporti con la chiesa cattolica. Nel 1934, sorse la “chiesa nazionale del Reich”, fondata sul paganesimo nazista. Con le “leggi di Norimberga” (settembre 1935) la persecuzione degli ebrei venne elevata a sistema, secondo quanto teorizzato da Hitler nel Mein Kampf (La mia battaglia), scritto in carcere nel 1924. La Carta del lavoro (20 gennaio 1934) e l’istituzione del “Fronte del lavoro” (24 ottobre 1934) riorganizzarono il mondo della produzione secondo criteri corporativi. Al tempo stesso, con la scelta di perseguire una conseguente politica autarchica e grazie soprattutto all’industria bellica, il regime giunse a realizzare la piena occupazione (1939). Nel quadro di questo “stato totale” – costruito sul consenso e sulla spietata repressione – ogni opposizione al regime fu resa pressoché impossibile. La macchina dello “stato totale” fu smantellata soltanto alla fine della seconda guerra mondiale (1939-45), che giunse al termine di una politica estera tedesca ispirata all’unico principio di rovesciare l’ordine internazionale creato a Versailles nel 1919. Hitler perseguì un duplice obiettivo: da un lato, quello di riunire in una “Grande Germania” tutte le minoranze tedesche dei diversi paesi europei; dall’altro lato, quello di procedere a un vero e proprio progetto di conquista verso est. Dopo aver ritirato la Germania dalla Società delle Nazioni (1933), Hitler avviò una intensa politica di armamenti reintroducendo – contro il dettato di Versailles – la coscrizione obbligatoria (1935). Reintegrata mediante plebiscito la regione della Saar (1935) e rioccupata la Renania (1936), Hitler strinse con Mussolini nell’ottobre del 1936 l’accordo che diede vita all’asse Roma-Berlino, trasformato poco più tardi nel patto anticomintern (con l’Italia e il Giappone), e quindi sostenne con uomini e mezzi le destre nella guerra civile spagnola (1936-39), favorendo così il successo di Franco. Dopo aver realizzato nel marzo del 1938 l’annessione (Anschluss) dell’Austria, nel settembre – dopo gli accordi di Monaco – l’annessione dei Sudeti, nel marzo del 1939 il protettorato sulla Boemia e la Moravia, Hitler siglò il patto di non aggressione nazi-sovietico (24 agosto 1939), per garantirsi il confine orientale nel caso di una guerra in Europa. L’invasione della Polonia nel settembre del 1939 diede inizio alla seconda guerra mondiale, che nei primi due anni fu dominata dagli straordinari successi delle armate tedesche. Con il fallimento dell’invasione dell’Inghilterra, con la sconfitta di Stalingrado (gennaio 1943) e quindi con lo sbarco degli alleati in Normandia (giugno 1944) le sorti del conflitto si rovesciarono fino a che, tra il marzo e il maggio del 1945, i tedeschi non si arresero alle forze alleate, giunte fino a Berlino. Insieme ad alcuni dei suoi più stretti collaboratori Hitler, che era in precedenza scampato a un tentativo di colpo di stato (20 luglio 1944) organizzato da un gruppo di ufficiali guidati dal colonnello von Stauffenberg, si suicidò il 30 aprile del 1945. Durante le fasi conclusive della guerra l’antisemitismo di regime – che aveva avuto uno dei suoi momenti più drammatici nella “notte dei cristalli” (9-10 novembre 1938) – giunse alla cosiddetta “soluzione finale” con lo sterminio di circa 6 milioni di ebrei nei campi di concentramento (olocausto).

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19. Il dopoguerra. La Germania occupata (1945-49)

