L’Italia intorno all’anno Mille

età medievale I poli urbani di una società prevalentemente rurale

Esempio di questi compromessi è la pace che nel 1183 Federico I Barbarossa raggiunse con i comuni italiani: l’imperatore e re d’Italia acconsentì che i comuni della Lega Lombarda continuassero a riscuotere le “regalie” (cioè le imposte di competenza pubblica) in cambio del giuramento con cui i comuni si riconoscevano vassalli collettivi del re. In nessun’altra regione d’Europa le città avevano creato altrettante difficoltà ai poteri regi. In Italia il gruppo di famiglie che aveva dato origine al comune poteva essere aristocratico o borghese: ma in entrambi i casi aveva dato luogo a nuclei politici di grande forza propulsiva. Per tutta l’Europa si può parlare di comuni, ma solo per l’Italia e, in parte, per la Francia meridionale si può parlare di città-stato. I cives di questi comuni non si accontentavano di avere autonomia entro le proprie mura (come le città imperiali tedesche o i grandi comuni borghesi delle Fiandre), ma assoggettavano in modo più o meno ampio il contado circostante, di cui il comune diventava “signore collettivo”. In un mondo prevalentemente rurale, in cui quasi solo presso i mari settentrionali e, soprattutto, presso il Mediterraneo, c’erano grandi città, le regole della convivenza erano prevalentemente quelle del mondo rurale: e non deve stupire se gli organismi politici e sociali più innovativi, i comuni cittadini, si collocavano in una rete collaudata che era feudale verso l’alto (i comuni come vassalli collettivi del re) e signorile verso il basso (i comuni come signori collettivi del contado). Eppure il prestigio delle sedi urbane era forte anche nel medioevo: lo determinavano la tradizione di centralità ereditata dal mondo antico, la vivacità economica dei ceti urbani mercantili e finanziari, il carisma delle autorità vescovili presenti nelle città (civitas era appunto il centro abitato con un suo vescovo). In città troviamo i duchi longobardi e i conti franchi; nelle città cercavano di imperniare il loro potere (più spesso di quanto un tempo si pensasse) le stesse dinastie principesche e signorili di età postcarolingia; nelle città sorsero prima le più importanti scuole religiose (quelle dei canonici delle grandi cattedrali) poi le università; le città accolsero le vivacissime corti regie e principesche in cui poteva forgiarsi l’identità nazionale (come nella Parigi capetingia) e in cui potevano anche realizzarsi i più spregiudicati incroci fra culture diverse (come nella Palermo di Federico II). Fu più urbana la civiltà del tardo medioevo, ma sarebbe riduttivo interpretare la dialettica città-campagna come una dialettica arretratezza-progresso. I grandi latifondi, le armi, il potere sulla campagne hanno dettato le regole per quasi tutto il medioevo: suggerendo gerarchie sociali e fissando i modi della politica. Ma sempre usando le città come propri punti di riferimento: la città era il mercato, il luogo d’inurbamento delle famiglie aristocratiche, la sede in cui si diventava vassalli del vescovo. La convivenza urbana, poi, filtrava e riproiettava all’esterno esperienze rivisitate. L’innovazione, insomma, aveva nella città il proprio centro propulsore, ma rielaborava materiali che erano pur sempre quelli – decisivi per il millennio medievale in Europa – dell’incontro latino-germanico.