Tra il 1945 e il 1949 la Germania fu posta sotto l’amministrazione delle potenze alleate – gli Stati Uniti, l’Inghilterra, la Francia e la Russia – che in base agli accordi di Jalta (4-11 febbraio 1945) e di Potsdam (17 luglio – 2 agosto 1945) crearono quattro zone di occupazione. Dopo la celebrazione del processo di Norimberga contro i criminali nazisti (14 novembre 1945 – 1° ottobre 1946) e la smilitarizzazione della Germania, a partire dal 1946 le tensioni tra le potenze del blocco occidentale e l’Unione Sovietica si fecero più acute. Nella parte occidentale fu attuata, con il sostegno degli Stati Uniti, un’importante riforma monetaria (giugno 1948) che, insieme agli aiuti concessi con il piano Marshall e alla rinuncia da parte degli occupanti alle riparazioni di guerra, permise una rapida ricostruzione del paese. Nella parte orientale, invece, i sovietici procedettero a nazionalizzare l’industria pesante e le banche, a varare una riforma agraria che spezzò l’organizzazione tradizionale del latifondo prussiano e promossero la fusione del Partito comunista e del Partito socialdemocratico nel Partito socialista unificato tedesco, la SED (aprile 1946). Preoccupato dalla prospettiva della rinascita di una Germania occidentale schierata in funzione antisovietica, Stalin attuò il “blocco di Berlino”, chiudendo gli accessi via terra alla città che, collocata nella zona orientale, era anch’essa divisa in quattro zone d’occupazione (24 giugno 1948 – 12 maggio 1949). Il tentativo sovietico – uno degli episodi più drammatici della guerra fredda – si risolse in un fallimento; al tempo stesso, tuttavia, accelerò il processo di separazione tra le due Germanie. Con gli accordi di Washington (8 aprile 1949) Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti stabilirono di unificare le loro rispettive zone in una nuova entità politica, la Repubblica Federale di Germania, che nel maggio del 1949 si diede una propria carta costituzionale (la Legge fondamentale di Bonn); i sovietici nell’ottobre del 1949 diedero vita, nella parte orientale del vecchio Reich, alla Repubblica Democratica Tedesca (RDT). Posta ancora sotto la tutela delle potenze occupanti, ma rientrata in possesso di autonome strutture di governo e di amministrazione, la Germania cessò così di essere per oltre 40 anni un’entità politica unitaria.

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20. Le due Germanie: la Repubblica Federale (1949-89)

Il 14 agosto del 1949 si tennero nella RFT le prime elezioni per il Bundestag (il parlamento). Con la vittoria dell’Unione cristiano-democratica (CDU), che ottenne il 31% dei suffragi, Konrad Adenauer fu eletto cancelliere (il liberale Theodor Heuss divenne presidente della repubblica). Rimasto al potere dal settembre del 1949 fino all’ottobre del 1963, Adenauer fu uno dei principali artefici della rinascita economica e politica della Germania occidentale. Fautore di una stretta alleanza con gli Stati Uniti e di una violenta contrapposizione alle potenze del blocco sovietico (nel 1955 la RFT, riottenuta la piena sovranità, entrò nella NATO), Adenauer diede libero corso all’iniziativa privata e agli interessi del grande capitale, inaugurando un lungo periodo di moderatismo politico e sociale fondato sulla coalizione tra la CDU, la CSU (l’Unione cristiano-sociale) e la FDP (il partito liberal-democratico). Nel 1952 e nel 1956 vennero sciolti rispettivamente il Partito socialista del Reich (un’organizzazione neonazista) e il Partito comunista. La SPD, che nel 1959 aveva preso definitivamente le distanze dal marxismo al congresso di Bad Godesberg, rimase all’opposizione. Entro questo quadro politico venne compiendosi il “miracolo tedesco”, una spettacolare ripresa economica che fu sostenuta in parte dai cospicui aiuti statunitensi (piano Marshall e piano Schuman) e in parte dall’oculata politica del ministro delle Finanze Ludwig Erhard. I grandi progressi realizzati nel campo dell’economia, insieme al miglioramento delle relazioni fra est e ovest, resero tuttavia sempre più gravoso il regime moderato di Adenauer. Dopo le elezioni del 1961, che videro una pesante flessione della CDU-CSU, Adenauer dovette cedere il potere al liberale Ludwig Erhard, che nel novembre del 1963 formò un nuovo governo. Il cancelliere, tuttavia, non fu in grado di adeguare il sistema politico della repubblica alla contrazione dello slancio produttivo che investì la Germania in quegli anni, all’esigenza sempre più diffusa di rinnovamento politico e sociale e, in politica estera, all’emergere dell’iniziativa gollista. Nel novembre del 1966 Erhard diede le dimissioni e gli subentrò alla guida del governo una “grande coalizione” fra i democristiani e i socialdemocratici, con Kurt Georg Kiesinger (democristiano) cancelliere e Willy Brandt (socialdemocratico) ministro degli Esteri. Dopo la contestazione studentesca degli anni 1968-69 – che coinvolse nella sua critica la SPD e diede per contraccolpo un preoccupante consenso elettorale alla NDP (Partito nazionale tedesco, di stampo neonazista) – si aprì una nuova fase di sviluppo economico, che favorì sul piano politico ed elettorale il Partito socialdemocratico. Questo, dopo aver insediato alla presidenza della repubblica Gustav Heinemann (marzo 1969), ottenne un grande successo nelle elezioni del settembre 1969, in conseguenza delle quali fu formato un governo socialdemocratico con l’appoggio dei liberali. Diventato cancelliere, Brandt modificò radicalmente gli schemi della politica estera di Adenauer, inaugurando la cosiddetta Ostpolitik, e cioè la ricerca di possibili strategie d’intesa con il blocco dei paesi comunisti, soprattutto con la Repubblica Democratica Tedesca, dentro il quadro di una sostanziale fedeltà all’alleanza atlantica. In questa prospettiva, il 21 dicembre del 1972 le due Germanie siglarono un trattato che pose le basi per una normalizzazione dei rapporti diplomatici. Al tempo stesso, con la Ostpolitik, la Repubblica Federale acquisì un ruolo di primo piano nei rapporti più generali tra est e ovest. In politica interna Brandt si sforzò di porre le basi per un efficace patto sociale tra capitale e lavoro, riuscendo al tempo stesso a infliggere una pesante sconfitta al terrorismo della banda Baader-Meinhof, che fu in parte sgominata nel giugno del 1972. Nel maggio del 1974, nel quadro delle tensioni sociali prodotte dalla crisi energetica internazionale Brandt diede le dimissioni e gli subentrò alla guida del paese il suo collaboratore Helmut Schmidt, che rimase al potere fino al 1982. Dopo aver affrontato con energia la crisi economica e suoi effetti gravissimi sui livelli dell’occupazione e dopo aver inferto un colpo decisivo al terrorismo, Schmidt vide progressivamente logorarsi l’alleanza – che durava fin dal 1966 – tra i socialdemocratici e i liberali. Questi ultimi, guidati da Hans Dietrich Genscher, si riavvicinarono alla CDU-CSU e sostennero la nomina di Helmut Kohl al cancellierato (ottobre 1982). Il nuovo cancelliere, tuttavia, proseguì sostanzialmente nella tradizione della politica sociale, mantenendo un elevato livello di spesa pubblica e rinunciando a una strategia conseguente di neoliberismo e di privatizzazioni. Nel maggio del 1984 fu eletto presidente della repubblica Richard von Weizsäcker. In politica estera, sotto la direzione di Genscher, il nuovo governo da un lato accettò di installare i missili americani Pershing sul proprio territorio; dall’altro lato, mantenne buoni rapporti con la Germania orientale e con l’Unione Sovietica. Nel nuovo clima instaurato dalla perestrojka di Gorbacëv, che il governo di Bonn sostenne concretamente con la concessione di un importante prestito a Mosca, Kohl cominciò quindi a caldeggiare il progetto di una riunificazione delle due Germanie.

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21. Le due Germanie: La Repubblica Democratica Tedesca (1949-89)

Nell’ottobre del 1949 nella Repubblica Democratica Tedesca fu nominato presidente il comunista Wilhelm Pieck; alla guida del governo fu posto invece il socialdemocratico Otto Grotewohl. Nella realtà, tuttavia, il potere fu saldamente accentrato nelle mani di Walter Ulbricht, il leader del Partito comunista tedesco orientale, fedelissimo all’Unione Sovietica. Lo sviluppo economico e politico della repubblica fu saldamente sottoposto alle direttive di Mosca, che mantenne un forte esercito d’occupazione nel paese. Nel 1949 la RDT entrò a far parte del Comecon. Dopo la morte di Stalin (5 marzo 1953), Berlino fu il centro di un’ampia rivolta operaia e popolare (giugno 1953), che ebbe le sue radici nel processo di rigida collettivizzazione cui la Germania orientale fu sottoposta, nel drammatico contrasto tra il basso tenore di vita all’est e all’ovest e, ancora, nel permanere di metodi politici di stampo staliniano. Di fronte all’insurrezione la SED non fu in grado di realizzare alcun controllo: furono quindi le stesse truppe sovietiche a reprimere la rivolta, che ebbe un ampio strascico di arresti e di condanne a morte. Da allora la repubblica fu sottoposta a una tecnocrazia subordinata a sua volta al rigido controllo dell’apparato di partito. Per arrestare i massicci spostamenti di manodopera verso la Repubblica Federale, il 13 agosto del 1961 fu costruito il muro di Berlino, che divenne subito uno dei simboli più cupi dell’età della guerra fredda. Alla morte di Pieck (1960), la presidenza della repubblica fu sostituita da un Consiglio di stato di cui divenne presidente Walter Ulbricht. Nel 1964 Grotewohl fu sostituito nella guida del governo da Willy Stoph. Nel 1956 la RDT aderì al patto di Varsavia, in risposta all’ingresso della RFT nella NATO (1955). Al tempo stesso strinse rapporti sempre più saldi con l’URSS, da cui importava praticamente tutte le materie prime che resero possibile il suo sviluppo economico. Dopo la normalizzazione dei rapporti con la Repubblica Federale (1972), la Germania orientale entrò nelle Nazioni Unite (settembre 1973) stringendo anche relazioni ufficiali con gli Stati Uniti. Di stretta osservanza sovietica, la repubblica stabilì in realtà rapporti sempre più saldi con la Germania occidentale. Lo stesso Erich Honecker, che dal 1971 era uno dei maggiori leader della SED e che nel 1976 divenne presidente del Consiglio di stato, fin dal principio degli anni Ottanta teorizzò apertamente l’importanza di un nuovo corso di relazioni con il vicino occidentale. Rimasto sostanzialmente estraneo al nuovo clima della perestrojka gorbacëviana, Honecker non fu tuttavia in grado di adeguare il vecchio regime politico alle sollecitazioni – anche dirette – provenienti dall’esperimento riformistico di Gorbacëv. E una simile strategia non poté reggere alle profonde trasformazioni che investirono i regimi comunisti dell’Europa centro-orientale alla fine degli anni Ottanta.

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22. Il 1989. Dalla caduta del muro di Berlino all’unificazione delle due Germanie

Il 1989 ha rappresentato un anno essenziale nella storia della Germania contemporanea. Nel quadro della crisi profonda del modello comunista – portata alle estreme conseguenze dalla perestrojka gorbacëviana – la prospettiva di una riunificazione delle due Germanie divenne infatti sempre più concreta: da un lato, per l’offensiva diplomatica della Repubblica Federale e, dall’altro, sull’onda di un gigantesco movimento spontaneo sviluppatosi all’interno della Repubblica Democratica. Nel giugno del 1989, durante una visita ufficiale a Bonn, lo stesso Gorbacëv avallò la prospettiva della riunificazione. L’impulso decisivo venne tuttavia dalla Repubblica Democratica, che permise alla diplomazia di Bonn di attivarsi. A partire dall’agosto del 1989 un flusso di migliaia di persone diede inizio a una migrazione spontanea e clandestina dalla Repubblica Democratica. Il 18 ottobre dello stesso anno, sotto la pressione di un’ondata incontrollabile ma pacifica di manifestazioni di opposizione, Honecker fu costretto a lasciare il potere. Il 9 novembre furono aperte le frontiere con la Repubblica Federale e fu abbattuto il muro di Berlino. In dicembre la SED si trasformò in Partito socialista democratico, mentre Kohl e Modrow – capo del governo della Repubblica Democratica – avviarono trattative sulla riunificazione delle due Germanie. Il 1° luglio del 1990 entrò in vigore l’unione monetaria, mentre nel marzo si tennero nella Germania orientale le prime elezioni libere, che diedero la vittoria alla CDU. Lothar de Maizière, democristiano, fu nominato capo del governo e con Kohl fissò per il 2 dicembre 1990 le prime elezioni pantedesche. Il 3 ottobre del 1990, infine, i Länder della Germania orientale furono uniti alla Repubblica Federale: da allora, con il consenso delle quattro potenze che avevano sancito la divisione del paese alla fine della seconda guerra mondiale, la Germania tornò ad essere un’entità politica unitaria.

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23. I primi decenni della Germania riunificata

Le elezioni pantedesche del dicembre 1990 diedero una salda maggioranza alla coalizione formata dalla CDU-CSU e dal Partito liberale, che ottennero 398 seggi contro i 239 del Partito socialdemocratico. Kohl, principale artefice della riunificazione, fu confermato cancelliere. Il 20 giugno 1991 il Bundestag votò per il ritorno della capitale a Berlino. Il costo economico e sociale della riunificazione fu aggravato dalla situazione quanto mai negativa dell’apparato produttivo della Germania orientale, dalla necessità che quella occidentale si addossasse il peso di questo costo e dalle diffuse resistenze di molti tedeschi dell’Est ad adattarsi all’economia di mercato. Gruppi dell’estrema destra e neonazisti fomentarono movimenti di opposizione e azioni violente contro gli immigrati, perlopiù provenienti dai paesi dell’Europa orientale, alimentando atteggiamenti xenofobi; sicché nel 1993 il governo per un verso mise al bando alcuni di questi gruppi, per l’altro introdusse misure restrittive sull’immigrazione. Nel 1993 la Germania ratificò il trattato di Maastricht, che dava vita all’Unione Europea. Le elezioni del 1994 riconfermarono la coalizione al governo e Kohl fu nominato cancelliere per la quarta volta consecutiva. In quello stesso anno una corte costituzionale decise che la Germania avrebbe potuto da allora in poi prendere parte a operazioni militari decise dall’ONU anche al di fuori della NATO. Le difficoltà di bilancio indussero il governo nel 1996 a forti riduzioni di spesa, che colpirono il sistema del welfare. Il peggioramento della situazione economica e l’alto tasso di disoccupazione favorirono nel 1998 la vittoria della SPD, che formò insieme con i verdi un governo presieduto da Gerhard Schröder. Un dissenso con il ministro delle finanze Oskar Lafontaine, troppo orientato a sinistra, condusse nel marzo del 1999 alla sua sostituzione con il più moderato Hans Eichel. Le misure di austerità varate dal governo portarono a una serie di sconfitte dei socialdemocratici alle elezioni nei Länder del 1999. In quello stesso anno forze armate tedesche presero parte alla guerra della Nato contro la Iugoslavia. Uno scandalo gravissimo, che mise in luce la responsabilità di Kohl in finanziamenti illeciti al suo partito, pose fine alla carriera politica dell’ex cancelliere aprendo invece la via ad Angela Merkel, che nel 2000 fu posta alla guida della CDU. Nelle elezioni politiche del 2002 la coalizione SPD-Verdi ottenne una nuova affermazione, sia pure di stretta misura, e Schröder fu così riconfermato alla guida del governo, la cui principale preoccupazione coincise negli anni seguenti nel rilancio dell’economia, nella ricostruzione dell’ex Germania orientale e nella riduzione della disoccupazione. Nel 2003, a fronte del continuo peggioramento della situazione economica, il governo lanciò un ampio programma di riforma dello stato sociale e di riduzione della spesa pubblica (Agenda 2010), che scatenò la forte reazione dei sindacati. Sul piano internazionale, nel 2002-03 la Germania fu, insieme alla Francia, tra i paesi europei che, criticando l’unilateralismo della presidenza Bush, si opposero maggiormente all’uso della forza contro l’Iraq. Dopo la pesante sconfitta subita dall’SPD nelle elezioni regionali del 2005 e a fronte della crescente impopolarità delle misure di risanamento economico adottate dal suo governo, Gerhard Schröder richiese al Presidente federale lo scioglimento anticipato del parlamento e la convocazione di nuove elezioni, che portarono alla formazione, sotto la guida di Angela Merkel, di una “grande coalizione” tra SPD e CDU.


Nelle successive elezioni parlamentari del 2009 la SPD registrò una drammatica flessione dei propri consensi che la riportarono, dopo oltre un decennio, all’opposizione, mentre la CDU formò un nuovo governo di coalizione con il partito liberale (FDP) e Angela Merkel fu riconfermata alla cancelleria. Soprattutto sul piano internazionale, nel corso del 2011, quest’ultima giocò, insieme al presidente francese Sarkozy, un ruolo di primo piano nel tentativo, non sempre coronato da successo, di predisporre a livello europeo risposte efficaci di fronte all’aggravarsi progressivo degli effetti della crisi finanziaria globale. Dopo le dimissioni del presidente Horst Köhler nel 2010 e quelle di Christian Wulff appena due anni dopo, nel marzo 2012 fu infine eletto un ex dissidente, Joachim Gauck, che divenne così il primo tedesco dell’ex Germania orientale a ricoprire la carica di presidente della repubblica. Nonostante i timori suscitati dalla crisi economica internazionale, le ottime prestazioni dell’economia tedesca si mantennero stabili, sicché la Germania si riconfermò negli anni seguenti uno dei paesi più stabili e prosperi dell’Europa.

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